Momenti unici (e impensabili) di estatica contemplazione

[Foto di Baptiste Lheurette da Pixabay.]
Trovo regolarmente qualcuno che si sorprende a sentirmi raccontare – o a leggere ciò che ne scrivo – di essere andato in montagna in giornate che abitualmente definiamo “brutte”, piovose o nevose, con cieli grigi, foschie diffuse e nebbie e tutti quegli altri elementi meteo-climatici che, appunto, non ci fanno pensare a quelle giornate come “belle”.

Ma, come sostengo a ogni simile occasione a costo di diventare noioso, in montagna le giornate brutte non esistono (salvo rarissimi casi di oggettiva rischiosità): ciascuna di esse, serena, piovosa, sfavillante di luce o grigia di nebbia, è una giornata a sé, è un unicum che diventa tale non solo per le sue caratteristiche ambientali ma perché noi lo siamo nel qui-e-ora che vi esperiamo in quella particolare circostanza, diversi da com’eravamo il giorno prima e da come saremo l’indomani, o come cinque anni fa oppure tra dieci esattamente come diverso è il luogo in cui ci muoviamo e con il quale interagiamo – cambiano le condizioni meteo, le stagioni, i colori della vegetazione, del cielo, le luci e le ombre, le vedute, le percezioni, le emozioni, gli avvistamenti di animali selvatici, le persone che incrociamo e magari con le quali ci fermiamo a scambiare due parole. È la rielaborazione costante della nostra relazione con il luogo e il suo prezioso arricchimento: a ogni elemento esperienziale precedente si aggiungono quelli nuovi, per quanto sopra differenti, e la prossima volta se ne aggiungeranno di ulteriori, ancora diversi. Come cambia il paesaggio esteriore, cambia quello interiore che introiettiamo nel nostro andare in ambiente, nel caso aggiornando quello che ci si era già depositato dentro in forma di mappa cognitiva personale nelle precedenti occasioni.

Tuttavia c’è un elemento, per certi versi più oggettivo ma non di meno fondamentale, che mi rende così piacevole vagare per le montagne (io vado lì, ma il principio è lo stesso per ogni altro luogo che possa offrire simili circostanze e esperienze) quando il tempo è “brutto”. Nel caso in cui le giornate sono belle, il clima è favorevole e l’intero territorio splende alla sua massima bellezza, in buona sostanza si ritrova la condizione che riteniamo di norma sperata e ideale per camminarci, vagarci, esplorarlo, ricavarci la più ampia soddisfazione: ed è così, ovviamente, nulla si può dire al contrario. O quasi: perché invero, quella massima bellezza dei luoghi c’è anche nelle condizioni ambientali peggiori, solo che da esse ne viene celata oppure ci costringe a non considerarla come potremmo proprio perché ci tocca restare maggiormente sensibili a quelle condizioni più o meno disagevoli. Passatemi la definizione: le giornate belle in montagna sono ciò che ci aspettiamo di trovare, sono la normalità, l’ovvietà attesa, sperata, ciò che rende tangibili le nostre aspettative come le abbiamo desiderate immaginando la gita da compiere. Il clima perturbato, invece, in qualche modo ridona mistero ai luoghi e ai loro paesaggi, li rende meno attendibili, costringe ad acuire verso di essi e il moto nelle loro geografie una maggior sensibilità che invece la giornata di pieno Sole non richiede, conferendoci un ben maggiore comfort. Giornate così belle nelle quali, forse, il Genius Loci del territorio nel quale stiamo non si fa vedere, si tiene nascosto, abbagliato da tanto sfavillio e per ciò timoroso di non essere considerato come meriterebbe. Per poi invece disvelarsi nuovamente proprio quando le condizioni si fanno meno confortevoli e dunque vi è necessità della sua presenza, del suo aleggiare sul luogo così da rimetterne in luce l’anima, e l’identità peculiare – che ci sono sempre, ripeto, con il bello e il brutto tempo.

