Alcune considerazioni importanti e pragmatiche, finalmente, sul lupo nelle Alpi

Lo sanno ormai anche i sassi quanto la questione relativa al ritorno del lupo sulle Alpi sia da un lato complessa e ricca di sottotemi da non trascurare e dall’altro estremamente polarizzata e strumentalizzata per fini che nulla hanno a che vedere con la sua autentica comprensione e tanto meno con la gestione pratica delle problematiche relative. Tuttavia si può constatare quotidianamente, o quasi, come il tema sia toccato dalla stampa e dunque sia presente nei dibattiti relativi alla realtà montana contemporanea, anche al netto di tutte le devianze che la inquinano.

Chiunque si occupi come me di terre alte, paesaggi montani (nel senso più ampio della definizione), geografie antropiche e vita sulle montagne, sia stanziale che occasionale, inevitabilmente il lupo se lo ritrova davanti, e scansarlo solo per parimenti sottrarsi alle polemiche spesso sterili se non del tutto ottuse che altrettanto inevitabilmente genera, non mi sembra corretto. D’altro canto a me, da studioso di paesaggi (vedi sopra), verrebbe di disquisire del tema soprattutto dal punto di vista culturale e antropologico, ma tra le persone che ho il privilegio di conoscere c’è Marzia Verona, pastora di professione in Valle d’Aosta e insignita della “Bandiera Verde” 2025 proprio per i meriti della sua attività oltre che scrittrice e figura assolutamente attenta e sensibile nei confronti dei temi che caratterizzano la realtà contemporanea delle nostre montagne.

A lei, dunque, ho voluto chiedere un parere ben più consapevole e edotto di molti altri (me incluso) sul tema del lupo. In passato, ovvero quando ha espresso le proprie idee sul tema, Marzia ha già subito numerosi attacchi offensivi da gentaglia di infima risma. Qui, ora, mi riserverò il diritto/dovere di eliminare i commenti più incivili e comunque tengo a rimarcare come ciò che mi ha raccontato Marzia – e la ringrazio infinitamente per questo grande “regalo” che mi ha concesso – è assolutamente concorde alla mia idea sulla questione.

Ecco dunque ciò che Marzia ha espresso sul ritorno del lupo nelle Alpi. Sono considerazioni estremamente interessanti e illuminanti, spesso ben poco toccate dai dibattiti che si trovano sulla stampa e sui social media, da leggere e meditar con attenzione. Chiunque vi può aggiungere le proprie ma, ribadisco, nelle modalità sopra rimarcate.

«L'argomento è molto complesso, semplificandolo si rischia sempre di non farsi capire da chi non conosce a fondo la questione. Se ci limitiamo, per esempio, ai numeri di capi predati, guardiamo solo una piccola parte del problema. Forse questo sembra assurdo, perché si tende a guardare quasi sempre solo quel dato, ma puoi incontrare un allevatore che non ha avuto predazioni molto più arrabbiato di chi invece le ha subite. Perché? Perché il "problema lupo", per l'allevatore, significa una miriade di danni collaterali:

- stress psicologico, la continua paura di avere delle predazioni, alzarsi di notte a controllare, dormire con i sensi sempre all'erta se si sente i cani che abbaiano, le campanelle che risuonano all'improvviso..., ma anche la sofferenza di trovare gli animali predati, morti o feriti, animali che hai visto nascere, che hai selezionato per le loro caratteristiche produttive, ma anche per la bellezza, per il carattere, eccetera;

- aumento dei costi, necessità di avere più aiutanti, necessità di acquistare materiale per difendere il gregge (reti, elettrificatori, dissuasori luminosi e/o acustici), cani da guardiania (e loro alimentazione);

- mancati redditi, perché si gestisce il gregge in modo differente rispetto a prima, per esempio molti pastori non fanno partorire le pecore durante la stagione d'alpeggio perché la pecora con l'agnello si allontana per partorire, perché resta indietro, eccetera, quindi si concentrano le nascite in altri periodi e di conseguenza l'offerta di agnelli in alcuni periodi (se aumenta l'offerta, il prezzo ovviamente scende);

