Basta con gli chalet in montagna!

Fare cose nuove in montagna si può e si deve, e lo si può fare senza che l’innovazione deprima la tradizione o la banalizzi o semplicemente la trascuri: occorrono cultura, competenza, sensibilità, cura della relazione con i luoghi e dell’uomo con essi e il loro paesaggio. La montagna è una dimensione ideale per manifestare le doti citate, ancor più perché la pregevolezza e insieme la delicatezza del suo territorio evidenzia da subito ciò che invece è stato fatto senza la necessaria premura verso di esso, e senza il buon senso che vi dovrebbe stare alla base.

Il progetto (nelle immagini) dello studio Naema Architekten, di Bolzano, realizzato a Fleres, vicino Colle Isarco, a mio parere è un ottimo esempio di quanto ho scritto, e un elemento di giudizio ideale rispetto a tante altre realizzazioni montane, molto meno ispirate (ma la definizione è assai eufemistica, sia chiaro). Ha pure una bellissima storia di rinascita da un doloroso trauma ad arricchirne il valore e a trascenderlo dai meri aspetti architettonici, dunque è ancor più ammirevole.

L’opera ha vinto il premio “Best Project 2022 di Archilovers, il social media dedicato alla progettazione architettonica.

Per saperne di più, date un occhio qui. Le immagini sono tratte dal sito web di Naema Architekten, sul quale trovate altri dettagli del progetto.

P.S.: perché quello strano titolo al post? Be’, sia chiaro: non è che ce l’abbia in senso assoluto con gli chalet, però per certi versi sì, come denoto qui.

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C’erano una volta le castagne “solidali”

[Foto di Sergio Cerrato – Italia da Pixabay.]

I castagni erano considerati piante preziose per quel che davano: legname ottimo per mobili e suppellettili, per fare i pali delle vigne e le recinzioni, per trasformare le foglie in ottima lettiera per gli animali, per ottenere la farina dalle castagne e trasformarla in pane dei poveri. Castagne che venivano anche date in dono assai gradito ai contadini delle alte valli interne, dove il castagno non era mai arrivato a mettere radici.

[Franco FaggianiLe meraviglie delle Alpi, Rizzoli/Mondadori, 2022, pag.158.]

Trovo assolutamente significativo questo passaggio del libro di Faggiani – che fa riferimento al “Sentiero del Castagno”, percorso escursionistico altoatesino tra Bressanone e Bolzano – non solo perché rimarca l’importanza storica assoluta delle selve castanili per le genti di montagna, ma pure per come le castagne divenissero oggetto di una peculiare e emblematica forma di sostentamento condiviso tra montanari che si può ritrovare un po’ ovunque, nelle nostre terre alte, non necessariamente mirato alla reciprocità. Dalle mie parti, ad esempio, nelle selve un tempo assai vaste di Colle di Sogno (che in effetti vaste lo sono tutt’oggi ma purtroppo non vengono curate come un tempo), era in vigore un’antica usanza condensata nell’adagio vernacolare «Dopu San Martì depertöt gh’è mì!» (“Dopo San Martino dappertutto è cosa mia!”) per la quale dopo l’11 novembre a chiunque veniva consentito di entrare nei castagneti di proprietà degli abitanti del borgo e raccogliere i frutti ancora rimasti sugli alberi e sul terreno: una forma di generosa solidarietà della quale lassù approfittavano soprattutto i contadini del fondovalle e della pianura alto milanese, i cui campi in quel periodo già risultavano ormai improduttivi, che salivano sui monti di Colle di Sogno per accaparrarsi una così preziosa riserva di pane dei poveri – come le castagne venivano diffusamente chiamate proprio in forza dell’importanza del sostentamento da esse ricavato per le classi meno fortunate. D’altro canto la manifestazione di queste forme di microeconomia vernacolare rappresentavano anche occasioni di scambi socioculturali tra gli abitanti delle montagne e dei territori ad esse prossimi: una dimensione di metromontagna arcaica e elementare eppure già di grande valore e importanza, che può ben diventare nozione per l’auspicata, rinnovata metromontagna contemporanea in grado di rivitalizzare e riequilibrare il rapporto tra montagne e città stemperando la condizione di marginalità alla quale le prime sono state per troppo tempo costrette – peraltro in modalità antitetiche al secolare passato, come visto.

E, per chiudere il “cerchio castanile” qui tracciato in modo letterario, sappiate che lo stesso Colle di Sogno con le sue montagne è citato nel libro di Franco, in un capitolo precedente e per altri motivi. Ma è una circostanza non così casuale, mi viene da pensare.

Meno seggiovie, più biblioteche!

Colgo l’ottimo pretesto delle immagini – pubblicate da Antonio De Rossi sulla propria pagina Facebook – della mirabile Biblioteca di Campo Tures/Sand in Taufers, principale comune della Val di Tures (o Valle Aurina) al cospetto delle maggiori vette delle Alpi Aurine (provincia di Bolzano), per porre una delle domande più spontanee che mi ritrovo a fare ogni qualvolta legga di certi progetti di “sviluppo” delle montagne di matrice quasi esclusivamente turistica: ma perché, invece di spendere decine di milioni di soldi pubblici in opere e infrastrutture che sovente appaiono illogiche, fuori contesto spaziale e temporale, francamente inutili per i luoghi ai quali vengono imposte, palesemente destinate ad un quasi certo fallimento – il caso dei tanti impianti sciistici progettati e realizzati a quote che, nella realtà climatica attuale, non garantiscono più una stagione turistica invernale economicamente e ambientalmente sostenibile è quello più classico – non si investe molto, moltissimo di più in infrastrutture culturali e di autentico servizio sociale a favore delle comunità dei territori montani? Perché seggiovie, funivie, impianti per la neve artificiale anche dove risultano insensati e non biblioteche, centri culturali e di sviluppo delle arti, istituzioni di sostegno e sviluppo della cultura dei luoghi e della loro economia sociale, oltre che della locale socialità (come la suddetta biblioteca, dotata di ampie sezioni dedicate ai bambini e spazi per il coworking)? Perché si punta sempre e solo sulle stesse cose monoculturali, sugli stessi progetti che per la cui banalità invero non si possono nemmeno definire tali, sulle stesse opere palesemente prive di ragionamento, di relazione con il territorio, di criteri ecologici e economici? Perché non si è in grado di concepire, in così tante amministrazioni pubbliche, che la cultura è LO sviluppo per eccellenza dei territori abitati e soprattutto di quelli nei quali la relazione tra luoghi, abitanti e paesaggio è così emblematica come sulle montagne? Come non si può non comprendere che è la cultura diffusa, condivisa e contestuale al territorio che ne regge le sorti sociali, economiche, identitarie, che lo nutre insomma, ben prima che qualsiasi infrastrutturazione forzatamente turistica* che invece il territorio sovente lo consuma?

Ecco.

A dire il vero, io una risposta unitaria ce l’avrei a queste domande, ma è meglio che non la dica per non essere tacciato da qualche anima pia di essere un “sovversivo”, un “ribelle contro il sistema” o altro del genere. D’altro canto sono convinto che quella risposta ce l’abbiano anche molti di voi, ormai ben comprovata dalla più semplice analisi della realtà oltre che da una gran quantità di fatti, numerosi dei quali purtroppo assai deleteri per le montagne. Vero?

*: sia chiaro, il turismo in sé non è il colpevole, niente affatto (così come non lo è lo sci), ma è la modalità di gestione della frequentazione turistica delle montagne, e quanto di ciò è conseguenza, che fanno diventare il turismo non più una risorsa ma, in certi casi, un’autentica piaga. Che forse farà guadagnare qualcuno, in loco, ma sicuramente fa perdere tutti gli altri.

