Come rendere più facilmente comprensibile ciò che il cambiamento climatico comporta per le montagne? In Svizzera ci provano mostrando come saranno le Alpi a fine secolo

(Articolo pubblicato in origine su “L’AltraMontagna” il 11/09/2024.)

[Fioriture nei pressi del Ghiacciaio di Savoretta, gruppo dell’Ortles-Cevedale. Foto del Servizio Glaciologico Lombardo, tratta dalla pagina Facebook.]
Il cambiamento climatico a livello globale è una realtà di fatto che ormai solo pochi sconsiderati si ostinano a negare; che tale realtà sia ancora evidentemente poco compresa e considerata da molte persone è un’altra evidenza innegabile, e ciò a volte è dipeso dalla difficoltà che la scienza ha avuto, e in parte continua ad avere, di rendere i dati e i modelli climatici comprensibili e adeguatamente esplicativi al grande pubblico. Questo comporta che praticamente tutti sappiamo che il clima sta cambiando e che tale realtà determina – e determinerà – effetti sempre più tangibili a chiunque e a qualsiasi nostro ambiente ma, di contro, che la conversione ecologico-culturale collettiva che ne dovrebbe scaturire stenta a manifestarsi, così che certa politica ne approfitta per agire senza la necessaria urgenza nel mettere in atto le iniziative richieste da decenni dalla scienza.

Le Alpi stanno subendo aumenti delle temperature maggiori rispetto ad altre zone del continente europeo: l’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC), uno dei più autorevoli organismi internazionali in tema di cambiamenti climatici, afferma che negli ultimi decenni il tasso di riscaldamento sulle Alpi è stato di 0,3°C/10 anni, superando il tasso di riscaldamento globale che è stato di 0,2°C/10 anni. Tale maggiore aumento implica che entro la fine del secolo in corso la temperatura media nelle Alpi potrebbe aumentare di 4°C, ben oltre gli 1,5/2°C indicati come limite da non superare per la temperatura media globale dai più recenti accordi internazionali sul clima.

Ma, come affermato poc’anzi, siamo ancora nell’ambito dei meri dati numerici: cosa comporta invece concretamente la realtà appena descritta con questi dati? A questa domanda prova a rispondere efficacemente l’Istituto federale di ricerca per la foresta, la neve e il paesaggio (WSL), ente scientifico svizzero conduce una ricerca multidisciplinare orientata alle soluzioni in materia di foreste, paesaggi, biodiversità, pericoli naturali e neve e del ghiaccio – per questi ultimi ambiti grazie all’Istituto per lo studio della neve e delle valanghe (SLF) che ha sede a Davos, nelle Alpi grigionesi. Il WSL, in collaborazione con l’Università di Losanna, l’Università di Berna, il Global Mountain Biodiversity Assessment e la Fondazione svizzera per la tutela del paesaggio, ha elaborato un progetto che sviluppa scenari scientificamente validi su come potrebbero trasformarsi i paesaggi elvetici tra sessant’anni se le temperature in Svizzera dovessero aumentare di 4°C entro la fine del secolo, e ne ha ricavato immagini e video interattivi che mostrano le trasformazioni e permettono al pubblico di navigare attraverso i paesaggi del futuro ottenendo ulteriori informazioni (in lingua tedesca e francese) sulle varie peculiarità e le criticità.

Un tale notevole aumento della temperatura media nelle Alpi in un arco temporale così limitato sta già comportando e implicherà sempre più in futuro effetti rilevanti e sovente drammatici per gli ecosistemi alpini, fragili e delicati come pochi altri. Un recente articolo della rivista “Sapere Scienza” ne elenca alcuni: entro la fine del secolo molti ghiacciai alpini saranno estinti e le aree glacializzate si localizzeranno a quote molto elevate e nelle aree meno esposte al sole; di contro gran parte dell’ambiente prima occupati dalle nevi perenni diventerà periglaciale – termine che sostanzialmente definisce il territorio posizionato al di sopra dell’ambiente montano boscato/vegetato e al di sotto o in prossimità dei ghiacciai e dei nevai – e quindi, privato del potere riflettente di neve e ghiaccio, si scalderà ancora di più. Per tali motivi ci saranno seri problemi di approvvigionamento idrico perché oltre alla riduzione delle masse glaciali vi sarà uno spostamento stagionale sempre più marcato nei regimi delle precipitazioni, con meno precipitazioni nevose (mentre è noto che quelle piovose sono di ben più difficile trattenimento a fini antropici) dunque periodi di siccità più frequenti e prolungati. Inoltre vi sarà uno spostamento verso l’alto degli ecosistemi, che entreranno in competizione tra loro a causa del ridotto spazio a disposizione, e aumenteranno gli episodi franosi e di dissesto idrogeologico, dunque i pericoli, soprattutto durante la stagione estiva. In generale si assisterà a un cambiamento notevole dei paesaggi alpini, con quelli che oggi riconosciamo ordinariamente come “montani” che assomiglieranno alle zone collinari e l’alta montagna periglaciale nella quale i boschi colonizzeranno le aree pietrose o scarsamente vegetate, il che comporterà inevitabilmente anche un cambiamento di matrice culturale nella percezione e nella conseguente relazione umana con questi “nuovi” paesaggi […]

