La “bresaola della Valtellina”. Ma nemmeno tanto.

Il Consorzio di tutela della bresaola di Valtellina Igp, sui media, si lamenta del fatto che le aziende della provincia di Sondrio facciano fatica a reperire carne in Europa:

«Non sono i dazi di Trump ad incidere sulla tenuta del settore della produzione della bresaola Igp, Indicazione geografica protetta, della provincia di Sondrio, ma sono i maggiori costi dovuti alla necessità di recuperare la materia prima al di fuori dei confini europei e precisamente in Sudamerica.»

Sia chiaro fin da subito: la bresaola della Valtellina è una meraviglia, vadano lodi e glorie alla sua filiera che nel 2024 ha prodotto 12.600 tonnellate di bresaola, con un + 6,52% sul 2023.

Ma…

…Inesorabilmente, quando leggo «bresaola di Valtellina», «Indicazione geografica protetta», «Consorzio di tutela» e poi «necessità di recuperare la materia prima al di fuori dei confini europei e precisamente in Sudamerica»… So bene che è una realtà della quale ormai sanno anche i sassi e cosa dicano le normative al riguardo, fatto sta che, dicevo, quando leggo quelle cose una dietro l’altra, nella mia mente il tutto echeggia ogni volta in maniera dissonante. Come di termini e definizioni che stanno nella stessa frase ma non c’entrano molto le une con le altre.

Cosa tutela, in fin dei conti, il “Consorzio di tutela”? Il prodotto e la sua genuinità, o la filiera economica che vi deriva? E della protezione di quale indicazione geografica stiamo parlando, in concreto? Di nuovo, di quella dell’alimento o del suo business industriale da 12.600 tonnellate – una cifra che parla di tutto meno che di tradizione artigianale e cultura del territorio?

[Sì, questo è uno zebù (Bos indicus) sudamericano. Foto di Denis Doukhan da Pixabay.]
Tutto legittimo e pure lodevole, certamente.

Ma la “Bresaola della Valtellina” non è veramente della Valtellina. A tutti va bene così, di definirla e identificarla in questo modo, è evidente, tuttavia qualche domanda sul (tanto decantato) valore culturale e identitario dell’alimento – perché il cibo è cultura e tra quelle fondamentali, inutile rimarcarlo – io me la faccio. Da pedante, noioso, rompic… quale potrò apparire, ma parimenti da profondo appassionato delle montagne e della loro cultura, oltre che della coerenza e della logica nelle cose della nostra realtà. Ecco.

La bresaola può ancora essere definita un cibo tipico e identitario della Valtellina?

[Immagine tratta da www.informacibo.it, sito che a differenza di molti altri riferisce chiaramente sulla reale provenienza delle carni bovine con le quali vengono prodotte le bresaole.]
Non posso che essere contento di leggere (qui) che è in aumento la produzione e l’export della Bresaola della Valtellina, i cui numeri nel 2024 hanno nuovamente raggiunto i livelli pre-pandemici. Ne ho scritto proprio di recente di questo sublime alimento “tipicamente” valtellinese, marchiato Igp, sul fatto che la gran parte della carne bovina utilizzata per il suo confezionamento viene dal Sudamerica: ciò è inevitabile, se si vuole accrescere costantemente il livello di produzione, ora giunto a 12.600 tonnellate/anno. Semplicemente, non c’è abbastanza carne in Europa, tanto meno in Valtellina ovviamente, per produrre così tante bresaole – infatti l’articolo de “La Provincia Unica TV” sopra linkato segnala anche la presenza di questo problema circa l’approvvigionamento della materia prima per le aziende che le producono.

Tuttavia, se non vogliamo osservare la questione dal punto di vista dell’autenticità del prodotto, come fanno tanti e ho fatto io stesso nel mio precedente articolo (la Bresaola della Valtellina può ancora essere considerata valtellinese, con Igp o senza, se la sua carne viene dall’altra parte del mondo?), è inesorabilmente necessario considerarla sotto l’aspetto della coerenza culturale (il cibo è cultura, è bene ricordarlo) riguardo un alimento che, appunto, viene continuamente definito “tipico”, “tradizionale”, “identitario” e via dicendo. In buona sostanza: come si possono ancora conciliare questi termini e soprattutto il senso che viene loro riconosciuto, a una produzione di oltre 12.600 tonnellate in aumento costante anno dopo anno?

