L’Engadina, le sue bellezze, i paradossi (e un piccolo giallo storico)

[Foto di Jacques Bopp su Unsplash.]
L’immagine che vedete qui sopra – ingranditela cliccandoci sopra per goderla appieno – rivela (per chi non la conosca) o riafferma (per chi invece la conosca già) la mirabile bellezza montana dell’alta Engadina, lì ripresa dal Piz Corvatsch nel suo tratto “primigenio” tra il Passo del Maloja e Suvretta, sobborgo di St. Moritz.

L’Engadina è per molti aspetti una delle zone più significative e emblematiche delle Alpi. Innanzi tutto perché il suo lungo solco vallivo si incunea tra le vette delle Alpi centrali andando a lambire quelle occidentali (che cominciano oltre il Passo dello Spluga e la linea formata dai fiumi Reno-Liro e Adda) ma è già parte del bacino idrografico del Danubio, dunque dell’Europa orientale, in quanto l’Inn, che percorre la valle, ne è uno dei principali affluenti alpini. Proprio sopra il Passo del Maloja, sul confine tra l’Engadina e la Val Bregaglia che scende verso Chiavenna e l’Italia, si trova il Piz Lunghin, vetta assolutamente secondaria in questa regione alpina (è alta solo 2780 m) che tuttavia è considerata dal punto di vista idrografico il centro dell’Europa, dato che dai suoi tre versanti le acque confluiscono verso est e il Mar Nero (con l’Inn, appunto), a ovest verso il Mar Mediterraneo (con la Maira/Mera, che sfocia nel Lago di Como) e a nord verso il Mare del Nord, dunque l’Oceano Atlantico (con uno dei rami del Reno).

Inoltre non si può non considerare la realtà moderna e contemporanea dell’Engadina, che ne ha fatto una delle mete più ambite dal jet set internazionale e St. Moritz la “Montecarlo delle Alpi”. Realtà invero paradossale per come la zona presenti, a poche centinaia di metri di distanza, angoli di naturalità alpestre tra i più belli e intatti della catena alpina e spazi iperantropizzati tipici di una qualsiasi metropoli. Al punto che sono gli stessi engadinesi, quando dissertano del capoluogo vallivo St. Moritz, a non considerarlo parte dell’Engadina ma una sorta di zona franca culturale e paesaggistica nella quale per molti versi faticano a riconoscersi. Di ciò ne scrisse emblematicamente anche il grande scrittore engadinese Oscar Peer, in un brano che trovate qui.

D’altro canto non si può dimenticare che, prima di diventare una delle capitali del lusso internazionale, St. Moritz ha sostanzialmente “inventato” il turismo montano invernale: nel 1864 l’albergo Engadiner Kulm, gestito dalla famiglia Badrutt, fu il primo a rimanere aperto anche in inverno, dando il via allo sviluppo della attività turistica invernale e, negli anni successivi, agli sport della neve.

[Un grande classico fotografico: la veduta dell’alta Engadina e del Bernina da Muottas Muragl, sopra Pontresina. Immagine di Matthias Taugwalder, tratta da wegwandern.ch.]
Tornando agli aspetti geografici della valle, il nome dell’Engadina nasce grazie al proprio fiume, l’Inn, forma tedesca del romancio En nel quale si ritrova l’antico nome latino Aenus; ma in esso sussiste anche un piccolo “mistero” o giallo storico. Infatti il termine Engadina, in romancio Engiadina, in tedesco Engadin, viene dal latino vallis Eniatina che significa letteralmente “valle degli Eniati”, ovvero gli abitanti della valle dell’Aenus (da cui Eniatinus). Tuttavia, e qui sorge il piccolo “mistero”, non si è mai appurato chi fossero realmente questi “Eniati”: se, molto semplicemente, gli abitanti della valle, se una tribù di origine celtica come le altre stanziate nelle Alpi centrali in epoca romana, oppure se un popolo specifico e autoctono ma del quale non si hanno informazioni certe.

Un po’ paradossale è anche l’altro significato sovente attribuito al termine Engadina, cioè “giardino dell’Inn”: definizione che lessicalmente non ha alcun fondamento se non come suggestiva trovata turistica ma che, di contro, descrive bene la grande bellezza alpestre del territorio engadinese il quale effettivamente in molti suoi angoli sembra un meraviglioso giardino, assai ben curato, che offre vedute tra le più spettacolari delle Alpi ed è caratterizzato da una grande biodiversità montana.