- gestione dei cani da guardiania, il quale a volte è un problema maggiore del lupo stesso! Nelle zone ad alta frequentazione turistica, il confronto/scontro con gli altri fruitori della montagna è una "guerra" quotidiana, non sempre per colpa del pastore. È vero che ci sono cani non adatti o non adeguatamente inseriti nel gregge, ma ben più sovente ci sono escursionisti, ciclisti, turisti che non rispettano quelle poche elementari regole da seguire quando si incontra un gregge con questi cani (situazione ancora più complicata se il turista ha con sé dei cani da compagnia). Succede che il tutto arrivi ad avere risvolti anche piuttosto spiacevoli, fino alle denunce reciproche.

Questi non sono che alcuni aspetti. Bisognerebbe poi differenziare tra allevatori che salgono dalla pianura per la stagione d'alpeggio e chi invece resta in valle tutto l'anno, ma devo dire che, in questi ultimi anni, il lupo sta "seguendo" le greggi anche in pianura, quindi ormai ci sono attacchi durante l’intero arco dell'anno e non solo per chi resta in quota.

Tra gli allevatori le posizioni sono diverse: ci sono quelli che si ostinano a dire «bisogna abbatterli tutti!» e fanno poco per cercare di difendere i loro animali e altri che invece preferirebbero che il lupo non ci fosse, ma nel frattempo adottano vari accorgimenti per difendere gli animali.

Secondo me è impossibile ridurre a zero il rischio di attacchi. Le recinzioni servono per la notte, ma quando si pascola l'unico strumento sono i cani. Per essere efficaci al 99% ne servono davvero tanti, le greggi di grosse dimensioni dovrebbero avere 10, 15 o 20 cani da guardiania. Si immagini cosa vorrebbe dire a livello di spese per l'allevatore (cibo, vaccinazioni, assicurazioni) e soprattutto cosa significherebbe per chi passa di lì in bici o a piedi. Ho un amico che ha un piccolo gregge (neanche 200 capi) e ha 8 cani da guardiania: lui ha scelto razze più equilibrate, predazioni non ne ha avute (in montagna il numero dei suoi capi aumenta, ne prende da diversi altri piccoli allevatori), ma problemi con i turisti invece sì.

Cosa potrebbero fare le istituzioni? Ad esempio non c’è una normativa apposita sui cani da guardiania e dunque regolamentare la questione: puoi prenderti una denuncia per "omessa custodia del cane" (mi pare sia questa la dicitura), perché ovviamente il cane da guardiania deve fare il suo mestiere di sorvegliante e non stare attaccato ai piedi del padrone.

In Francia hanno più "coraggio", all'imboccatura di certi sentieri non solo c'è il cartello che spiega la presenza di cani con il gregge e le regole di comportamento da tenere, ma dice anche di non salire lì se si ha paura e/o si hanno con sé cani da compagnia. In Svizzera ci sono anche cartelli con mappe molto chiare che indicano la zona dove pascola il gregge e i sentieri che la attraversano, così che l’escursionista si possa regolare di conseguenza.

Sempre in Francia, da quando c'è il problema dei predatori, le istituzioni collocano negli alpeggi (soprattutto in alta quota) delle casette prefabbricate in legno, moduli abitativi con tutto l'essenziale, dalla stufa al pannello fotovoltaico, in modo che il pastore possa stare vicino alle pecore anche nelle parti più alte dell'alpeggio, senza doverle far scendere quotidianamente o doverle lasciare da sole (anche se nel recinto) per rientrare alla baita (cosa che invece si fa nella maggior parte degli alpeggi in Italia).

Da noi ogni regione si comporta diversamente. La Valle d'Aosta, ad esempio, paga lo stipendio a un aiuto pastore per la stagione estiva se c'è un gregge abbastanza consistente (non ricordo il numero esatto di capi, dove mandiamo noi le capre ce ne sono circa 250 e chi gestisce l'alpeggio usufruisce di questo contributo). Secondo me questo è un intervento molto utile, ben più importante che comprare qualche rete di protezione.

