“Mi potrà servire a qualcosa: a farmi scrivere, forse a farmi sfogare, a poter fermare i miei pensieri su carta e ai miei posteri per farne uso igienico.”
(Piero Manzoni, Diari, 25 Marzo 1954)
In questi giorni sto leggendo una biografia di Piero Manzoni (questa, per intenderci), uno degli artisti italiani più grandi del Novecento, un passo – anzi, molti di più – avanti rispetto alla stragrande maggioranza dei suoi colleghi nonché del panorama artistico-culturale italiano del tempo, e per questo, tanto per cambiare, ignorato se non sbeffeggiato dallo stesso. Tipico atteggiamento italiano: sei un talento, sei un innovatore, sei un genio, possiedi
autentiche doti e capacità fuori dal comune? Non c’è posto per te, e più cerchi di ottenerlo più verrai accusato d’essere un fuori di testa, un poco di buono o altro del genere. No comment, ovviamente, per non costringermi a superare di slancio ogni limite di scurrilità…
A breve pubblicherò qui nel blog la personale recensione del testo biografico che sto leggendo. Ora invece, per cominciare a onorare per bene la figura del grande artista lombardo, recupero e pubblico un vecchio pezzo di Gianluigi Melega, originariamente pubblicato nel 1992 sul Corriere della Sera, che racconta del celebre soggiorno di Manzoni in Danimarca, paese nel quale trovò un’accoglienza e un rispetto ben più grandi e consapevoli che in patria: elementi che resero quel soggiorno un momento irripetibile e significativo di grande creatività artistica e concettuale.
Manzoni e la fabbrica dei concetti
Artisti tra i telai. 30 anni fa nasceva in una cittadina danese un curioso esperimento di mecenatismo. l’ avventura di un camiciaio e di un “enfant prodige” dell’ avanguardia italiana: Piero Manzoni e le sue opere che anticiparono l’ arte concettuale.
La cittadina danese di Herning sta nel mezzo della penisola dello Jutland. E’ un paesaggio piatto, di basse colline ondulate, nero verde giallo e viola, di pini, erba ed erica. Non ci si passa per caso: bisogna proprio volerci andare. Fino a una quarantina di anni fa, nulla distingueva Herning da una qualsiasi piccola citta’ nordeuropea senza qualita’ . Poi, dalla campagna, arrivarono il camiciaio Aage Damgaard e sua moglie Birgit. Il camiciaio Damgaard era un piccolo industriale tessile con un’ idea fissa: che la gente comune come i dipendenti della sua fabbrica dovesse poter godere dell’ arte. E godere dell’ arte durante la giornata, sul posto di lavoro, mentre lavorava. Non solo: ma dovesse poter conoscere gli artisti, coloro il cui lavoro era creare, inventare, tradurre i sogni o le visioni in oggetti concreti. Il camiciaio Damgaard comincio’ a invitare degli artisti a Herning. Faceva con loro un accordo: li alloggiava in una luminosa mansarsa nell’ allora unico alto edificio di Herning; metteva a loro disposizione un atelier o uno spazio nella sua fabbrica di camicie, accanto ai telai, come preferissero; pagava per tutti i materiali che decidessero di usare e concordava con loro uno stipendio mensile per due o tre mesi (di solito cercava di dar loro uno stipendio pari allo stipendio medio dei dipendenti della sua fabbrica). In cambio chiedeva che gli artisti frequentassero la fabbrica, parlassero con i dipendenti del loro lavoro e lasciassero in fabbrica le opere che creavano durante il loro soggiorno. Erano condizioni che soltanto artisti giovani o artisti poveri accettavano. Oppure artisti famosi, a cui Damgaard offriva la possibilita’ di creare opere di grandi dimensioni. Herning comincio’ a figurare nelle cronache come una citta’ dove si faceva dell’ arte, dove l’ opera d’ arte entrava a far parte della vita quotidiana di tutti. Batuffoli e scatolette Nel 1960 e nel 1961 vennero invitati a Herning due artisti italiani ritenuti allora di grande avanguardia, Enrico Castellani e Piero Manzoni. In Italia avevano pochissimo mercato. E le opere con cui Manzoni traduceva in oggetti le sue teorie sull’ arte (batuffoli di cotone, uova sode da mangiare subito, linee, palloncini definiti “fiato d’ artista”, scatolette contenenti “merda d’ artista”, impronte digitali, ricevute con cui si certificava che il possessore era stato da lui “firmato” e che quindi era da considerare esso stesso un’ opera d’ arte, eccetera) venivano ritenute dalla quasi totalita’ del pubblico degli sberleffi, delle prese in giro di cui non cadere vittime. Manzoni sarebbe morto improvvisamente due anni dopo, il 6 febbraio 1963, nel suo studio a Milano. Per molto tempo le sue opere continuarono a essere apprezzate soltanto da pochi. Oggi e’ considerato uno dei piu’ coerenti e geniali anticipatori dell’ arte concettuale: allora, e per anni, nel migliore dei casi venne ritenuto dalla maggioranza un provocatore, nel peggiore, un buffone. Da qualche anno le opere di Manzoni si vendono alle aste internazionali per centinaia di milioni. E una sua grande retrospettiva, apertasi in estate a Herning e passata in autunno a Madrid, arrivata nell’ inverno scorso al Castello di Rivoli (Torino) ancora