(La foto panoramica di Campo Tures/Sand in Taufers in testa al post è di Julian Nyča, opera propria, CC BY-SA 3.0, fonte commons.wikimedia.org.)

Sul rifacimento del Rifugio Petrarca in Val Passiria

A volte si possono riscontrare in circolazione notizie e immagini relative alla ristrutturazione di rifugi di montagna che destano parecchi dubbi, soprattutto in merito all’integrazione – non solo dal punto di vista estetico – degli edifici rinnovati con l’orografia, l’ambiente e il paesaggio circostanti. Non serve rimarcare che il rifugio di montagna non è un edificio come un altro, e qualsiasi intervento edile, architettonico o strutturale deve innanzi tutto fondarsi su una compiuta e consapevole sensibilità nei confronti del luogo in cui si trova, per il quale deve necessariamente rappresentare un elemento armonico, contestuale, dialogante con tutto quanto abbia intorno, sia di materiale e sia di immateriale – la storia del luogo, ad esempio.

Per citare un caso recente, ha generato non poco dibattito la costruzione del nuovo Rifugio Santner al Catinaccio (lo vedete qui sotto), criticata da molti e pure io sono tra quelli che la trova brutta e esteticamente decontestuale rispetto al luogo nel quale è stata edificata oltre che pensata per una fruizione decisamente poco “alpina” e molto “urbana” della montagna.

[Immagine tratta dal sito web di Stefano Ardito, che offre una bella riflessione sul tema dei nuovi rifugi alpini.]
Negli stessi giorni in cui veniva inaugurato il nuovo Rifugio Santner, è stato aperto anche il ricostruito Rifugio Petrarca / Stettiner Hütte (nelle immagini in testa al post e qui sotto), posto a 2875 m nel cuore del Parco naturale Gruppo di Tessa, edificato sul posto della precedente struttura distrutta da una valanga. Ecco, questa è una ristrutturazione che invece a me sembra di notevole livello, dotata di numerose interessanti peculiarità e capace di porre in dialogo la struttura, nonostante le sue notevoli dimensioni, con il particolare ambiente di alta montagna circostante (unico dubbio: l’uso del cemento armato prefabbricato per il rivestimento esterno, ma ne comprendo la funzionalità). Un progetto certamente innovativo e esemplare che può rappresentare un modello architettonico interessante tanto per gli addetti ai lavori quanto per qualsiasi fruitore della montagna, al fine di generare un’adeguata consapevolezza nei confronti della qualità (non solo estetica, ribadisco) degli interventi in quota che di rimando serva agli amministratori pubblici e ai soggetti privati da importante indirizzo di condotta per questi lavori.

Ovviamente posso ben capire che non tutti siano d’accordo con queste mie considerazioni e alcuni rimpiangano le vecchie case tradizionali: è comprensibile, d’altro canto, se innovazione ci deve essere e io credo che ci debba essere in ogni attività umana al fine di creare nuove tradizioni – come dice quel noto motteggio – restando al passo con i tempi senza correre più veloce ma senza nemmeno restarne indietro, penso che quello proposto dal nuovo Rifugio Petrarca sia uno dei migliori esempi al riguardo.

Trovate alcuni approfondimenti sul progetto del rifugio in questo articolo tratto da cantieridaltaquota.eu, insieme a considerazioni su altri recenti lavori a rifugi alpini – tra le quali noterete un giudizio sostanzialmente positivo, dal punto di vista progettuale, del nuovo Rifugio Santner, il che dimostra che il dibattito sul tema è comunque vivo e ciò auspico possa essere un elemento favorente il buon senso critico al riguardo.

Cartoline #1

[Alpe di Siusi / Seiser Alm. Foto di Karsten Würth da Unsplash.]
N.B.: l’altopiano di Siusi costituisce la più grande alpe d’Europa, estendendosi su un’area complessiva di 65 km² dei quali 52 km² di superficie d’alpeggio tra i 1800 e i 2000 m di altitudine media.