Rassegna della Microeditoria di Chiari 2012: Gnari do it better! (di tanti altri)

Gnari, in dialetto bresciano, sta generalmente per “ragazzi”, e in provincia di Brescia è Chiari, sede – come ormai saprete bene – della Rassegna della Microeditoria, della quale sono stato ospite attivo e che domenica sera ha chiuso la propria decima edizione. Un’edizione parecchio carica di timori, in primis per via della grave congiuntura economica in corso che porta gli italiani, già di loro non esattamente propensi a spendere gran cifre per la cultura, a tagliare ancor più il proprio budget dedicato, e poi anche per alcuni eventi letterari svoltisi altrove durante l’anno che non hanno ottenuto il successo che da essi ci si poteva attendere, in termini di vendite ma pure di presenze di pubblico. Il tutto, con sullo sfondo un panorama nazionale del mondo editoriale piuttosto fosco, per la suddetta crisi nonché per certe evidenti storture presenti in esso (oligopoli, cartelli, strategie di mercato che favoriscono alcuni e penalizzano altri, miopie politiche… Insomma, molte delle cose sulle quali spesso scrivo qui sul blog).
Invece, appunto: i gnari bresciani do it better, e pure quest’anno hanno saputo portare a compimento un’edizione della Rassegna senza dubbio rinfrancante. Inserita in una location – la liberty Villa Mazzotti – nella quale è sempre un piacere stare, ben organizzata, ben pubblicizzata (con tanto di manifesti su tutti convogli della metro milanese nelle settimane precedenti, tanto per fare un esempio), assai affollata e soprattutto da gente che acquista, e non solo che si fa il giretto domenicale diverso dal solito. E, vale sempre la pena ricordarlo, a Chiari si acquistano libri di autori sconosciuti o quasi ovvero opere di nicchia, mica i bestsellers da top ten e strombazzamenti mediatici! Dunque, sotto molti aspetti, la vendita di un libro a Chiari vale molto di più di qualsiasi altra ottenuta dalla grande editoria industriale, quella che sta ormai trasformando il libro da autentico oggetto culturale a mera merce da discount. Infatti di nuovo quest’anno come nelle scorse edizioni, e come in altri eventi letterari di simile specie (primo tra tutti Modena, che si contende certo con Chiari la palma di miglior rassegna per l’editoria indipendente), gironzolando tra gli stand degli editori presenti, ho potuto constatare l’altissima qualità letteraria di tanti libri in esposizione e vendita: cosa che difficilmente constato in eventi di maggior portata – quelli dove i grandi editori la fanno da padrone, per intenderci. Segno evidente che, in Italia, è la piccola editoria che sa fare ancora ricerca, sperimentazione, prezioso talent scouting, mantenendo alta la qualità letteraria che invece, per i suddetti editori-oligarchi, è divenuta totalmente secondaria rispetto all’appeal commerciale e dunque al mero guadagno.
Una rassegna rinfrancante, quella di Chiari, che in tal senso lo è da subito per le espressioni degli editori presenti, i quali ieri sera, in prossimità della chiusura, si dichiaravano generalmente soddisfatti di come fossero andate le cose – mentre altrove ho visto spesso facce da ultimo giorno prima della fine del mondo! Certo resta qualcosa da rifinire: la serata del sabato con chiusura alle 22, ad esempio, ovvero in un orario è (a detta degli stessi editori) troppo ristretto per pensare che la gente possa cenare a casa e poi avere ancora abbastanza tempo per uscire, recarsi alla rassegna e visitarla per bene, e troppo ampio per ritenere che i visitatori si possano fermare tra gli stand così a lungo senza avere la possibilità di cenare. Ma, lo ribadisco, la bontà dell’evento rimane assolutamente grande: a Chiari (come a Modena, appunto, e in pochi altri posti) hanno scoperto il segreto per organizzare un ottimo evento dedicato ai libri e, soprattutto, per mantenerlo così ben vivo nel tempo (e in questi tempi grami, poi!). Forse, mi permetto di osservare, a Chiari alla base di tutto rimane ancora una bella passione per i libri e la lettura, dunque una particolare attenzione e azione di stampo culturale autentico, mentre altrove si impiegano logiche meramente imprenditorial-commerciali e/o (peggio) politiche, del fare l’evento per poter poi vantarsi (politicamente, appunto) di averlo fatto ma senza curarsi di come è stato fatto, e di cosa realmente si è offerto al pubblico: una bellissima scatola vuota, a volte.
Lunga vita a Chiari, dunque, e che ugualmente chiari e luminosi restino i sentieri che la Rassegna saprà e vorrà percorrere anche in futuro, sperando che al seguito tanti altri si possano incamminare. Ce n’è veramente bisogno, per vincere la grigia sedentarietà alla quale invece qualcuno vorrebbe ridurre l’editoria italiana…

Dunque, appuntamento a Padova, domenica 14, alla Fiera delle Parole, con “Cercasi la mia ragazza disperatamente”!