carica di provocazione e di “avanguardia” come trent’ anni fa (basti pensare che, dalle diverse collezioni mondiali, verranno esibite non meno di 25 delle 90 scatolette numerate di “merda d’ artista”): ma, appunto, trent’ anni fa lo shock non era temperato dalle valutazioni del mercato… Ora, a ulteriore conferma di una consacrazione oramai indiscussa, Vanni Scheiwiller pubblica il catalogo ragionato delle sue opere, a cura di Freddy Battino e Luca Palazzoli. Trent’ anni fa Manzoni arrivo’ a Herning un giorno di giugno. C’ era ad accoglierlo un pittore danese, Paul Gadegaard, che faceva da consulente artistico per il lungimirante camiciaio. Gadegaard poduceva pitture astratte molto colorate e ando’ incontro a Manzoni indossando una tuta da lavoro molto macchiata: “Ma, mio Dio, tu usi i colori!”, lo saluto’ inorridito Manzoni, che da anni produceva soltanto opere bianche, quasi tutte chiamate “Achrome”. Manzoni lavorava molto. Oggi ci sono nella collezione del museo di Herning 37 sue opere e “mezza”: la “mezza” e’ un quadro messo insieme, a meta’ , da Manzoni e dallo svizzero Daniel Spoerri. Parlava poco con chi gli stava intorno per la difficolta’ di intendersi con la lingua: ma regalava sue opere ai dipendenti di Damgaard, che erano soprattutto operaie tessili, donne di Herning o delle campagne vicine. Regalava uova sode con l’ impronta del suo pollice, “Achromes” di cartone, linee. Le linee erano dei rotoli di carta bianca di diverso tipo, di diverse dimensioni e lunghezze, al centro dei quali Manzoni tracciava una striscia nera, per poi riarrotolarli e infilarli in cilindri di cartone che fungevano da custodia. Su ogni cilindro un’ etichetta in inglese e in francese precisava la lunghezza della linea e la data dell’ esecuzione. Il giorno che Manzoni arrivo’ , Damgaard era in viaggio all’ estero. Ma aveva lasciato detto, come sempre, che gli venissero messi a disposizione i materiali che avesse chiesto. Manzoni ando’ nella tipografia del giornale locale e mise in conto a Damgaard l’ acquisto di una bobina di carta da giornale. Poi si sedette per terra, davanti alla rotativa, con una specie di bottiglione di inchiostro, e comincio’ a tracciare una linea al centro della bobina, mentre questa veniva svolta lentamente da un rullo per essere riavvolta su un altro. Il risultato, un pesantissimo cilindro di lastre di piombo con la scritta “Contiene una linea lunga 7200 metri eseguita da Piero Manzoni il 4 luglio 1960”, e’ oggi ritenuto uno dei capolavori dell’ arte moderna. Ma secondo Knud Laursen, un pittore danese tradizionale che allora si guadagnava da vivere come redattore nel giornale di Herning, quando Damgaard, al ritorno, venne a sapere cosa era successo, la sua prima reazione fu: “Ah, va bene gli artisti, ma con questo basta!”. Dovette essere un’ irritazione passeggera. Perche’ l’ anno dopo, il 1961, Manzoni si autoinvito’ a Herning per una seconda stagione danese e, ancora una volta, riusci’ a stupire tutti. La testimonianza piu’ importante di quella sua seconda visita e’ un parallelepipedo di acciaio di 80x100x100 centimetri con la scritta in francese, capovolta: “Socle du Monde . Socle magic n. 3 de Piero Manzoni . 1961 . Hommage a’ Galileo”. Si tratta, come dice appunto l’ iscrizione, dello “zoccolo del mondo”, il sostegno su cui poggia idealmente tutto il globo: appoggiato per terra, capovolto, perche’ appunto e’ la terra a reggersi su esso, e non viceversa. Vegetali e minerali Secondo il critico Jean.Pierre Criqui si tratta di un’ opera fondamentale, “germinativa”, per l’ intera arte moderna. Secondo Germano Celant, il critico ialiano che piu’ ha studiato Manzoni e che ha curato il bel catalogo che accompagna la mostra itinerante, “…con lo ‘ ‘ Zoccolo del mondo’ ‘ il lavoro di Manzoni raggiunge i limiti della superficie terrestre e ogni cosa animale, vegetale e minerale e’ definitivamente trasformata in un’ opera d’ arte”. Aage Damgaard e’ morto qualche anno fa. Sua moglie Birgit vive in una grande fattoria alla periferia di Herning. Hanno chiuso le fabbriche di camicie (erano arrivate a essere sette), ne hanno trasformate alcune in museo, una in una scuola per operai tessili, e hanno donato tutto, comprese le collezioni di oltre 600 opere di arte moderna, alla citta’ . “Allora quasi tutti ci consideravano dei matti . racconta oggi la signora, che usa al visitatore italiano la cortesia di accompagnarlo al museo ., o addirittura degli imbecilli, che si facevano turlupinare da un ciarlatano: oggi incontro delle ex dipendenti che mi ringraziano per averle aiutate a familiarizzare con l’ arte, per essere state partecipi di un esperimento riconosciuto adesso come eccezionale”. Mi chiedo che cosa inventerebbe oggi Manzoni, con quel suo sorriso allegro e ironico che mi e’ capitato di conoscere bene (mi regalo’ un’ impronta digitale, visto che non volevo comperare i suoi quadri), per rovesciare, con un ideale zoccolo estetico, il successo di pubblico e commerciale che e’ arrivato ad avvolgerlo.