In realtà nella politica locale mi sembra che ci sia ben poca competenza e comunque spesso una certa politica sembra più pronta a cavalcare l'onda degli abbattimenti, che costano meno (rispetto a stipendi, cani, moduli abitativi, eccetera) e riscuotono sicuri applausi dagli allevatori. Così sembra che faccia di più il politico che dice di voler ottenere gli abbattimenti che non il tecnico che studia quali misure di compensazione si potrebbero offrire agli allevatori.

In generale sicuramente non c'è una soluzione facile altrimenti si sarebbe già trovata, almeno da qualche parte, e quella parte di politica che continua a promettere gli abbattimenti fa non pochi danni agli allevatori che continuano ad aspettarsi quella "soluzione" senza cercare alternative per difendere il proprio bestiame.

Inoltre, l'abbattimento effettuato da fantomatiche squadre (forestali o non so chi altro) secondo me non può dare grandi risultati, perché magari si abbatte sì un lupo ma non quello più pericoloso, quello confidente che si avvicinava al gregge anche quando c'è l'uomo, eccetera. Secondo la mia opinione sarebbe molto più efficace un tiro da parte del pastore: lui è lì, vede il predatore, gli spara. Probabilmente non lo colpisce nemmeno, ma lo spaventa e il lupo è molto intelligente, da quel momento assocerà al gregge un pericolo e non un “discount” facilmente raggiungibile dove procurarsi il cibo. Immagino però che a questo punto stiamo affrontando dettagli sempre più delicati che scatenano polemiche sempre più vivaci, soprattutto se uno non ha idea di come funzioni la gestione di un gregge o l'etologia del predatore.

Un'ultima cosa fondamentale che va rimarcata: la presenza dei predatori colpisce soprattutto i piccoli, piccolissimi allevatori, i veri custodi del territorio, del paesaggio, delle razze autoctone (e, spesso, anche dei prodotti tipici). Talvolta sono hobbisti, oppure hanno aziende che ormai potrebbero essere definite “micro” (poche decine di capi o anche meno, parlo di capre, pecore, talvolta anche bovini). La passione è il motore di queste realtà, spesso in bilico dal punto di vista economico (o, come dicevo, sono hobbisti, pensionati, giovanissimi oppure persone che hanno un'altra attività principale). Se la "convivenza" con i predatori diventa drammatica (animali allevati con tanta cura, animali che hanno un nome, che sono letteralmente parte della famiglia... trovarseli sbranati è una vera tragedia) o comunque insostenibile economicamente, alla fine, con la morte nel cuore, si rinuncia. Si vende tutto, si smette di allevare. Per i "grandi allevatori" è diverso, la perdita di qualche capo è certamente un problema economico e non solo, ma viene assorbita più facilmente. Se si guardano solo i numeri, magari sul territorio c'è sempre lo stesso patrimonio zootecnico in termini di capi, ma le aziende sono sempre meno, certe razze sono sempre meno presenti, si abbandonano i territori già più fragili: perché con 20 pecore o 20 capre vai a pascolare prati e praticelli ripidi, fai anche il fieno a mano, ma se il tutto passa alla grande azienda, quei fazzoletti non sono più interessanti e verranno lasciati all'abbandono.»

Grazie ancora di cuore a Marzia Verona. E anche alle sue meravigliose capre!

Una cosa alla quale noi animali-umani dovremmo assolutamente ambire

Credo che una delle cose fondamentali che noi esseri umani – noi cosiddetti Sapiensdobbiamo perseguire per poterci dire realmente tali e giustificare quell’attributo auto-assegnatoci, è il più alto livello possibile di empatia nei confronti delle altre creature viventi, in primis degli animalitutti gli animali, non soltanto quelli più vicini a noi e graditi.

D’altro canto la parola “empatia” viene dal greco en-páthos, «sentire dentro», principalmente in riferimento alle emozioni altrui, ma che si potrebbe riferire anche al fatto che siamo animali pure noi umani, sebbene ce lo dimentichiamo spesso (strano per la creatura più “evoluta” sul pianeta!), dunque ciò che si sentiamo dentro ha un’origine simile a quello che ogni altro animale elabora dentro di sé.