Insomma, l’Engadina è un luogo che ammalia chiunque e del quale è facile innamorarsi anche grazie alle sue peculiarità così speciali e a volte contrapposte, che la rendono comunque una realtà più unica che rara nelle Alpi. Come scrisse Nietzsche, uno dei più celebri residenti della valle,

L’Alta Engadina, il mio paesaggio, così lontano dalla vita, così metafisico…

La mirabile Val Roseg tra bellezza e pericolo

(Questo post fa parte della serie “Cartoline dalle montagne“; le altre le trovate qui.)

[Foto di Markus Kammermann da Pixabay.]
Qui sopra vedete una eccezionale “cartolina” del massiccio del Bernina, tra Svizzera e Italia, con in primo piano una delle vallate engadinesi più rinomate in forza della sua bellezza peculiare, la Val Roseg. Si riconosce l’ampia zona alluvionale del fondovalle che adduce al Lej da Vadret, il cui colore denuncia l’origine da fusione glaciale delle sue acque; a sinistra vi sono le vette più elevate del gruppo, con il Piz Bernina che raggiunge i 4049 m (il “quattromila” più orientale delle Alpi), mentre a far da testata alla Val Roseg vi sono le cime che la dividono con l’italiana Valmalenco il cui solco si riconosce al di là, confluente nella Valtellina che corre trasversalmente. Invece a destra, appena fuori dall’immagine, si trova l’Engadina con i suoi celebri laghi. Si vede bene anche il Disgrazia, in territorio italiano, e l’occhio ben allenato può facilmente riconoscere pure il Monte Legnone, le Grigne e, affioranti dalle nubi, addirittura le cime del Resegone (ma ingrandendo l’immagine si possono scoprire innumerevoli altri dettagli che caratterizzano l’ampia regione alpina fotografata).

Di recente ho ancora sentito qualcuno sostenere che il toponimo “Roseg” abbia qualcosa a che fare con le rose – i fiori, sì – forse anche per la grafia romancia del toponimo, Val Rosetj, che tuttavia si pronuncia come quello principale. In realtà “Roseg” probabilmente deriva dal longobardo hrosa, similare al latino rosia, termine utilizzato per indicare i grandi ripiani di ghiaccio visibili da lontano, proprio come quelli che si scorgono fin dall’ingresso della valle verso la sua testata. È la stessa origine del toponimo del Monte Rosa, in pratica: dunque per entrambi il fiore non c’entra – gli escursionisti più romantici non ne abbiano a male!

[Foto di Martin Keller su Unsplash.]
Ma non è certo quello di equivocare l’etimologia del toponimo il rischio maggiore che corre la Val Roseg. Infatti il bacino vallivo, in corrispondenza del Lej da Vadret, è stato fatto oggetto di studi propedeutici alla realizzazione di un invaso artificiale e dunque di una grande diga, una di quelle pensate in sede confederale per accrescere la produzione energetica da fonti rinnovabili sulle Alpi svizzere. Ciò significherebbe la costruzione di una diga di sbarramento alta circa 150 metri nell’area dell’estremità settentrionale – cioè verso valle – del Lej da Vadret, oltre alle infrastrutture cantieristiche, le strade di accesso, i tratti dei deflussi residuali e le conseguenti opere di presa dell’acqua invasata verso le centrali di produzione dell’energia. La valle ne verrebbe stravolta, questo è poco ma sicuro.

Il progetto, inevitabilmente, è stato da subito fortemente osteggiato e non solo da parte delle associazioni di tutela ambientale. D’altro canto la Val Roseg è un biotopo protetto a livello nazionale le cui acque sono studiate fin dagli anni Novanta per capire gli effetti del cambiamento climatico sulla biodiversità, sia animale che vegetale, e sull’idrochimica che caratterizza i suoi corsi d’acqua; vi vengono inoltre compiute indagini inerenti la relazione tra condizioni climatiche, fusioni glaciali e portate idriche superficiali.

