Il masso caduto sulla SS36, ovvero: per cosa dobbiamo dire “grazie” alle prossime Olimpiadi invernali?

P.S. – Pre Scriptum: questo che state per leggere è un intervento inviato alla stampa lecchese e valtellinese, ma credo che le considerazioni che vi propongo abbiano valore generale, soprattutto in senso civico.

In merito alla vicenda del masso caduto sulla Strada Statale 36 e sulla linea ferroviaria tra Lecco e Abbadia Lariana, il vicepresidente della Provincia di Lecco Mattia Micheli è intervenuto affermando che «È grazie alle Olimpiadi se la superstrada non è mai stata chiusa. Proprio perché c’era in corso un appalto Anas ha potuto intervenire nell’arco di poche ore non solo sulla rimozione del masso ma anche sul versante eseguendo subito una ricognizione».

Al netto dell’apprezzamento per il rapido intervento di Anas, e posto il massimo rispetto per la figura istituzionale da egli rappresentata, è bene rimarcare al vicepresidente Micheli che in un normale paese avanzato come l’Italia crediamo tutti quanti sia, dovrebbe essere la norma che si intervenga rapidamente su un’arteria fondamentale per una gran parte del territorio alto-lombardo e per le centinaia di migliaia di cittadini che vi abitano e della SS36 fruiscono (peraltro per un episodio grave ma non così importante), non che ci sia bisogno delle Olimpiadi per garantire la rapidità di intervento e i relativi fondi ovvero quella che dovrebbe essere la manutenzione ordinaria della strada.

D’altro canto la SS36 non esiste da ieri e la pericolosità del versante oggetto del crollo del masso – ultimo di una lunga serie di dissesti – è nota da decenni: come hanno giustamente denunciato alcuni geologi, non si è mai seriamente investito nel monitoraggio delle zone a rischio e nella conseguente prevenzione, il che rende ben chiaro come un intervento pur rapido consentito dal fatto che ci saranno le Olimpiadi – un evento fuori dall’ordinario, in verità – non può affatto rappresentare una cosa della quale essere realmente «grati», tanto più se pure in prospettiva olimpica si ragiona solo in termini di emergenze da risolvere anziché prevenirle.

Se invece le affermazioni del vicepresidente Micheli fossero un tentativo di rendere più gradito e benaccetto un evento come “Milano-Cortina 2026” che, al di là delle sue belle valenze sportive e di vetrina turistica per le località coinvolte, palesa una gestione e un’organizzazione delle opere connesse a dir poco discutibile, il risultato temo che non sia dei migliori – sempre con rispetto parlando.

Piuttosto, c’è da augurarsi che la spesso rimarcata legacy che l’evento olimpico dovrebbe generare a vantaggio dei nostri territori porti una ben maggiore attenzione verso la rete viabilistica lombarda  e in particolar modo nei confronti della Superstrada 36, arteria nata solo quarant’anni fa ma già vecchia e variamente ammalorata tuttavia fondamentale per l’alto Lago, la Valtellina e la Valchiavenna. In tanti già lanciano l’allarme sul rischio di una sua possibile futura chiusura e dunque di un inevitabile isolamento dei territori citati, peraltro a fronte di una linea ferroviaria Lecco-Colico pur rimodernata ma che rimane sostanzialmente la stessa di fine Ottocento – anche a livello di servizi offerti ai viaggiatori, purtroppo. Con o senza Olimpiadi, sarebbe bene lavorare e finalmente investire sul serio a beneficio delle comunità del territorio in questione, con una particolare cura sua alla gestione infrastrutturale e alla salvaguardia ambientale.

 

Se il dissesto idrogeologico fa crollare le strade ma non le piste da sci

Il persistente periodo piovoso che sta caratterizzando questa primavera in Nord Italia, soprattutto nelle aree alpine e prealpine, con i suoi fenomeni meteorologici sovente estremi determinati dal cambiamento climatico in corso, ha causato un conseguente esorbitante numero di danni e dissesti idrogeologici che hanno colpito le strade dei territori montani un po’ ovunque, con i relativi disagi del caso, e al contempo ne hanno ben evidenziato la fragilità che, bisogna temere, andrà peggiorando negli anni futuri.

Eppure, non pare che vi sia un grande entusiasmo da parte degli enti politici a favore dello stanziamento di risorse per mitigare gli effetti così diffusi e frequenti del dissesto idrogeologico (nonostante la cronicità del problema) e per assicurare un’adeguata manutenzione alla rete viabilistica montana al servizio delle comunità residenti. Addirittura si è avuta notizia recente di tagli alle risorse pubbliche destinate a questo ambito, mentre a livello regionale i fondi riservati appaiono ben scarsi rispetto alle necessità. Viceversa, sembra rimanere immutato l’entusiasmo per spendere (o forse dovrei già scrivere per sperperare) decine di milioni di Euro di soldi pubblici per progetti sciistici tanto faraonici quanto anacronistici e impattanti: come i 50 – cinquanta! – milioni su 70 totali per il progetto di collegamento sciistico tra Colere e Lizzola (sul quale ho già scritto più volte, si veda qui), ma è solo un caso dei numerosi che negli ultimi anni sono saltati fuori qui e là sulle nostre montagne, quasi sempre al di sotto dei 2000 m di quota e spesso su esposizioni che mettono a rischio la tenuta del manto nevoso, dunque la logica generale di questi interventi paventati.

[Una recente frana in alta Valle Brembana, provincia di Bergamo. Immagine tratta da “L’Eco di Bergamo“.]
In ogni caso, anche a prescindere dalla sostenibilità (ambientale, economica, culturale) di tali progetti, non sarebbe il caso di prestare più attenzione, e dunque più risorse, a mettere in sicurezza le infrastrutture principali al servizio delle comunità di montagna prima di costruirne altre utili solo al divertimento altrui e a pochi altri? Ciò dal momento che, come accennato, il cambiamento climatico in corso mette sempre più a rischio i versanti montani: identificare tutte le criticità presenti e prevenire gli eventuali dissesti è certamente impossibile, ma senza dubbio è ben più possibile intervenire dove quei rischi siano ormai risaputi, soprattutto quando incombenti sulle più importanti strade di collegamento nei territori montani, assicurando in questo modo benefici fondamentali agli abitanti e alla loro quotidianità. Non mi pare che seggiovie e telecabine possano servire a portare gli abitanti della montagna ai luoghi di lavoro o negli ospedali di zona, almeno non quanto una strada sicura e ben manutenuta! Dunque quale dovrebbe essere la priorità di spesa pubblica, tra le due cose?

Insomma: anche stavolta il nocciolo della questione riporta a un semplice ma ineludibile principio di buon senso (generale ma civico e politico in particolare) e di sensibilità nei confronti dei nostri territori, montani e non solo. Cose che, continuo a temere, servono poco per formulare slogan e fare propaganda politica, ecco.

Una “grande diga” in Brianza?

[Una veduta della Brianza, con il primo piano il Lago di Pusiano, dalla sommità del Monte Cornizzolo, Immagine tratta da www.trekkinglecco.com.]
Forse non tutti sanno che (cit.) anche in Brianza esiste una grande diga.

«In Brianza? Com’è possibile? In Brianza non ci sono che dolci e piatte colline e nessuna vallata come quelle montane!» forse qualcuno di voi esclamerà.

È possibile, invece: si tratta del Cavo Diotti, una “grande diga” che regola le acque del Lago di Pusiano, il maggiore dei laghi briantei, sita a Merone a sud ovest del bacino lacustre.

Ma devo fare una premessa, al riguardo: una «grande diga» è, per definizione di legge, «uno sbarramento di ritenuta (diga o traversa fluviale) di altezza superiore a 15 m o che realizza un serbatoio artificiale di volume superiore a un milione di metri cubi di acqua». Lo sbarramento del Cavo Diotti è alto poco più di due metri e largo una decina scarsa, tuttavia è in grado di regolare ben 15 milioni di metri cubi delle acque del Lago di Pusiano, che in totale ne contiene 81 milioni di metri cubi. È dunque, tecnicamente e idrologicamente (nonché per legge, appunto), una «grande diga» in piena regola ma, viste le sue dimensioni, la si potrebbe tranquillamente definire la più piccola grande diga d’Italia!

Non solo: il Cavo Diotti è considerata anche la più antica diga italiana ancora in attività, essendo entrata in servizio nel 1812 – ma con ideazione originaria ancora precedente, nel 1793 – grazie all’intuizione dell’avvocato Luigi Diotti e con l’idea di costruire un emissario artificiale del lago di Pusiano in modo da regimentare le piene e disciplinare il flusso delle acque del fiume Lambro, di vitale importanza per l’economia briantea dell’epoca. In tal senso rappresenta anche uno dei primi esempi in assoluto di opera di prevenzione contro il dissesto idrogeologico: da più di due secoli la diga assume il fondamentale ruolo di rilasciare l’acqua del Lago Pusiano nei tempi e nei modi previsti dall’uomo, per garantire incolumità alle persone e salvaguardia del territorio mitigando le potenziali ondate di piena.

Negli anni Ottanta del Novecento il manufatto, fino ad allora mai restaurato, fu dismesso ma le piene dei primi anni Duemila ne dimostrarono e riaffermarono l’utilità strategica – peraltro crescente, vista la realtà climatica in divenire e le sue conseguenze meteorologiche. Così nel 2016, dopo due anni di lavori di manutenzione straordinaria, il Cavo Diotti ha riaperto, tornando a proteggere la Valle del Lambro settentrionale e il territorio brianzolo contiguo dagli eventi idrici estremi.

Posta la sua piccola taglia dimensionale, è pure una diga “nascosta”, difficile da trovare senza adeguate indicazioni; di contro è un bene inserito nei “Luoghi del Cuore” del FAI ed è visitabile anche giungendovi in navigazione dal lago: un’esperienza particolare che consente di scoprire la diga e esplorare la bellissima area dell’emissario naturale del lago, dal quale ad un tratto devia l’emissario artificiale – il “Cavo” vero e proprio –  che infine conduce allo sbarramento.

Per saperne molto di più (e ammirare numerose immagini, dalle quali provengono quelle che vedete qui) su questa sorprendente piccola/grande diga brianzola potete leggere questo bell’articolo dal sito web del Lake Pusiano Eco Team, meritoria associazione che opera in vari modi nella tutela dell’ambiente del Lago di Pusiano e nella sensibilizzazione collettiva al riguardo.

Brucia la montagna, brucia la civiltà

A destra un’immagine dal Piemonte e a sinistra dalla Valtellina, riprese praticamente nelle stesse ore, settimana scorsa. Per entrambe, un’unica realtà, un unico senso: devastazione.
Sono le ennesime di una lunga serie che la storia italiana presenta da decenni e nelle ultime ore si sta purtroppo infoltendo di nuovi casi: anche così si “uccidono” le montagne, si distruggono il patrimonio ambientale, la loro cultura, il loro futuro e quello della gente che vi vive. Con buona pace di chi creda che tali fatti siano solo il frutto di “sfortunate fatalità naturali” e non pensi che la prevenzione di tali eventi sia parte integrante e fondamentale della buona gestione dei territori di montagna e della preservazione del paesaggio – il quale è un elemento culturale primario – ancor più oggi con gli inquietanti cambiamenti climatici in atto. La scellerata assenza di tali azioni, ormai sempre più diffusa (sui monti e non solo), è un’ignobile mancanza della politica, senza dubbio, ma pure – e in senso generale mi viene da dire soprattutto – una tragica e letale mancanza di cultura e di senso civico. Cioè di autentica civiltà: che sui monti si trova ancora più che altrove, e che va salvaguardata, ovunque essa sia, da qualsiasi “civile” scelleratezza così come dai tanto frequenti (e assai italici) “stati di calamità naturale” con i quali continuiamo a scaricarci d’ogni responsabilità nonché, ugualmente e senza nemmeno comprenderlo, “scaricandoci” da qualsiasi buon futuro, incenerito prima ancora che si sviluppi.

P.S.: sarebbe pure finalmente il caso di considerare il reato di “incendio doloso” ai danni del patrimonio ambientale come tra i più gravi dell’ordinamento penale, adeguando le relative condanne alla massima severità ovvero ben di più quanto oggi la giurisprudenza preveda. Molto, molto di più.