La verità fa male (e un pò fa ridere)

La verità fa male, recita il vecchio adagio. Però il male a volte fa ridere, recito io (che sto diventando vecchio e non adagio!)

Qualche tempo fa ho pubblicato alcune mie considerazioni in merito a una panchina gigante, che era stata appena inaugurata, su una pagina social di promozione turistica del territorio ove è stata installata. Bannato.

In un’altra e diversa circostanza scrissi alcune opinioni su un evento sportivo palesemente insostenibile nel luogo che l’avrebbe ospitato, sulla pagina di uno dei suoi promotori. Bannato anche qui.

Di recente invece mi sono permesso di postare un commento sulla pagina di un esponente politico locale (vedi qui sotto) contestando una sua affermazione sulla genuinità tradizionale di un certo prodotto “tipico” della Valtellina che tutti sanno essere falsa – cosa facilmente rilevabile pure da chi non ne sia a conoscenza – seppur venga regolarmente sostenuta dal marketing di quel prodotto. Commento cancellato (però il politico non mi ha bannato: lo ringrazio per la magnanimità riservatami!) Lo vedete solo grazie al provvidenziale screenshot di un amico.

Be’, di primo acchito non posso che ridere di fronte a questo comportamento così sorprendentemente puerile. Poi, la mia risata da divertita si fa amara: perché evitare il confronto quando palesemente – come sempre è da parte mia – il commento non mira alla denigrazione o allo scontro diretto ma, appunto, al dibattito tra opinioni differenti che risulti costruttivo per entrambe le parti?

Quando si evita il confronto ciò che se ne deduce è che la parte che “fugge” non sia in grado di reggerlo, non abbia argomenti e dati di fatto adeguati a controbattere. D’altro canto, se avessi scritto qualche stupidaggine sono certo che quei miei interlocutori non avrebbero perso l’occasione per denotarmelo e rimarcarlo ai loro followers. Forse che non tutti vengano ritenuti degni di interloquire con i suddetti soggetti?

Insomma, è un peccato, una buona occasione di confronto persa. In democrazia, per giunta, e sui social media, lo spazio contemporaneo democratico per eccellenza. Non proprio una bella cosa, già.

P.S.: non indico qui i riferimenti delle pagine e dei soggetti in questione per evitare ulteriori diatribe, che risulterebbero noiose e non servirebbero a nulla, oltre che per una forma di rispetto nei loro confronti visto che personalmente non ho nulla contro di loro.

Fake DOP

Condivido pienamente quanto scrive Paolo Ciapparelli, del Consorzio Salvaguardia Storico Ribelle – Presidio Slow Food, in occasione del venticinquennale della “DOP” assegnata ai formaggi valtellinesi Bitto e Casera, mettendo in luce tutta l’ambiguità (per usare un termine parecchio eufemistico) di tale titolazione ora “festeggiata” e di quanto c’è veramente dietro la sua immagine pubblica. Tutte cose risapute da tempo, ormai, ma che è sempre utile mantenere in evidenza. Per chi non avesse Facebook può trovare il testo di Ciapparelli qui, in pdf.

Ne approfitto per invocare, da operatore e promotore culturale nei territori di montagna in primis ma non solo lì, una approfondita riflessione, finalmente, sul senso, la sostanza reale e le finalità di tutte queste titolazioni così ambite da molti – DOP, DOC, IGT/IGP, “Patrimoni Unesco”, marchi di protezione e salvaguardia di vari generi con relative normative istituzionali, eccetera – le quali di contro, e non di rado, presentano all’interno del loro ambito di influenza criticità, incongruenze e devianze non indifferenti, a volte piuttosto palesi (come nel caso del Bitto/Casera DOP) e alla fine inficianti il senso stesso di salvaguardia e valorizzazione che quelle titolazioni dovrebbero garantire e promuovere.

Ovviamente non intendo dire che DOP, Unesco e compagnia bella siano cose da demonizzare oppure da disdegnare: al solito non è nello strumento di salvaguardia che sta il problema, ma nel modo in cui viene interpretato, utilizzato e sovente, prima, ottenuto. Anche in questi ambiti a volte l’abito non fa il monaco, insomma, tanto più se è un vestito “firmato”, ma può capitare che il monaco si faccia l’abito e se lo faccia a suo piacimento più che a quello dei suoi discepoli.

In ogni caso, il titolo fondamentale che ogni prodotto, manufatto, territorio, luogo può e deve cercare di conseguire resta quello del consenso più pieno e consapevole del suo fruitore. Con l’assenso inconsapevole dacché indotto e forzato, invece, nessuna cosa andrà mai da nessuna parte, fosse pure all’apparenza la più preziosa che esista: la sua reale natura prima o poi salterà inesorabilmente fuori, già.