[Foto di Renato Muolo su Unsplash.]
Insomma, non è solo un luogo dal paesaggio meraviglioso, la Val Roseg, ma è anche prezioso e importante dal punto di vista scientifico. Il suo toponimo non ha niente a che fare con le rose ma la valle è, per così dire, una sorta di mirabile giardino alpestre la cui bellezza rivela equilibri naturali altrettanto belli e preziosi che c‘è da sperare si preservino intatti ancora a lungo, ovvero la cui importanza possa sempre essere compresa profondamente e compiutamente da chiunque, prima di ipotizzare qualsiasi attività antropica nella valle. Si rischierebbe di perdere un luogo di valore inestimabile, più di qualsiasi pur ciclopico mazzo di rose.

Il clima forse collassa o forse no, le montagne sicuramente sì

A proposito di quanto scrivevo questa mattina circa la congettura – esagerata quanto si vuole ma non per questo da ignorare – che il clima stia “collassando”… Ecco: magari il clima no (speriamo!) ma con il cambiamento climatico in corso sono le montagne a collassare sempre di più. Come è accaduto ieri, domenica 14 aprile sul versante engadinese (dunque nord) del Bernina, dal quale si è generata un’enorme frana di almeno un milione di metri cubi di rocce e ghiaccio che è scivolata a valle per circa 5 chilometri annerendo la lingua del Ghiacciaio di Tscherva, in fondo alla celebre Val Roseg.

Pare che la frana si sia staccata alle 7 di mattina a una quota di 3400 metri, in un punto nel quale le temperature ampiamente sotto lo zero dovrebbero ancora tenere ben saldi i versanti – rivolti a nord e dunque in piena ombra, ribadisco. Invece evidentemente non è così. Le immagini che vedete, tratte da questo articolo di “Südostschweiz”, sono assolutamente eloquenti.

Quindi torno alla domanda del post pubblicato qui questa mattina: e se col clima le cose dovessero andare peggio di qualsiasi previsione climatica pur negativa che abbiamo a disposizione? Che facciamo?

Una cartolina dal Bernina

«Bernina» è un altro di quei nomi che inesorabilmente indicano e richiamano alla mente grandi montagne, vasti ghiacciai, superbi panorami alpestri… giustamente, visto che il “quattromila” più orientale delle Alpi è uno dei massicci montuosi più estesi, articolati e elevati di questa parte della catena alpina, con numerose vette spettacolari e assai celebri sulle quali sono state scritte pagine importanti della storia dell’alpinismo. Un nome sinonimo di “montagna” nel senso più compiuto del termine, insomma: ma che origine ha, il così famoso toponimo “Bernina”?

In verità anche questo è un caso di nome assai potente, nell’immaginario (toponomastico e non solo) oggi condiviso, ma di contro dalle origini molto meno “gloriose” ovvero più pragmatiche, per così dire. Il nome «Bernina» in origine – cioè nel Basso Medioevo – non indicava infatti la montagna ma era usato per la località di Bernina Suot e per il vicino alpeggio in val Minor, appena sotto l’omonimo passo sul versante engadinese, e deriva probabilmente dal cognome Bernin, diffuso anche nell’Italia settentrionale e centrale come Bernini. Nel 1429 Bondo, comune della val Bregaglia, acquistò un alpeggio in Barnynia in valle Minori – forse Bernin era il nome del precedente proprietario del terreno – che da allora divenne l’Alp da Buond, mentre con il nome Bernina si finì per indicare il passo del Bernina e successivamente, per un mero traslato geo-toponomastico, l’intero gruppo montuoso soprastante. Meno probabile sembrerebbe invece l’origine slovena del toponimo citata da alcuni (lo studioso grigionese Andrea Schorta, ad esempio), come abbreviazione del termine berdnina (“montagna con propaggini”).

D’altro canto la forma arcaica del toponimo, Barnynia, potrebbe far pensare a una similitudine con l’origine del toponimo «Berna», la capitale svizzera, che popolarmente deriva da Bär, “orso” (animale simbolo della città) ma che oggi viene più probabilmente fatto derivare dal termine celtico berna il quale significa “fessura”, “fenditura”: nell’uno e nell’altro caso, comunque qualcosa che si ritrova facilmente anche sulle montagne!

(L’immagine fotografica della cartolina è di Renato Muolo da Unsplash.)