La tradizionalità di un alimento, quando abbia anche una matrice culturale e persino identitaria come nel caso della bresaola per la Valtellina, non può accordarsi con un obiettivo basato sulla quantità produttiva, anche quando tale obiettivo non vada a inficiarne la qualità. Al netto della provenienza delle carni – in questo caso inevitabile, come detto – si tratta di una scelta culturale: puntare su una maggiore tipicità del prodotto e sulla relativa qualità limitandone la produzione e la filiera ad essa dipendente, oppure aumentare la produzione e il commercio del prodotto ma con ciò inesorabilmente annacquandone (o infirmandone?) la tipicità identitaria. Meno bresaole e maggiormente costose ma più valtellinesi oppure più bresaole, un mercato più ampio ma meno valore identitario valtellinese.

Entrambe le scelte sono legittime, per carità, ma alla base, ribadisco, vi è una questione culturale su base locale: una decide di restare coerente con tale cultura, l’altra decide che non gli interessa più: delle conseguenze dell’una o dell’altra, alla lunga più che il prodotto ne godrà o ne soffrirà il territorio, è bene tenerlo presente.

La bresaola della Valtellina e il Gran Zeb(R)ù

[Immagine tratta da www.foodweb.it.]
L’amica Cla, commentando l’articolo che qui sul blog qualche giorno fa ho dedicato alla “Giornata del Made in Italy” e a certe contraddizioni di tale definizione, che ho manifestato scrivendo dei “tradizionalissimi” pizzoccheri valtellinesi, mi ha giustamente ricordato che «Anche tutta la carne per bresaola arriva dal Brasile». La bresaola ovvero l’altro grande alimento tipico e identitario della Valtellina, dotato di marchio “IGP – Indicazione geografica protetta”, sul quale ovunque si possono leggere le più varie elegie in merito alla sua tradizionalità assoluta e su quanto sia rappresentativo dell’identità gastronomica valtellinese.

Già.

Peccato che, come giustamente ha denotato Cla, la gran parte delle bresaole in commercio vengano prodotte con carne congelata di zebù, un bovino che viene allevato in Sudamerica, soprattutto in Brasile, ma che è originario dell’Asia e dell’Africa: quanto di più lontano dalle montagne e dai pascoli della Valtellina, in buona sostanza!

La colpa di tale “inganno”legalizzato, perché di questo formalmente si tratta – è del disciplinare del marchio IGP il quale, nonostante parli di “indicazione geografica” in riferimento a un ben specifico territorio, in tal caso la Valtellina, riporta che le bresaole, per acquisire il marchio, devono solamente essere lavorate nella tradizionale zona di produzione che comprende l’intero territorio della provincia di Sondrio. In parole povere, per produrre la bresaola e poterla definire un alimento “tipico” e “tradizionale” della Valtellina basta che venga elaborato e stagionato nel territorio valtellinese utilizzando qualunque tipo di carne bovina, anche quella che di valtellinese non ha un bel niente.
Non è una truffa, visto che, grazie alla sua ambiguità, il disciplinare IGP non viene violato, è più un sotterfugio furbesco, questo sì. L’ennesimo.

Insomma: anche in questo caso il “Made in “Italy”, il “cibo tradizionale, “l’identità gastronomica” e tutto il resto di simile e di tanto osannato dal marketing turistico e commerciale vanno parecchio a farsi benedire. Inoltre, detto tra noi: Igp, Dop, Docg… bah!

Ovviamente, tutto ciò non toglie che la bresaola, dunque la carne di zebù con la quale è fatta, è buonissima e sia un gran piacere gustarsela (lo immagino bene pur essendo io vegetariano). Che lo si faccia con gran profusione ma al contempo senza troppa ipocrisia!

Comunque c’è una buona “soluzione” all’inganno suddetto: per fare in modo che la bresaola valtellinese fatta con una carne che di valtellinese non ha nulla diventi più valtellinese di quanto non sia, basta cambiare di pochissimo il nome di una delle più belle e celebri montagne della Valtellina! Si tira via una sola lettera e tutto è a posto:

Alé! 😆

(Chi non l’ha capita mi scriva che gliela spiego!)

La giornata del “Made in Italy”… ma a volte del “Fake in Italy”!

Oggi è il 15 aprile e si celebra la “Giornata Nazionale del Made in Italy, promossa dal Ministero delle Imprese e del Made in Italy per la promozione della creatività e dell’eccellenza italiana.