Una relazione compiutamente empatica con le altre razze animali che insieme a noi vivono su questo pianeta non è solo una manifestazione di sensibilità e rispetto verso la Natura – della quale siamo pienamente parte, ribadisco – ma è anche un esercizio di considerazione e consapevolezza verso noi stessi: perché poche altre cose (forse nessun’altra?) può darci tanto e insegnarci moltissimo come un rapporto di autentica empatia con gli animali.

[Immagine tratta da www.compassion-contagion.com/fieldnotes/animalspeople.]
Solitamente si disserta su quanto gli animali, in particolar modo quelli domestici ovviamente, sappiano essere empatici con noi umani. Ma viceversa? Quanto sappiamo esserlo noi con loro? In maniera autentica e complessa, s’intende, non in forza dei semplici comandi grazie ai quali interagiamo con essi o dell’affetto che ci lega.

Be’, lo ribadisco: credo sia una delle massime aspirazioni alla quale noi umani dovremmo ambire, una condizione la cui comprensione dell’importanza fondamentale dovrebbe essere di default nella nostra intelligenza. Quelli più edotti al riguardo forse la definirebbero un esercizio di ecosofia; gli altri, tra i quali me, la possono pure indicare come una manifestazione della più nobile, compiuta e olistica umanità.

Bisogna imparare a riconoscere e a rispettare negli altri animali i sentimenti che vibrano in noi stessi.

[John Oswald, The Cry of Nature; or, An Appeal to Mercy and to Justice, on Behalf of the Persecuted Animals, 1791.]

C’è qualcosa di ancora più spaventoso di orsi e lupi, sulle nostre montagne

[Una delle foto che il fotografo Agostino Furno ha potuto scattare all’orso incontrato in Valfurva, tratta da www.ildolomiti.it.]
Il recente caso di incontro ravvicinato tra un uomo e un orso in Valtellina ha fatto subito agitare certi soggetti – anche istituzionali – particolarmente ansiosi che hanno paventato ricadute negative sul turismo. Al proposito s’è distinta la sindaca di Lovero, piccolo comune all’ingresso dell’alta valle, la quale sugli organi di informazione locale non ha esitato ad affermare che «se vogliamo una montagna viva, produttiva e accessibile, dobbiamo porci il problema del numero sostenibile di grandi carnivori. Un numero che, realisticamente, non può essere altro che il più prossimo possibile allo zero.»

«Realisticamente» lo sterminio di lupi e orsi, in pratica.

Be’, posto che in Trentino – territorio dell’orso per antonomasia, nelle Alpi italiane, posti anche i noti casi di cronaca – il turismo lo scorso anno è persino aumentato rispetto agli anni precedenti, prova che di ricadute negative sul turismo l’orso non ne genera affatto (anzi!), a leggere affermazioni così retrive come quelle della sindaca di Lovero mi viene da temere che il vero elemento repulsivo per l’immagine di un territorio, e dunque anche per la sua attrattività turistica, sia proprio un amministratore locale che dice cose talmente prive di buon senso e di logica scientifica e culturale. Cioè mancante di sensibilità e cura verso il proprio territorio del quale, temo, evidentemente non comprende appieno le peculiarità e le potenzialità.

Altro che l’orso!

Detto ciò, posso comprendere che si possano considerare ben elaborate strategie contenitive (non certo lo sterminio!) su base scientifica (non certo ideologico-politica!) della presenza dei grandi carnivori nei territori alpini antropizzati, soprattutto al fine di favorirne la convivenza (c-o-n-v-i-v-e-n-z-a!) con le attività agricole operanti in loco, ma parimenti ci sarebbero da attuare efficaci strategie culturali per contenere le sfrenatezze ideologiche di certi soggetti, soprattutto se istituzionali. È ormai evidente che il “problema” di orsi e lupi deriva soprattutto da queste figure, non dagli animali stessi.

Quindi, se qualcuno avesse voluto andare a Lovero magari sperando di osservare – da lontano e assumendo il comportamento corretto – qualche esemplare della fauna selvatica ma decidesse di non andarci dopo aver letto le parole della sindaca, mi dispiacerebbe ma lo capirei, ecco.