[Foto di Полина Андреева da Pixabay.]
Le nebbie e le foschie che si sfilacciano intorno a punte, valloni, canali ridefiniscono a ogni istante le forme dei monti regalando spesso percezioni inedite delle loro morfologie e della presenza geografica nel territorio d’intorno, i boschi si ammantano di un’aura incantata, la pioggia che bagna il terreno consente il rilascio di innumerevoli olezzi naturali che altrimenti rimarrebbero sopiti, la neve ridefinisce dimensioni, forme, distanze oltre che i colori, variando spesso in modo sorprendente i registri cromatici della Natura. È la perturbazione della normalità, l’eccezione alla regola abitualmente sperata e magari invocata ma più superficialmente che per altri motivi, il cambio di prospettiva immateriale che, pur lasciando il luogo intatto nella sua materialità, lo ammanta di un’estetica e di una dimensione differente, capace – come detto – di donarci altrettanto differenti sensazioni, percezioni, visioni, emozioni ed esperienze del luogo, che accresceranno grandemente in noi la sua conoscenza e, ne sono certo, la voglia di tornarci di nuovo, per rivivere una tale perturbazione e raccoglierne l’inopinata contemplazione ogni volta come un dono che sarà sempre diverso dal precedente e dal successivo.

Ecco, la conquista di questi eccezionali, unici momenti di estatica contemplazione è forse ciò che più di altra cosa mi fa andare per monti anche nelle “giornate brutte”: perché ormai so bene di ritrovarli anche lì, ogni volta, immancabilmente, e come sempre arricchenti la mente, il cuore, l’animo e lo spirito come poche altre cose sanno fare.

N.B.: l’ispirazione alla base di questi miei pensieri viene da Franco Michieli, il più originale esploratore italiano e mio prezioso conoscente, che ne ha scritto in altri modi su Le Vie insivibili, l’ultimo suo libro pubblicato, del quale vi scriverò presto.

Valgreghentino, un “piccolo mondo antico” di grande fascino contemporaneo

Pioviggina, nubi grigie coprono le montagne, veli di foschia vagano nel fondovalle… le condizioni ideali per una bella passeggiata, che io e il segretario personale (a forma di cane) Loki questa volta dedichiamo al piccolo mondo antico di Valgreghentino, in provincia di Lecco, comune adagiato sul boscoso versante abduano del Monte di Brianza nel punto dal quale si può godere la più bella visione del Resegone dal lato della Val San Martino.

Ma attenzione: uso quella definizione “fogazzariana” non per sostenere che Valgreghentino sia un luogo fuori dal tempo, dunque con accezione negativa. Voglio invece rimarcare come Carghentin (il toponimo locale, sì) se ne stia tranquillo nella sua bella valletta boscosa al di fuori di quel tempo che connota la nostra contemporaneità e corre fin troppo veloce, se non proprio frenetico, lungo la trafficata strada provinciale 72 che da Lecco costeggia l’Adda e scende verso la Brianza meratese tra innumerevoli capannoni industriali – altro segno del tempo corrente e della poca armonia di tali insediamenti, pur essenziali, con il territorio circostante. Valgreghentino invece da questo tempo iper contemporaneo se ne sta un passo indietro, e un poco più in alto, separato e protetto dal rumore laggiù al piano dalla collina morenica della Rocchetta oltre che dai fitti boschi che coprono il Monte di Brianza appena oltre le case del paese, regalando un “piccolo mondo” di pace e tranquillità che appare ben più in armonia con il proprio territorio di tanti altri luoghi, pur stando a pochi chilometri dalla caotica Lecco e nel bel mezzo della Lombardia più antropizzata.