Io tutte queste “giornate-mondiali/nazionali-di-qualcosa” non le apprezzo granché, trovandole iniziative di pura retorica con ben poco portato utile concreto. Però che il “Made in Italy” sia una cosa da celebrare è assolutamente vero. E tra i tanti settori produttivi che si meritano tutto il prestigio della definizione c’è sicuramente quello enogastronomico: dunque mi è venuto in mente di festeggiare la giornata di oggi con un bel piatto di pizzoccheri, la ricetta “tradizionale” per eccellenza e super-identitaria della Valtellina, terra alpina alla quale sono molto legato.

Più “Made in Italy” di così!

Eh, già. Peccato che l’ingrediente principale dei pizzoccheri, il grano saraceno, senza il quale i pizzoccheri non esisterebbero e dunque nemmeno esisterebbe la cultura tradizionale che si portano dietro, venga per la grandissima parte dall’estero.

Riportai già qui e ora ribadisco ciò che disse al riguardo l’amico Jonni Fendi, rinomato imprenditore vitivinicolo e agricolo valtellinese:

Per evitare mistificazioni sarebbe interessante sottolineare che attualmente in Valtellina produciamo (io compreso) nemmeno l’1% del grano saraceno che si utilizza nei piatti “tipici” valtellinesi. Difatti il 99% arriva su dei TIR targati Lituania, entra a Teglio, Chiavenna eccetera e poi diviene “magicamente” locale.

Locale cioè “Made in Italy”.

Ecco.

E chissà quanti altri casi simili, ovvero di “Made in Italy” che in realtà è Fake in Italy, si potrebbero citare.

Tuttavia, ribadisco, la definizione di “Made in Italy” è una di quelle che più attrae i paesi esteri e ne rimarca l’apprezzamento, che a volte è quasi venerazione, per le cose italiane.

Forse che siamo noi italiani i primi a non saper apprezzare e valorizzare quando non a svilire il “Made in Italy”?

Ines Millesimi, Mauro Varotto (a cura di), “Sacre vette. I simboli sulle cime”

Forse ricorderete la polemica scoppiata qualche mese fa intorno alla questione delle croci di vetta, cioè dei simboli religiosi posti sulle sommità delle montagne. Anzi, la non polemica, invero generata innanzi tutto dalle dichiarazioni di due personaggi politici di infima specie che hanno travisato e strumentalizzato il senso originario del dibattito scaturito dalle presentazioni del volume Croci di vetta in Appennino di Ines Millesimi.

Tuttavia, al netto delle recenti stupidaggini dei personaggi citati, il dibattito sul tema non è certamente nuovo: già da tempo se n’è discusso, elaborando dal confronto una posizione ampiamente condivisa per la quale si ritiene di preservare le croci esistenti, considerate testimonianze della cultura popolare, evitando nuovi manufatti soprattutto se imponenti, come certuni proposti di recente e obiettivamente inaccettabili sotto ogni punto di vista (al proposito mi viene in mente la croce di 18 metri che si voleva piazzare in vetta al Monte Baldo nelle Prealpi Gardesane, per citare un caso significativo).

È comunque un dibattito che periodicamente riemerge sulla superficie del pour parler mediatico e, come molte altre, spesso soffre di polarizzazioni tanto rigide quanto insulse: ma, a prescindere da queste, risulta comunque interessante e per molti versi emblematico riguardo la relazione culturale e antropologica della nostra società con la natura rispetto al momento storico nel quale il dibattito emerge. Che oggi si anima di una sensibilità, ampiamente diffusa, contraria al piazzamento di qualsiasi manufatto antropico negli ambienti naturali incontaminati (non solo croci, dunque), tanto più se in luoghi referenziali come le vette delle montagne.

Per tutto quanto fin qui rimarcato, c’era sicuramente il bisogno (e la convenienza, per molti versi) di mettere nero su bianco alcuni punti fermi intorno al tema, variegati e quanto più possibile autorevoli. Di questo compito si sono fatti carico la già citata Ines Millesimi – forte della sua esperienza al riguardo – e Mauro Varotto curando Sacre vette. I simboli sulle cime (Cierre Edizioni, 2024), volume che raccoglie numerose testimonianze sul tema, assolutamente prestigiose e qualificate, le quali nel complesso compongono del tema stesso il più articolato approfondimento disponibile. []

(Potete leggere la recensione completa di Sacre vette cliccando sulla copertina del libro lì sopra, oppure visitate la pagina del blog dedicata alle recensioni librarie. Buona lettura!)