L’Adula, la montagna “navigante”

[Il gruppo dell’Adula visto dalla Valle di Blenio. Foto di Markus Bernet, opera propria, CC BY-SA 2.5, fonte commons.wikimedia.org.]
Nelle Alpi vi sono alcune montagne che, pur essendo morfologicamente importanti ma non vantando altitudini tra le maggiori, risultano meno note di altre ben più celebrate, eppure possiedono una storia geografica e un carisma alpestre assolutamente notevoli. Ma non solo: a volte possiedono doti addirittura… strabilianti.

L’Adula (3.402 m, Rheinwaldhorn in tedesco e Piz Valragn in romancio), la vetta più alta del Canton Ticino, in Svizzera, è senza dubbio una di queste. Quale altra montagna d’altro canto potrebbe vantarsi di aver “girovagato” qui e là per buona parte delle Alpi tra l’Italia e la Svizzera?

Ma andiamo con ordine – un ordine gerarchico, per così dire. Sì, perché l’Adula, pur non essendo come detto una delle vette alpine più elevate e nemmeno tra le più imponenti, è risultata sempre centrale nella considerazione antica della catena alpina e nei primi tentativi di elaborarne una identificazione geografica.

[L’Adula in una carta svizzera del 1868 e, qui sotto, in una foto satellitare del 2021. La vetta è indicata dalla freccia gialla e rossa; per ingrandire le immagini cliccateci sopra. Si noti la drammatica riduzione della superficie dei ghiacciai del monte.]

Infatti nella Cosmographia di Claudio Tolomeo, risalente al secondo secolo dopo Cristo e riscoperta in Europa nel Quattrocento, i toponimi riferiti alla regione alpina sono pochissimi, segno di una conoscenza assai scarsa della catena. Il più frequente, se si toglie il termine generico «Alpes», è proprio Adula. Ciò perché con questo toponimo si intendeva un territorio montano molto più grande di quello che è l’attuale Gruppo dell’Adula: sicuramente si identificava la zona tra gli attuali Passo della Novena e Passo del San Bernardino, quindi tra il Piemonte, l’alta Lombardia e i cantoni svizzeri adiacenti (al proposito Stefano Franscini, celebre politico e pedagogista svizzero-ticinese ottocentesco, scrive che «la contrada cis-cenerina costituisce il pendio meridionale di un anello della vastissima catena delle Alpi, vogliam dire le Alpi Lepontine, o Elvetiche, o Adule»), ma secondo alcuni addirittura le «Alpi dell’Adula» arrivavano fino all’alta Valtellina e alle sorgenti dell’Adda. Al punto che si è ipotizzato che lo stesso toponimo «Valtellina» originasse – in maniera lessicale invero parecchio “acrobatica” – da Adula, da cui derivava il termine Tulla e da questo Val Tullina.

[Il versante ovest dell’Adula, quello del Canton Ticino. Foto di Marco Lurati, opera propria, CC BY-SA 3.0, fonte commons.wikimedia.org.]
Ecco, a tale proposito: ma l’oronimo Adula che origine avrebbe, poi?

Non si sa con precisione e ciò è piuttosto strano, vista la così antica conoscenza dello stesso e la sua riconosciuta referenzialità geografica.

Forse, al riguardo, è proprio il fiume Adda a darci una buona dritta, e d’altro canto una certa apparente assonanza tra i toponimi «Adda» e «Adula» è piuttosto intuitiva. Secondo alcuni studiosi Adda è un termine di origine celtica, derivando dal vocabolo abda, nel senso di «acqua che scorre impetuosa». Secondo altri, il toponimo originerebbe dal latino Ad dua con il significato di «due sorgenti». In effetti anche dai monti dell’Adula si originano due fiumi importanti: a nord vi è una delle principali sorgenti del fiume Reno, uno dei maggiori d’Europa, a sud scendono i principali affluenti dell’alto corso del fiume Ticino, il principale affluente del Po per volume d’acqua e in assoluto il secondo fiume italiano per portata d’acqua. Peraltro, se si considera la georeferenza antica del termine Adula, quella con cui si identificava un’ampia regione delle Alpi Centrali, vi si trovano le sorgenti di altri importanti fiumi, tutti parecchio impetuosi. Dunque, pur rimanendo nel campo (sempre un po’ spinoso) delle ipotesi toponomastiche, potrebbe effettivamente essere che l’oronimo «Adula» condivida l’origine con il fiume Adda, con ciò riconferendo valore anche all’antica referenza geografica.