Fare cose belle e buone in montagna: a Balme (Val d’Ala, Piemonte)

Mentre lungo le Alpi, vi sono (purtroppo) numerose località il cui paesaggio di grande bellezza viene concepito dagli amministratori pubblici locali soltanto come un prodotto da mettere in vendita e far consumare al turismo massificato – definendo tale pratica una “valorizzazione” quando le uniche cose che essi intendono valorizzare sono la propria immagine politica a fini elettorali e gli interessi dei sodali che possono consentire loro certe iniziative – in altri luoghi si ha la capacità, la sensibilità, la cultura e il buon senso di comprendere che l’unica autentica pratica di valorizzazione dei territori montani e delle comunità che li abitano può avere origine solo e soltanto dalla loro salvaguardia ambientale e socioculturale. Così vi si può costruire il miglior futuro possibile, quando viceversa, cioè in quelle altre località citate soggiogate alla turistificazione consumistica più insensata, si sta solo avviando la loro drammatica rovina.

Balme (Bàrmes in francoprovenzale) è un villaggio con poco più di cento abitanti situato nella Val d’Ala, in provincia di Torino, a 1432 m di quota. E’ un luogo pieno di fascino oltre che di ricchezze naturali di cui l’amministrazione comunale ha piena consapevolezza tanto che già nel 2016 esordì con una delibera dove si scriveva che «natura preservata e paesaggio tradizionale sono gli elementi su cui fondare durature prospettive di futuro decoroso agli abitanti della montagna». Queste affermazioni accompagnavano una delibera dove il comune di Balme con grande coraggio decise di

«ritenere inopportuna, impropria e dunque di esprimere la propria contrarietà alla pratica di qualsiasi tipologia di accesso e di fruizione motorizzata a scopo ludico del proprio territorio, sia estiva, quando preveda la percorrenza di sentieri e piste con motocicli, mezzi fuoristrada e quad, sia nel periodo invernale quando ciò avvenga per mezzo di motoslitte e di elicotteri per il trasporto turistico.»

Una scelta significativa e pionieristica che ha avuto un seguito: infatti dopo aver vietato l’eliski accogliendo l’idea originaria di Toni Farina dalla quale poi è scaturito il progetto “BalmExperience” a cura di Mountain Wilderness. il comune è diventato “Villaggio degli Alpinisti e ora sta pensando di riorganizzarsi puntando soprattutto sul turismo invernale delle ciaspole e degli sport in natura. Per l’estate, intanto, il Comune, nell’ambito di un progetto coordinato da CIPRA, sta cercando di mitigare gli effetti dei picchi di presenze turistiche domenicali estive in particolare in luoghi incantevoli quanto delicati come il Pian della Mussa, vasto altopiano erboso a 1800 m originatosi dall’interramento di un antico lago glaciale e area che ricade all’interno di un sito di interesse comunitario. Tra le misure previste c’è la delimitazione di aree parcheggio, insieme all’adozione di un servizio di vigilanza per i periodi di maggior presenza turistica ed il coinvolgimento della Città Metropolitana di Torino (gestore del SIC e proprietaria della strada) nell’elaborazione di un piano di fruizione dell’area con regolamentazione degli accessi motorizzati e dei parcheggi e individuazione aree camper e pic nic.

Balme partecipa anche al progetto “BeyondSnow”, rivolto alle località che dovranno reinventarsi per la carenza di precipitazioni nevose, e allo studio avviato dall’Università di Economia di Torino dal titolo “Sostenibilità Economico-ambientale delle micro-stazioni sciistiche di bassa quota nel tempo dei climate change (SCI-ALP)”. Inoltre, per tutto quanto sopra descritto, Balme è anche una delle località montane alle quali è stata assegnata la “Bandiera Verde” 2023 di Legambiente, che contraddistingue le migliori pratiche di sviluppo socioeconomico e ambientale sostenibile messe in atto sulle montagne italiane, dal quale report ho tratto le informazioni qui proposte.