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I Don Chisciotte del clima

Il vero problema, della razza umana rispetto ai cambiamenti climatici in corso o quanto meno di chi la rappresenta politicamente, non è che è il tempo per agire sta scadendo oppure che sia già scaduto o che altro. Queste sono osservazioni obiettive e evidenti, per molti aspetti, tuttavia io temo che per altri siano improprie, e ciò perché mi pare che vi sia un drammatico sfalsamento temporale alla base della questione.

Mi spiego: hanno ragione quelli che ritengono l’accordo raggiunto nella COP26 di Glasgow un “buon” o “accettabile” compromesso. Lo è – lo sarebbe, sì, se fossimo nel 1991. Di contro, stiamo disquisendo intorno a dati climatici molto probabilmente già superati, a partire dalla fatidica soglia dei 1.5° o 2° di aumento delle temperature rispetto all’era preindustriale da non superare e che invece è stata superata da tempo, almeno per certe zone del pianeta (tra le quali l’Europa), come ho cercato di spiegare già qui. Non solo: come ritengono molti esperti, noi oggi subiamo l’effetto di cambiamenti climatici la cui causa è da ricercare decenni fa, e questo perché il clima, pur nell’anormale rapidità del cambiamento attuale, varia sensibilmente nell’arco di qualche decennio, non certo da un anno con l’altro – infatti un ciclo di 30 anni è il periodo classico per calcolare la media delle variazioni climatiche, secondo la definizione dell’Organizzazione Meteorologica Mondiale. Questo significa che se pure da subito riuscissimo a mettere in atto delle azioni effettivamente in grado di contenere l’aumento della temperatura negli obiettivi sanciti dalla COP21 di Parigi del 2015 in poi, per ancora molti anni subiremmo un peggioramento del riscaldamento del pianeta e delle conseguenti condizioni climatiche.

Insomma, come dicevo poc’anzi: sulla questione climatica, nel concreto, stiamo ragionando su piani temporali sfalsati e disequilibrati da tempo, che per come stanno le cose ben difficilmente si potranno riallineare per fare in modo che alle nostre azioni possano corrispondere reazioni rapidamente virtuose. Finché tale riallineamento non si verificherà, temo che nessun compromesso, accordo, intesa, strategia o quant’altro di (apparentemente) condiviso tra gli stati, anche il migliore possibile, genererà veramente buoni risultati.

Sia chiaro, non è una mera manifestazione di pessimismo, questa mia, ma l’invocazione di una visione rinnovata e più consapevole di una così fondamentale questione: bisogna probabilmente cambiare il paradigma di fondo delle “nostre” azioni politiche, riagganciandolo alla realtà scientifica di fatto e non a obiettivi che ormai appaiono solo funzionali a conseguire accordi di bella forma e scarsa o nulla sostanza. Ragionare sui 1.5° o 2° gradi, allo stato attuale delle cose e degli atti, è per molti versi pura retorica funzionale solo a poter dire ai media di aver conseguito qualche tipo di accordo in realtà privo di efficacia. Per agire sulla questione climatica dovremmo avere sulle nostre scrivanie il calendario del 2040 o 2050 e quello guardare. Invece abbiamo il calendario del 2021 ma lo interpretiamo come fossimo ancora nel 1991, appunto. Dovremmo avere la reale e concreta concezione del futuro, non una costante e anacronistica percezione del passato. Dovremmo avere qualcosa, insomma, che la politica contemporanea dimostra di non avere, ecco.

P.S.: nell’immagine in testa al post c’è la copertina del nuovo numero del “The New Yorker”, assolutamente sublime, come spesso accade, nel descrivere chiaramente e con artistica nonché immaginifica rapidità come stanno le cose.

Il clima? Ce lo siamo già fot**to da tempo!

Scusate la trivialità ma, posto che a breve si aprirà la COP26 di Glasgow – sì, l’ennesima (è annuale!) benemerita conferenza sul clima – e visto che nella COP21 del 2015 a Parigi si firmò il celebre “accordo sul clima” con il quale quasi tutti i paesi del pianeta accettarono di collaborare per limitare a 1,5 °C, massimo 2 °C, l’aumento della temperatura globale rispetto all’era preindustriale, il cui termine è convenzionalmente fissato alla fine del XIX secolo, date un occhio al grafico qui sotto:

[Il grafico è tratto da qui.]
A Milano, i valori regolarmente registrati mostrano un incremento della temperatura media annuale di circa 2.2 °C dal 1901 al 2018, che corrisponde a un aumento fino a 0.4 °C/decennio dal 1961 a oggi. Il che significa che, a Milano, rispetto all’era preindustriale e entro il 2050, anno solitamente indicato come quello “limite” per conseguire la cosiddetta “neutralità climatica” a livello globale, probabilmente la temperatura si riscalderà di 3,44 °C. Scrivo “probabilmente” perché potrebbe anche essere che il costante trend di aumento termico risulti ancora più cospicuo, visto che le azioni di contenimento al momento messe in atto a livello locale (salvo rare e pressoché ininfluenti eccezioni) che globale sono giudicate da tutti insufficienti.

A titolo di riferimento, l’Ufficio Federale di Meteorologia e Climatologia svizzero riporta che «Rispetto alla temperatura media del periodo di riferimento preindustriale la Svizzera si è riscaldata di circa 2° C (stato al 2018)», dunque un dato simile a quello di Milano nonostante le differenze geografiche e climatiche. L’Ufficio elvetico continua segnalando che «Senza provvedimenti di protezione del clima la temperatura annuale media in Svizzera potrebbe aumentare entro la fine del 21° secolo di 6 °C rispetto al periodo di riferimento preindustriale. Con dei coerenti provvedimenti di protezione del clima il riscaldamento potrà essere limitato a circa 2.5 °C». Se rapportiamo tali previsioni svizzere ai dati milanesi e, utilizzando il dato sopra citato di 0.4 °C/decennio di aumento della temperatura, fissiamo come gli elvetici il limite temporale al 2100, possiamo empiricamente stimare per Milano un aumento complessivo di circa 5,5 °C, anche in questo caso assimilabile con il dato svizzero di 6 °C. Sempre che non vada anche peggio, ribadisco.

Morale (tanto angosciante quanto inesorabile): gli 1.5 °C e pure i 2 °C di aumento massimo ce li siamo già giocati anni fa, almeno in questa parte del mondo. E a Glasgow quanto meno ci sono numerosi rinomati pub dove gustare dell’ottimo whisky scozzese: probabilmente qualcosa di ben più utile e piacevole, rispetto al «bla bla bla» (cit.) cui si potrà assistere nella COP26 – benemerita, ribadisco, ma quanto effettivamente utile nella sua forma attuale e nella sostanza che se ne ricava? – e giusto per godersi un po’ di svago prima di doverci necessariamente preparare al peggio climatico, già.

[Foto di Joshua Woroniecki da Unsplash.]

Kyoto, 15 anni fa

[Foto di Steve Buissinne da Pixabay.]
Ieri, 16 febbraio, erano 15 anni esatti dal giorno in cui entrò in vigore il Protocollo di Kyoto, il primo e più celebre trattato internazionale a tutela dell’ambiente che fissava gli obiettivi di emissioni nocive per lottare contro il riscaldamento globale – ne parla questo articolo di “RSI News”, tra i pochissimi media a farlo. Tra le altre cose, il trattato prevedeva che entro il 2012 l’emissione di gas inquinanti avrebbe dovuta essere ridotta dell’8,65% rispetto alle emissioni del 1990 e poi in misura crescente negli anni successivi, per cercare di contenere l’aumento della temperatura globale legata ai cambiamenti climatici causati dalle attività antropiche.

Non è stato fatto nulla. Nulla.
La temperatura continua ad aumentare in misura crescente e i danni derivanti da tale situazione di conseguenza, nel mentre che vi sono “leader” di grandi potenze che non solo si comportano come nulla stia accadendo ma addirittura gettano fango sulla comunità scientifica e sugli attivisti che cercano di mantenere alta l’attenzione dell’opinione pubblica sul tema, nel silenzio quasi unanime di quasi tutti gli altri “potenti” del pianeta i quali, tutt’al più, si limitano a proferire qualche bella parola al riguardo ma nel concreto non fanno niente.

Sono “leader”, quelli, che dai loro scranni di potere credono egolatricamente di poter rimanere nei libri di storia come grandi statisti; in verità le generazioni future li ricorderanno come dei pusillanimi meschini se non come dei biechi criminali che hanno consegnato ai posteri un pianeta devastato, dai cambiamenti climatici e per certi versi ancor più  dalla loro supponente ignoranza.
E d’altro canto è la sorte e la memoria che più si stanno meritando.