[Il versante nord dell’Adula, nel territorio del Canton Grigioni. Foto di 32 Fuß-Freak, opera propria, CC BY 4.0, fonte commons.wikimedia.org.]
Ma veniamo alla dote più “strabiliante” che presenta l’Adula: quella di essere stata una montagna navigante! Già, proprio così.

Qualcuno avrà capito che, con tale definizione, mi ispiro al titolo del celebre e bellissimo libro di Paolo Rumiz, mentre spero che tutti intuiscano che non fosse la montagna vera e propria ad andarsene a zonzo per la catena alpina, ma lo ha fatto per molto tempo il suo toponimo – così che, formalmente, per certi versi vi sia “andata appresso” anche la montagna.

Come detto poco fa, in origine con il nome «Adula» si identificava non un singolo monte ma una regione alpina variamente ampia, e la citazione sulla Cosmographia di Tolomeo non fa capire a cosa il toponimo faccia riferimento nello specifico.

Nel 1495 Conrad Türst pubblica la prima carta della Svizzera: su di essa l’Adula si piazza più o meno sul Passo del San Gottardo, dal quale in realtà dista quasi 40 chilometri in linea d’aria. Con altre pubblicazioni cartografiche di ispirazione tolemaica più o meno coeve la montagna se ne va ancora più a zonzo e diventa veramente “navigante”, venendo indicata nelle più disparate ubicazioni.

[Immagine fotografica del 1906 con il villaggio di Hinterrhein, la Rheinwaldtal, lo Zapportgletscher e il versante est dell’Adula/Rheinwaldhorn. Sulla sinistra si intravede anche l’inizio della salita della strada verso il Passo del San Bernardino. Fonte commons.wikimedia.org.]
Nel 1511 una mappa che appare a Venezia, ripresa anche da Sebastiano Münster nella sua Cosmographia del 1544, di Adula ne segna persino due, una posta più a nord e una più a sud della reale posizione. Dalla seconda vengono addirittura fatti nascere molti dei principali fiumi delle Alpi occidentali come l’Aar, la Doubs, il Rodano, l’Isère, la Durance, il Var ed il Reno (cosa che, pur idrograficamente errata, darebbe credito a una delle possibili origini del nome della montagna prima citate quale dispensatrice di «acque impetuose»).

Più o meno negli stessi anni Aegidius Tschudi pubblica l’Alpisch Rhetia, uno studio storico-geografico comprendente anche una cartina della Svizzera: su di essa l’Adula si è spostata a est della Val Calanca, cioè più a sud della sua posizione reale.

Finalmente a fine Cinquecento il cartografo fiammingo Abramo Ortelio, su una delle tante carte prodotte, fa tornare e piazza per la prima volta l’Adula nell’ubicazione più o meno corretta. Tuttavia, ancora per un certo periodo alcune delle carte precedenti faranno scuola reiterando le imprecisioni geografiche e quindi il vagabondaggio dell’Adula qui e là per le Alpi centrali. Fino a che nei secoli successivi la progressiva evoluzione delle scienze geografiche, e dunque della cartografia, termineranno le navigazioni alpestri e consentiranno all’Adula di diventare “stanziale” nel punto dove oggi la possiamo ammirare in tutta la sua bellezza.

[L’Adula/Rheinwaldhorn visto dal vallone di Lanta sul versante settentrionale, con l’omonimo ghiacciaio. Foto di Whgler, opera propria, CC BY-SA 4.0, fonte commons.wikimedia.org.]
In ogni caso, nonostante l’Adula abbia ormai acquisito una definitiva immobilità (!), resta intatto il fascino e il carisma di una montagna non tra le più celebri in assoluto, come detto, ma sicuramente tra quelle più importanti e emblematiche per un’ampia parte delle nostre Alpi.

N.B.: buona parte delle informazioni geografiche che avete letto sono tratte da questo articolo (risalente al 1941!) sul sito web del Club Alpino Svizzero.