L’elemento “antico”, poi, è dato al “piccolo mondo” di Valgreghentino dalla sua storia – qui transitava la romana Via Spluga, che metteva in comunicazione Milano con Lindau transitando dall’omonimo passo – e soprattutto dalla sua urbanistica di matrice rurale, che intorno al centro comunale vero e proprio annovera numerosi piccoli nuclei sparsi spesso in forma di corti, di origine seicentesca e foggia architettonica tradizionale lombarda (quindi di planimetria quadrata, suddivisione interna funzionale al lavoro nei campi con fienili, stalle, alloggi per i “padroni” e i contadini, un unico grande portone d’ingresso, spesso al centro del cortile interno una grande pianta a sua volta tipica del territorio – gelso, caco, tiglio, ciliegio et similia) e dotate non di rado di dettagli di notevole pregio – colonnati, porticati, fregi, ornamenti esterni, eccetera – nonché ciascuna dotata d’un nome assolutamente referenziale nella geografia antropica locale, sovente poi divenuto toponimo identificativo del luogo.

Lasciata l’auto presso Ganza, uno dei nuclei più interessanti in forza della sua origine signorile (certificata dalla presenza, nell’annessa chiesina di San Giuseppe, di una pregevole pala di Andrea Lanzani, datata 1680 dunque coeva al nucleo), io e il segretario Loki percorriamo sotto una pioggia costante ma non fastidiosa – se ben equipaggiati – la sponda destra della valle del Greghentino fino alla zona occupata da alcuni capannoni industriali, l’unica in prossimità del centro comunale contagiata dal “mondo moderno” il quale produce e rumoreggia più cospicuamente laggiù lungo l’Adda, come detto. Questa zona in buona sostanza è l’”altopiano” che divide il bacino del torrente Greghentino, il quale scorre verso nord, da quello di Val Tolsera che invece scende a sud (verso Airuno, i cui abitanti lo chiamano orgogliosamente “fiume”); da questo bordo meridionale saliamo per stradine e un breve tratto di sentiero verso il Santuario della Rocchetta, il cui complesso occupa la sommità della lunga collina morenica che divide Valgreghentino dall’ampio corridoio orografico nel quale scorre l’Adda. La Rocchetta è uno dei luoghi più rinomati e frequentati dai fotografi lombardi, per il panorama che offre del bacino abduano lì dove si distende nel grande piano della Palude di Brivio con a levante la scenografica quinta prealpina che dal Resegone corre lungo la dorsale dell’Albenza verso il Monte Linzone e i colli di Bergamo, e più dietro, a nord, il Coltignone, le Grigne, i monti della Valsassina e quelli sovrastanti il Lago di Como.

Da quassù sono state scattate fotografie che hanno vinto concorsi internazionali, dunque immagino che nonostante la pioggia, anzi, proprio per questo tempo uggioso che fa vagare sulla valle pittoreschi drappi di foschia e nuvolaglie in continuo sfilacciamento creando di continuo visuali panoramiche estremamente suggestive, ci sia su qualcuno con le proprie apparecchiature fotografiche che ne approfitta, oltre a qualche visitatore in passeggiata come noi… Invece no, non c’è anima viva. Incredibile! Non sanno cosa si perdono, quelli che troppo viziati dagli agi della vita odierna rifuggono un po’ di pioggia e di umidità! O forse siamo noi che non avevamo di meglio da fare, oggi, che venire quassù a imbrumarci e infangarci? Be’, in ogni caso, per quanto ci riguarda meglio così. Il luogo s’ammanta, oltre che di foschie erranti, di un’atmosfera fascinosa e surreale, di inopinata quiete, di sospensione solo appena disturbata da rumore del traffico in transito sulla provinciale centocinquanta metri più in basso, proprio ai piedi della scogliera sulla quale si regge il Santuario che è il segno antropico ultimo d’una serie di altri precedenti, con scopi militari, a loro volta di primigenia origine romana – un castrum datato fra il V e il IX secolo d.C. che lassù assiso poteva facilmente controllare tutta la Val San Martino e qualsiasi transito che dalla bergamasca passasse verso Lecco e la Valtellina, rimanendo altrettanto facilmente immune da eventuali arrembaggi ostili.

È un’atmosfera quasi gotica, con la pioggia, le nubi basse, la nebbiolina che vaga sopra l’Adda e s’infila nei boschi a monte del paese, la chiesa col suo portico silenti, la “scala santa”, le cappelle votive che paiono lapidi, le statue esangui e grigie come il cielo, gli alberi nella loro scheletrica veste invernale e, appunto, nessuna presenza umana. Le uniche note di colore sono quelle delle case che formano i vari nuclei di Valgreghentino, laggiù oltre il piano, e il verde dei prati, ravvivato e lucidato dalla pioggia, che di contro rende più cupa l’ombrosità silvestre d’intorno.

Torniamo verso valle, io e Loki, e tagliando per quei prati madidi e odorosi di buona terra puntiamo su Miglianico, altro affascinante nucleo rurale poco a monte del centro di Valgreghentino, dalle cui vie s’intravedono edifici rurali apparentemente disabitati (in effetti su alcuni non manca il cartello «VENDESI») dalla foggia possente e affascinante. Farebbero la gioia di un architetto bravo e competente: preservandone la struttura originaria ne potrebbe ricavare delle dimore spettacolari (ho scritto “competente” perché non di rado i tecnici che mettono mano su tali edifici di pregio combinano dei gran disastri, inevitabilmente deprecabili). Dopo che il segretario Loki si è dilettato in una delle attività da lui preferite e da me irrefrenabili, le abluzioni torrentizie (nel Val Tolsera, in questa circostanza, le cui acque ribollenti delimitano Miglianico a meridione), proseguiamo lungo la strada asfaltata puntando verso il centro comunale e continuando a godere della quiete e della tranquillità che domina il paesaggio, quindi gironzoliamo per le anguste viuzze che caratterizzano il paese sulle quali si affacciano altre belle corti: nota di merito al comune, o a chi per esso, che per ciascuna ha installato dei piccoli pannelli che ne illustrano rapidamente storia e peculiarità, così rimarcandone il valore per il paese e la comunità che lo vive e anima.

Infine puntiamo di nuovo su Ganza, ove ho lasciato l’auto. Per tutto il tempo la pioggia non ha cessato di cadere, d’altro canto mai diventando troppo fastidiosa. Alla fine diventa essa stessa parte del paesaggio e del suo godimento, il rumore leggero delle gocce cadenti sul terreno si intona con il sottofondo generale – d’altronde Valgreghentino è anche luogo d’acque, diffusamente elargite dal Monte di Brianza – ravvivando le percezioni sensoriali e al contempo facendo di questi momenti qualcosa di più intimo, più genuino – vuoi anche per la solitudine che ci ha scortato per quasi tutto il cammino. Meglio soli che male accompagnati, come recita il noto detto? Non saprei, viceversa so per certo ormai che a volte non è meglio il Sole di questi tempi uggiosi, per molti tristi, noiosi, che invece sanno regalare inusitate suggestioni a chi decida di farne, invece che un motivo di fastidio, una fonte di complessità, di trasformazione delle cose più ovvie e ordinarie in altre che l’imprevedibilità rende fascinose e, alla fine, più memorabili. Così il “piccolo mondo antico” di Valgreghentino diventa un luogo a suo modo grande per quanto appaia ricco di proprie peculiarità, importanti oppure minime ma comunque referenziali, di un’anima singolare e viva, a suo modo speciale, nonché un posto niente affatto fuori dal tempo, anzi: forse è proprio qui che il tempo scorre nel modo più naturale e benefico e tale lo si può percepire, non altrove dove la sua corsa genera fretta, affanno e nervosismo. Basta risintonizzarsi su quel ritmo più genuino e vitale e Valgreghentino aprirà la sua anima così particolare, così peculiare al visitatore, ne sono certo.

N.B.: ad eccezione di quella in testa al post le foto le ho fatte io, che non sono un fotografo, con uno smartphone che non è certo all’ultimo grido, dunque non sono nulla di che. Non ne abbiate a male.

N.B.#2: la Pro Loco di Valgreghentino presenta sul proprio sito un percorso di visita storico-culturale del paese e delle sue frazioni, che trovate qui.

Nebbia

Sono giornate dalle condizioni meteorologiche variabili queste, qui dalle mie parti, e sovente i monti sui quali vivo sono avvolti dalla nebbia: a volte poco più che una foschia, altre volte tanto fitta da poterla quasi abbrancare – o, come si dice in tali casi, “da poter essere tagliata con un coltello”.