Fare cose belle e buone in montagna, dunque costruire per le comunità che vivono i territori montani e i visitatori che le frequentano un buon futuro e una visione economica, sociale e culturale favorevoli, si può. Conviene farla sapere con decisione a quei tanti amministratori pubblici citati all’inizio di questo articolo, questa innegabile realtà.

N.B.: altre cose belle e buone fatte in montagna delle quali ho scritto qui sul blog:

Fare cose belle e buone in montagna: il progetto “Pasturs”

In queste settimane di tensioni montane che contrappongono a vario titolo umani e animali selvatici, in particolare orsi e lupi, tra tristi eventi di cronaca, inquietudini variamente (in)giustificate e caciare mediatiche, tornano evidenti il valore concreto e l’importanza del progetto Pasturs, nato in origine nel 2015 e avviatosi con la prima edizione nel 2016, il quale giusto lo scorso sabato ha iniziato le attività di formazione per l’imminente stagione 2023 di allevamento in alpeggio.

In buona sostanza, Pasturs – il quale gode del sostegno di numerosi soggetti pubblici e privati, sia a livello di gestione che di finanziamento delle attività – cerca di migliorare la convivenza tra allevamento e grandi predatori (orso e lupo in primis, appunto) attraverso giovani volontari che aiutano nella vita lavorativa d’alpeggio, promuove inoltre l’utilizzo di misure di prevenzione, che difendono il bestiame da potenziali incursioni di lupi e orsi, sostiene il dialogo costruttivo che aiuta ad arginare i conflitti presenti, propone soluzioni condivise e sensibilizza sulle tematiche di conservazione della biodiversità e delle produttività umane.

Le misure di prevenzione che i volontari del progetto mettono in atto sono un elemento comunicativo verso i predatori: orso e lupo sono mammiferi dall’intelligenza deduttiva complessa e imparano presto quali elementi costituiscono un eccessivo investimento energetico o procurano loro dolore fisico (elettricità) o rischio di incolumità (cani). In tal senso i metodi di prevenzione più efficaci sono la sorveglianza del bestiame da parte dell’uomo, l’utilizzo di recinzioni elettrificate (attraverso apposito elettrificatore portatile), l’utilizzo di cani da guardiania (es. razza Pastore abruzzese), il ricovero notturno.

I volontari selezionati per Pasturs, dopo aver seguito un breve corso di formazione, trascorrono un periodo in alpeggio aiutando l’allevatore nel suo lavoro quotidiano. Le loro principali attività sono la sorveglianza del gregge, l’aiuto nella gestione dei cani, il montaggio/smontaggio delle recinzioni elettriche di contenimento del bestiame, la sensibilizzazione e informazione dei turisti sulle corrette tematiche di conservazione della biodiversità e delle produttività umane.

Pasturs opera al momento su due aree montane, le Orobie bergamasche in Lombardia (Valle Brembana, Valle Seriana, Valle di Scalve), e la zona del Parco Naturale del Mont Avic, in Valle d’Aosta (Valle di Champdepraz, Valle di Champorcher), ma sta avviando le proprie attività anche sull’Appennino Tosco-Emiliano e in Trentino-Alto Adige, partecipando alla rete del Progetto interalpino LIFEstockProtect attivo in Austria, Baviera e appunto Trentino-Alto Adige.

Sia chiaro: Pasturs non è la “soluzione” per le problematiche di convivenza tra allevatori alpini e grandi carnivori, anche in forza della sua attuale relativa limitatezza (ma c’è da augurarsi che negli anni futuri possa ampliarsi sempre di più) ma rappresenta senza dubbio un ottimo e significativo modello di azione sul territorio che offre iniziative concrete sia per il sostegno della pastorizia montana e sia per la tutela della grande fauna alpina, nell’ottica di una necessaria – e necessariamente condivisa – opera di salvaguardia (anche culturale) dei territori montani, dalla quale può e deve trarne beneficio chiunque, umani, animali e montagne.

Per saperne di più sul progetto Pasturs, potete visitare il sito web qui.

[Le immagini fotografiche che vedete nel post sono tratte dalla gallery del sito del progetto.]

N.B.: altre cose belle e buone fatte in montagna: