Le funivie per “turisti” di una volta, le funivie per “clienti” di oggi

[Una delle cabine della funivia Campodolcino-Alpe Motta (Valle Spluga, Sondrio), attiva dal dicembre 1952 a metà anni Novanta. Portata: 140 persone all’ora. Foto mia, estate 2022.]
Ah, i “bei tempi andati” nei quali le funivie servivano per portare in cima alle montagne turisti e villeggianti, non clienti e consumatori come oggi! – penso nell’osservare queste due fotografie scattate qualche tempo fa.

Era meglio allora? No, non è detto – niente passatismi, ci mancherebbe. A quei tempi (che sono comunque “andati”, appunto) non c’era la tecnologia per fare di più: se ci fosse stata non è detto che sarebbero state realizzate funivie ben più capienti. Parimenti, il seme della massificazione turistica poi sviluppatasi grazie al boom economico dal dopoguerra in poi c’era già, in quella frequentazione montana d’antan che andava meccanizzandosi viepiù. Era piantato e stava germogliando, abbisognava solo di un poco ancora di “fertilizzante”, ecco.

Tuttavia, mi viene da ritenere, c’era ancora il contesto, allora. C’era la montagna in quanto tale, luogo geografico e culturale differente dalle città dunque da scoprire grazie a quelle prime funivie e, per questo, pagare un biglietto per goderne; oggi invece l’impressione frequente è che la montagna ci sia, nel turismo, in quanto bene da vendere all’ingrosso e, per ciò, pagare per consumarne il più possibile.

[La cabina superstite della funivia Torre de’ Busi-Valcava (Val San Martino, Bergamo) attiva tra il 1925 e il 1977, una delle prime d’Italia. Portata: 80 persone all’ora. Foto mia, dicembre 2022.]
Un dato fondamentale negli ski resort contemporanei, e puntualmente vantato dai loro gestori, è quello della portata oraria degli impianti di risalita, usato poi per giustificare l’ammontare in km delle piste e viceversa: mi pare la stessa logica dei sempre più grandi centri commerciali, per i quali la quantità di negozi ne giustifica l’estensione sempre maggiore, e viceversa – più metri quadrati a disposizione, più negozi per più clienti/consumatori. Più impianti e piste, più sciatori. E più skipass venduti: per i gestori dei comprensori una necessità inesorabile, visti i costi che devono sostenere. Ma le montagne sono ancora quelle delle funivie del secolo scorso da poche persone per cabina, non è che col tempo i loro versanti si siano ampliati: più se ne utilizza, della loro superficie, più ne appare evidente il consumo sia materiale – la parte assoggettata a piste e a terreno occupato dagli impianti, che immateriale, nell’ideale di sfruttamento alla base di tutto ciò. Anche questo è un aspetto da considerare inesorabile?

Non credo, per quanto mi riguarda. Vi è anche parecchio consumo di logica, non solo di suolo montano.

[Nell’immagine sopra: la funivia “Vanoise Express”, l’impianto di risalita sciistico più grande del mondo, con cabine a due piani da 200 persone. Foto di Florian Pépellin, opera propria, CC BY-SA 4.0, fonte  commons.wikimedia.org. Nell’immagine sotto: la nuova cabinovia trifune Alpe d’Huez-Les Deux Alpes, in funzione dal 2024 con una portata di 5.000 persone all’ora. Fonte dell’immagine: remontees-mecaniques.net.]
Già, forse non era meglio allora, quando per arrivare sulle piste, con le piccole cabine delle funivie a disposizione, ci si metteva ore per salire e ore per scendere, era una cosa normale – se oggi fosse così molti darebbero di matto. Ma probabilmente, temo, non va meglio oggi, quando salire a bordo di un mega impianto di risalita odierno e giungere sulle piste assomiglia sempre di più a utilizzare la metropolitana e arrivare in centro città, con tutto ciò che ne consegue. A due o tremila e più metri di quota. Cui prodest?

 

Il prestito a FCA

Posso dire?