Fa paura a tanti, la nebbia, mette inquietudine, disorienta e confonde. È senza dubbio pericolosa in certi casi, inutile rimarcarlo; eppure, quando avvolge il paesaggio naturale e ne rende evanescenti i contorni, gli alberi, i profili delle case, le luci artificiali, ovattando pure (almeno così pare) suoni e rumori, a me dona una sensazione di cordiale intimità. Non mi ci sento disperso e privo di coordinate spaziali, oppure confuso dall’impossibilità di vedere cosa ho intorno, anzi, al contrario è come se la nebbia mi acuisse la sensibilità sensoriale, mi obbligasse a percepire ancora meglio la mia presenza e il moto nello spazio dando maggior importanza ai dettagli minimi, quelli che ogni tanti emergono più o meno indistinti dal velo brumoso e che da soli devono e possono disegnare nella mia mente il paesaggio nelle vicinanze. Un paesaggio totalmente avvolto in questa coperta nebbiosa, forse disorientato ma, in fondo, per certi versi anche protetto da essa.

Poi, certo, ammetto che forse tutto ciò deriva dalla mia personale, e probabilmente inopinata, passione per i climi “difficili” – pioggia, gelo, nebbia, eccetera – ma ciò non per un personale eventuale ombrosità d’animo, semmai perché grazie ad essi posso ancor meglio apprezzare e godere i climi più luminosi, confortevoli, accoglienti, sapendo che gli uni e gli altri sono comunque due aspetti dello stesso paesaggio che vivo e con il quale in ogni caso mi relaziono, ogni volta che lascio le mura domestiche. Indispensabilmente, che piova, nevichi, vi sia nebbia o che splenda il più abbacinante Sole.

Giornate belle proprio perché uggiose

Eppure io non riesco proprio a farmi intristire da queste giornate uggiose, piovose, di nubi basse e foschie vaganti, nemmeno se è maggio e dovrebbe già sfavillare un Sole quasi estivo quando invece la temperatura è novembrina.
Perché questa meteo, quest’atmosfera che tanti incupisce, a me piace, lo ammetto – anzi, lo ribadisco. Mi dà una sensazione di pacatezza, di intimità, di rumori ovattati, luminosità mai troppo abbacinanti, di nuvolaglia poggiata sulle forme dei monti come avvolgenti e confortevoli coperte, di profumi delicati effusi dal terreno bagnato, di colori naturali resi vividi dalla pioggia. Una percezione di riacquisito lindore, di sanità e purezza, di abbeveramento dello spirito al pari della Terra.

Certo: le giornate assolate, quelle calde al punto giusto, senza una nuvola nel cielo azzurro e limpido sono bellissime, ma a volte mi danno l’idea – se così posso dire – di un affollato concerto nel quale la musica sia entusiasmante ma a volume troppo alto, mentre le giornate uggiose mi ricordano certi piano bar un po’ dismessi ma accoglienti, con la musica altrettanto coinvolgente e al giusto volume. Bellissima l’una e l’altra atmosfera se godute per ciò che sono nel giusto modo, per gli stessi motivi ne l’una e né l’altra intristenti o irritanti, per nulla.

I monti naviganti

A volte sono numerosi i vascelli montani, qualcuno anche in immersione, che navigano lungo le proprie rotte superdimensionali nel Gran Mare Nebuloso Alpino
Hanno scafi di solida roccia, pennoni di legno, ponti di comando alti e svettanti, velature fatte di cielo e propulsori che funzionano a energia onirica.
Lasciano una scia che increspa il tempo e, fateci caso, all’apparenza sembrano fermi ma solo perché tutto il mondo intorno è in movimento. Al punto che, imbarcandosi su di essi, si può navigare verso l’infinito, laggiù dove i porti sono baie profonde al riparo dello spirito e in cui attraccare è una meta realmente degna del viaggio compiuto.

P.S.: ovviamente il titolo del post è un omaggio a questo libro.