Anno 1903, con la giacca e l’abito lungo in vetta all’Eiger

[Fonte: Daniel Anker: “Jungfrau”, in Dizionario storico della Svizzera (DSS), versione del 06.01.2025 (traduzione dal tedesco). Online: https://hls-dhs-dss.ch/it/articles/008786/2025-01-06/, consultato il 26.03.2025.
Il manifesto turistico che vedete qui sopra fu realizzato nel 1898 dal pittore austriaco Anton Reckziegel e pubblicato dall’atelier di arti grafiche Hubacher & Biedermann di Berna in occasione dell’inaugurazione del tratto della celebre Ferrovia della Jungfrau / Jungfrau Bahn che porta dalla Kleine Scheidegg alla stazione di Eigergletscher, ai bordi del ghiacciaio dell’Eiger.

Il manifesto mostra (cliccateci sopra per ingrandirlo) quello che sarebbe dovuto essere il percorso completo progettato per la ferrovia, che dallo Jungfraujoch, dove giunse nel 1912, doveva giungere fino in vetta alla Jungfrau. Non solo: la mappa sottostante, del 1903, mostra che il progetto prevedeva anche una funivia che dalla stazione Eismeer giungeva in vetta all’Eiger nonché un’altra fermata prima del Jungfraujoch, quella di Mönch. Negli anni successivi a queste ipotesi progettuali varie difficoltà tecniche e finanziare, oltre ad alcuni gravi incidenti nei cantieri e alla morte dell’industriale zurighese Adolf Guyer-Zeller, committente e finanziatore principale dell’opera, indussero a rinunciare agli sviluppi citati e diedero alla Ferrovia della Jungfrau la forma attuale.

[Fonte: Schweizerisches Bundesarchiv – Scan aus Daniel Anker: Eiger – Die vertikale Arena, 2008 (S.39), pubblico dominio su https://commons.wikimedia.org/w/index.php?curid=5714664.]
Considerando che, grazie alla Ferrovia, nel 2024 sono arrivati ai quasi 3500 metri di quota del Jungfraujoch più di un milione di visitatori, tanto da fare del luogo il più elevato caso di overtourism d’Europa, vi immaginate cosa sarebbe potuto accadere alla zona se effettivamente si fossero raggiunte pure le vette dell’Eiger e della Jungfrau? Gente in bermuda e infradito che oggi si scatterebbe selfies in cima all’Orco – l’Eiger, appunto – una delle montagne più iconiche e temibili delle Alpi!

D’altronde erano tempi, quelli, nei quali il progresso tecnologico galoppante, in un mondo che nemmeno lontanamente poteva immaginare crisi climatiche di sorta o altre criticità, faceva pensare che tutto fosse possibile, anche giungere in cima a montagne di oltre 4000 metri comodamente seduti nei vagoni di un treno – pure il Cervino fu sottoposto a un progetto del genere, ne scrissi al riguardo qui. Nei decenni successivi e fino a oggi il progresso, in senso generale, ha preso altre strade (a volte migliori, altre volte no) e consentito l’elaborazione di sensibilità diverse rispetto al mondo che viviamo e alle montagne nello specifico, per fortuna.

Eppure c’è ancora qualcuno che piazzerebbe (e piazza) funivie ovunque pur di lucrare sui paesaggi montani e senza curarsi della realtà in divenire. Si tratta di iniziative obsolete già bocciate dalla storia: ma, evidentemente, quelli che le pensano hanno un’idea di montagna e di paesaggio rimasta ferma a un secolo e mezzo fa, già.

I ghiacciai che ancora cent’anni fa bussavano alle porte delle case. Storia degli straordinari Grindelwaldgletscher, icone nel bene e nel male del paesaggio alpino

(Articolo pubblicato in origine lunedì 5 agosto su “L’AltraMontagna”, qui.)

[Le vette e i ghiacciai di Grindelwald si specchiano nel Bachsee. Foto di Valerie Calabro su Unsplash.]
La cittadina di Grindelwald, nelle Alpi Bernesi, è nota in tutto il mondo per essere al centro di uno dei paesaggi più iconici della Svizzera, alla base della celeberrima triade alpina dell’Oberland composta dall’Eiger, dal Monch e dalla Jungfrau, che frotte di turisti visitano quasi tutto l’anno a bordo dei treni dell’altrettanto celebre Ferrovia della Jungfrau.

Invece, all’inizio dell’era turistica moderna cioè nei primi anni del secolo scorso, la principale attrazione dei visitatori della zona non erano le sue alte e imponenti vette ma ciò che fluiva da esse a valle: i grandi ghiacciai di Grindelwald, le cui fronti a quei tempi lambivano le case del paese.

I Grindelwaldgletscher, parte dell’ampio territorio glacializzato – tra i più estesi delle Alpi – che ammanta i numerosi Quattromila dell’Oberland, erano caratterizzati da due grandi lingue vallive, il Ghiacciaio Superiore (Oberer Grindelwaldgletscher) e il Ghiacciaio inferiore (Unterer Grindelwaldgletscher), che dai bacini in quota scorrevano attraverso delle strette gole fino a sfociare nel fondovalle. La fronte del Ghiacciaio Superiore arrivava a 1.180 metri di quota, quella del Ghiacciaio Inferiore scendeva addirittura a 983 metri, rappresentando la lingua glaciale alla minor altitudine di tutte le Alpi, l’unica in epoca moderna a scendere sotto i mille metri di quota.

[Veduta panoramica della conca valliva di Grindelwald; la montagna prominente al centro è l’Eiger. Foto di Christoph Strässler, CC BY-SA 2.0, fonte commons.wikimedia.org.]
Peraltro, vista l’inopinata comodità di accesso alle fronti, da metà Ottocento entrambi i ghiacciai furono soggetti all’attività di escavazione del ghiaccio per fini commerciali. Il Ghiacciaio Inferiore, il più comodo da raggiungere, fu particolarmente soggetto a tale attività: nel solo anno 1864 la ditta bernese Schegg & Böhlen, che deteneva la concessione estrattiva, escavò quasi 1.750 tonnellate di ghiaccio, esportato in gran parte a Parigi.

Un famoso dipinto del pittore svizzero Caspar Wolf, datato 1774 e conservato alla Kunsthaus di Zurigo, fa ben capire la realtà storica dei Grindelwaldgletscher finora descritta:

Di contro, avrete notato che nel raccontare delle fronti dei due ghiacciai ho scritto che ne «erano caratterizzati», al passato. Infatti, entrambe le lingue pur così estese e possenti dei ghiacciai di Grindelwald oggi sono scomparse, come si può constatare dall’immagine sottostante del 2021 che offre una visuale simile a quella del dipinto di Caspar Wolf:

Dal 1879, anno di inizio delle misurazioni glaciologiche in zona, il Ghiacciaio Superiore ha perso 810 metri di lunghezza e nel 2013 la lingua si è spezzata in due parti, separandosi dall’area di accumulo a circa 2300 metri di altitudine. La lingua inferiore di ghiaccio morto – così detto perché non più direttamente alimentato dal bacino di accumulo glaciale superiore – si estende da circa 2150 fino a circa 1550 metri (al 2018), ed è il più grande corpo di ghiaccio morto della Svizzera.

Il Ghiacciaio Inferiore, un tempo il più esteso dei due, come visto, dal 1879 ha perso addirittura più di 3,5 chilometri di lunghezza, lasciando una profonda e spettacolare forra oggi attrezzata con un percorso turistico molto frequentato dai visitatori di Grindelwald ma che, a ben vedere, per la zona rappresenta un’attrazione inversa rispetto al passato: se infatti fino a un secolo fa si giungeva in zona per emozionarsi di fronte alla presenza del ghiacciaio, oggi ci si va per svagarsi grazie alla sua scomparsa.

[La forra lasciata dal ritiro dell’Unterer Grindelwaldgletscher. Foto di R L da Pixabay.]
Nonostante il forte regresso, peraltro in evidente accelerazione dal 2000 in poi rispetto ai decenni precedenti, i Grindelwaldgletscher restano ancora tra i principali apparati glaciali delle Alpi svizzere. Sebbene non siano più visibili dal fondovalle, rappresentano elementi geografici referenziali per il territorio di Grindelwald e per il suo iconico paesaggio nonché per la vasta e spettacolare regione alpina d’alta quota che rende l’Oberland bernese così rinomato a livello mondiale. Di contro, come detto, la loro assenza dal panorama locale rende ben percepibile la presenza del cambiamento climatico e dei suoi effetti così evidenti in particolar modo sulle Alpi: se il loro ghiaccio fonde e scompare ogni anno di più, è bene che non scompaia e anzi che accresca la consapevolezza diffusa su questa realtà così sconcertante ma ancora troppo poco considerata per la quale le montagne stanno mutando e diventando ciò che nessuno di noi aveva mai visto prima.

Il Wetterhorn, una montagna spettacolare – ma alla quale poteva andare anche meglio!

(Questo post fa parte della serie “Cartoline dalle montagne“; le altre le trovate qui.)

[Foto di Janis Fasel su Unsplash.]
Il Wetterhorn è senza dubbio una delle montagne più spettacolari della Svizzera e di tutte le Alpi. Possente, maestosa, imponente, domina con la sua triplice vetta – che raggiunge la quota massima di 3704 m – una delle vedute più famose e fotografate della Svizzera, quella della conca valliva di Grindelwald, sulla quale precipita dalle zone sommitali glaciali con un’impressionante parete verticale alta 1400 metri e una prominenza complessiva dal fondovalle di oltre 2000 metri.

Ha solo una “sfortuna”, il Wetterhorn: l’orogenesi di questa parte delle Alpi l’ha piazzata accanto a montagne ancora più elevate e, soprattutto, più celebrate dalle cronache e dal turismo mondiale. Innanzi tutto l’Eiger, poi il Monch e la Jungfrau – la celeberrima “triade” dell’Oberland bernese – e poi altri quattromila della zona come lo Shreckhorn, il Lauteraarhorn, il Finsteraarhorn… Così sovrastato da queste vette e messo in ombra dalla loro fama globale, il Wetterhorn risulta inesorabilmente meno famoso e citato. Eppure, la sua avvenenza alpestre non è da meno rispetto a quella dei rinomati monti vicini e la sua parete nord ovest non sfigura in imponenza rispetto alla celeberrima nord dell’Eiger, della quale è solo qualche dozzina di metri meno alta; d’altro canto il Wetterhorn vanta una lunga serie di opere pittoriche che lo ritraggono, come se prima dell’avvento del turismo commerciale, concentratosi sui monti vicini (innanzi tutto grazie alla rinomata Ferrovia della Jungfrau; ma anche il Wetterhorn era risalito da una funivia parecchio spettacolare: l’ho raccontata qui), i viaggiatori che giungevano in zona fossero ben più sensibili alla sua bellezza.

[Il Wetterhorn giganteggia sopra le case di Grindelwald. Foto di W. Bulach, opera propria, CC BY-SA 4.0. Fonte commons.wikimedia.org.]
Peraltro sul versante opposto di Grindelwald, quello della Haslital ove si trova la località di Meiringen (sì, quella che, si dice, ha dato il nome alla meringa), il Wetterhorn in passato era chiamato Hasle Jungfrau, essendo la vetta massima del paesaggio visibile da quella zona così come la Jungfrau vera e propria lo è per il versante dirimpetto, il che ne rimarcava non solo l’importanza morfologica ma anche il forte valore di marcatore referenziale del monte per la geografia locale.

Ma per me che sono un gran appassionato di montagne tanto quanto di toponomastica alpina, il fascino del Wetterhorn nasce anche da questo suo strano nome: il “Corno del tempo”, inteso proprio come tempo meteorologico. Infatti wetter in tedesco significa “tempo” – «Was ist für Wetter?», «Che tempo fa?» – e lo si può usare sia con accezione positiva che per “maltempo” così come per indicare le previsioni meteo. Fatto sta che non sono riuscito a trovare alcuna informazione sull’origine del toponimo Wetterhorn. Perché tale diretto riferimento alla meteorologia nel nome? Forse che la montagna con la sua mole riesce a influenzare le correnti atmosferiche e dunque le condizioni del tempo nella zona? O forse perché anche per il Wetterhorn (come accade per molte altre montagne) la presenza di particolari circostanze meteorologiche, ad esempio la presenza di nubi stazionanti sulla vetta (come nella “cartolina” qui sotto), è sintomo di imminente maltempo?

Non è dato sapersi – almeno per lo scrivente.

[Foto di Xperience, opera propria, pubblico dominio. Fonte commons.wikimedia.org.]
Magari, qualcuno di voi che state leggendo questo mio articolo ne sa di più al riguardo: sarò ben felice di imparare da lui. Fatto sta che per il momento il “mistero” toponomastico del Wetterhorn resta. Ma anche stavolta è un mistero che in fondo accresce ancor di più il fascino del Wetterhorn e ne alimenta la grande valenza geografica e culturale per il territorio che domina e per chiunque abbia la fortuna di ritrovarselo, così scenograficamente maestoso e spettacolare, nello sguardo.