Bene, allora dico: io, la questione del prestito richiesto da FCA (clic) la metterei su un piano diverso rispetto a quelli di cui si legge sui media, ovvero – mi permetto di dire, eh – la condizionerei alla risposta ad una domanda del genere:

è giusto elargire un prestito di tale entità a una casa automobilistica che, salvo un paio di modelli, produce autovetture francamente brutte?

Qualcuno potrà obiettare che, nell’ambito “italiano” di FCA (quello al quale afferirebbero l’«italian style, il “made in Italy», il «senso italiano per lo stile», eccetera), sono altri i marchi deputati a fare belle auto, ma a me non pare una giustificazione sostenibile. Sarebbe come dire che, in una squadra di calcio nella quale gli attaccanti sono molto forti, il portiere per questo può essere una schiappa. Ecco.

[Immagine tratta dal web. Certo, è cattiva, ma obiettiva. Anzi, “severa ma giusta”, ecco.]
P.S.: e comunque, producesse FCA pure auto belle, l’avere ormai impressi nella propria storia modelli come la Duna, la Multipla e altri simili, non depone certo a favore di una risposta positiva alla suddetta domanda. Già.

 

La “celeste” delatrice

Devo nuovamente “ringraziare” quei ladruncoli fascistoidi che a Roma, lo scorso mese di dicembre, hanno divelto e rubato le pietre d’inciampo delle famiglie ebree Consiglio e Di Castro, che ne ricordavano la deportazione e la morte per mano di fascisti e nazisti nella Roma occupata del 1944 – ne ho scritto qui. Pietre che qualche giorno fa sono state finalmente riposizionate ove vennero trafugate, in Via della Madonna dei Monti.

Li “ringrazio” perché, come già dicevo nel precedente post sul tema, grazie ad essi e al loro “impulso” ho voluto approfondire la conoscenza di alcune assai emblematiche vicende di quel periodo oscurissimo della storia italiana. Così, cercando maggiori notizie su chi furono i delatori della famiglia Consiglio, mi sono imbattuto in un’altra sconcertante vicenda: la storia di Celeste Di Porto, ragazza alta, slanciata, affascinante, bellissima – al punto da essere soprannominata “la stella di Piazza Giudìa” – ma, soprattutto, delatrice di almeno una trentina di ebrei romani poi deportati nei campi di concentramento nazisti o fucilati alle Fosse Ardeatine – sì che la fascinosa Celeste venne risoprannominata “la pantera nera”, nonostante fosse lei stessa ebrea. Il tutto per mero e bieco denaro: un ebreo maschio in età da lavoro valeva 5000 lire, una donna 3000, un bambino 1500.

Racconta la sua inquietante storia questo articolo (vi arrivate anche cliccando sull’immagine in testa al post), dal quale traggo un passaggio oltre modo significativo del personaggio – e d’una certa predisposizione di mente e di spirito che quelli come lei manifestavano a supporto delle proprie terribili azioni criminali:

Nel 1944 con la liberazione di Roma da parte delle truppe anglo-americane, Celeste Di Porto cambia nome e diventa Stella Martinelli. Si trasferisce a Napoli per non destare sospetti e ricominciare una nuova vita ma due ebrei romani che si trovano nella città partenopea la riconoscono e la fanno arrestare. Il 5 marzo 1947 inizia il processo in un clima di tensione altissima. Celeste ha sempre lo sguardo fisso, puntato sui suoi accusatori; non lo abbassa mai neanche quando dall’aula le gridano «A morte!». Il Pubblico Ministero chiede per lei 30 anni di reclusione in un tribunale incandescente. Il 9 giugno 1947, dopo otto ore di camera di consiglio, il giudice la condanna a 12 anni ritenendola colpevole di sequestro di persona e di furto dei gioielli che aveva sottratto alle sue vittime. Grazie all’indulto concesso nel febbraio 1948, il 10 marzo dello stesso anno lascia il carcere di Perugia da donna libera ed il 15 abbraccia la fede cattolica battezzandosi. Lo sdegno da parte della comunità ebraica è unanime, contro di lei comincia a circolare lo slogan «De Gasperi l’ha graziata, il papa l’ha battezzata.»