Mi raccomando, eh! Se potete, se vi gira, se passate di lì, se non avete null’altro da fare di meglio – ma, mi permetto di denotare, una fiera letteraria ovvero il poter stare in mezzo a così tanti libri, credo sia qualcosa rispetto al quale poche cose possano essere meglio… Insomma: Padova, domenica 14 Ottobre, La Fiera delle Parole presso lo stand di Senso Inverso Edizioni nella sede espositiva del Centro Culturale Altinate San Gaetano! Io ci sarò, e ci saranno Cercasi la mia ragazza disperatamente, l’ultimo mio libro, e La mia ragazza quasi perfetta, il romanzo predecessore. E se ci sarete anche voi, appunto – se avrete voglia di fare un giro, passate a trovarmi!
Cliccate sull’immagine per visitare il sito web ufficiale de La Fiera delle Parole, e avere ogni utile informazione nel merito. Dunque ci vediamo a Padova, ok?

Se la missione del dotto è quella di analfabetizzare…

Diversi anni fa, tra le tantissime mie letture filosofiche, e tra quelle che più mi intrigarono, vi erano le Lezioni sulla missione del dotto di Johann Gottlieb Fichte. Nel loro essere certamente legate al tempo e alla società nella quale Fichte viveva e operava, di fondo esprimevano – ed esprimono – un’idea atemporale, dotata di un valore assoluto ovvero di una validità adattabile a ogni epoca e a ogni società che voglia dirsi avanzata, a mio parere…

Al dotto è affidata una missione: egli, che ha raggiunto il culmine della sapienza, è proprio per questo obbligato, moralmente e responsabilmente, poiché per la sua stessa perfezione culturale possiede maggior coscienza di sé, non solo a diffondere il suo sapere tra gli uomini indotti, ma a presentarsi come esempio vivente di razionalità e moralità per tutti gli uomini. La dottrina e la scienza costituiscono parte essenziale della società, sono esse stesse sociali e quindi il dotto acquista quasi naturalmente il ruolo di educatore degli uomini come magister communis (maestro sociale). (citazione tratta dall’articolo su Wikipedia).


Ora: lì sopra vedete un personaggio assai noto, dotato di una indubitabile sapienza – quanto meno nelle discipline di sua competenza, ma che sottintende una brillantezza intellettuale di sicuro sopra la media – fare qualcosa di assolutamente ridicolo, permettetemi questo giudizio. Un “dotto”, il quale nelle proprie cognizioni accademiche e culturali potrebbe potenzialmente ben rappresentare il soggetto descritto da Fichte, che decide di gettarle (e gettare il personaggio stesso) alle ortiche, persino diffondendo pubblicamente opinioni quanto meno antitetiche a tale sua potenzialità (e non me ne voglia il signor Marra, che non è il soggetto di questa mia disquisizione). Un dotto che diseduca e analfabetizza, in pratica!
Al di là che ciò di cui si assiste nel video può essere considerata cosa banale – e, appunto, peraltro tipica del personaggio protagonista – viene da chiedersi perché, oggi, siamo giunti al punto che certa cultura e molti suoi soggetti, accetti di essere trascinata tra i più biechi e luridi ingranaggi del mercato contemporaneo, costruito e corrotto sul/dal consumismo più sregolato e sfrenato, sul “tutto deve avere un prezzo” (dunque generare un guadagno) e “tutto è oggetto vendibile”.
Visto che il video qui sopra mostra soltanto uno dei più lampanti tra i tantissimi esempi dello stesso genere constatabili, mi chiedo perché la cultura debba avere bisogno di abbassarsi a tanto – più o meno ridicolizzandosi – e di vendersi in questo modo… Ovvero, mi chiedo se anche la cultura, per poter restare in qualche modo davanti agli occhi e all’attenzione del pubblico, sia costretta ad assoggettarsi alle suddette, infime regole del sistema; se effettivamente non riesca più a illuminarsi di luce propria ma i suoi soggetti, quelli che sui media ci dovrebbe andare sì, e spesso, ma per diffonderla, siano costretti invece ad andarci soltanto a fare i buffoni – almeno di fronte al grande pubblico, quello che d’altronde avrebbe maggiormente bisogno della missione del dotto fichtiana.
La mia paura – il terrore, oserei dire! – è che il distorto sistema che, con l’azione dei poteri che lo determinano e dominano, sta mandando alla malora la nostra società, stia per intaccare e degradare in modo sempre più irreversibile anche il mondo della cultura – unico e ultimo argine, forse, alla decadenza generale. E dicendo “la cultura” dico anche il sapere, la conoscenza, l’intelligenza che è sempre sintomo di brio intellettuale, il quale è sempre segno di libertà di pensiero: guarda caso, uno degli elementi più avversati da qualsivoglia sistema di potere a fini dominanti. Da soggetto attivo e il più possibile attento del panorama letterario, devo purtroppo denotare come la personale impressione che quel degradamento, nel mondo della letteratura e dell’editoria, sia già parecchio avanzato, è sempre più forte… Sono sotto gli occhi di tutti certi casi di imposizione bell’e buona di prodotti (termine non casuale!) editoriali palesemente dettati da mere convenienze commerciali, che di letterario e culturale non hanno nulla di nulla, in tal modo contribuendo a diseducare sempre più il pubblico al valore autentico della buona lettura, e a quanto di fruttuoso da essa giunge.
Ripeto ancora: il personaggio preso qui a esempio lampante e grossolano, lo sto usando (tanto, merce per merce!) solo per evidenziare il più possibile un problema che è ben più serio di quel ridicolo video: anche la cultura, per farsi vedere dal grande pubblico, ha bisogno di partecipare al gran teatro delle marionette. Un segno assai grave di quanto sia fondo il barile nel quale la società nostrana sta raschiando, una situazione assolutamente da ribaltare e risolvere al più presto. Se certi soggetti culturali scelgono di fare i guitti in TV, lo facciano pure, ma che il loro ruolo sia quello e stop! La vera e buona cultura è altrove e, io credo, dobbiamo fare di tutto affinché questa evidenza diventi realtà diffusa e accettata.
D’altro canto, l’alternativa è lo sfascio più assoluto, sia chiaro! E se consideriamo che l’Italia, sul suo immenso e prezioso patrimonio culturale, potrebbe vivere e prosperare (economicamente, socialmente, intellettualmente, moralmente… Insomma, in ogni modo!), quando invece ha sempre più le pezze sul sedere – e, aggiungo io, sulla mente

P.S.: sappiate che in questo blog, nel quale pure mi occupo del bello e del brutto della letteratura, credo proprio non troverete alcun articolo dedicato ai libri di Alfonso Luigi Marra. Semplicemente perché non li leggerò, e se anche avevo qualche intenzione di farlo, quel video le ha efficacemente dissolte. Amen.

Quando la bellezza è “sacra”, e fonte di autentica spiritualità

Piccole perle di saggezza spirituale che vengono da lontano – di una spiritualità genuina, autentica, non certo manipolata da ideologie religiose di potere che la utilizzano con criminale ipocrisia per fini antitetici a qualsivoglia sacralità, e ne hanno ormai totalmente inquinato il valore originario… – raccontate da Luigi Zanzi, uno dei più stimati studiosi italiani delle culture di montagna, in occasione di un viaggio nel Bhutan…
Forse, tra quelle alte montagne, si è conservata una umanità che qui, tra i nostri scintillanti “templi” del potere (di qualsiasi sorta), abbiamo ormai smarrito da tempo.

Ho appreso che uno dei criteri principali per tale riconoscimento (di un concetto di sacralità, n.d.s.) è quello della forma del paesaggio: il profilo di uno spigolo roccioso, la figura di una vetta, una linea di cresta, una lingua o una cascata di seracchi di ghiaccio s’impongono come ‘sacri’ per la loro forma. Dove c’è il segno di tale forma, lì non si passa, non si può mettere piede. Là dove non c’è evidenza di una forma pregnante di significato, là si può passare. È, questa, una lezione da apprendere e non c’è miglior scuola del Bhutan per apprenderla. (…)
Un giorno eravamo ai piedi di una mirabile cresta di roccia-ghiaccio nella zona di Chatarake (6500 m); la linea di salita si prospettava rosata nel chiarore dell’alba verso l’altezza di una cima inviolata di circa 6000 m.
Cedendo ad una nostra tentazione istintiva, io e Claudio
(Schranz, guida alpina, n.d.s.) abbiamo cercato di convincere Tenzing (la loro guida locale, n.d.s.) ad una deviazione dal programma concordato per una digressione di uno o due giorni per arrivare a quella cima.
Naturalmente mi rispose con un fermo diniego, a cui io prontamente mi adeguai.
Ma non tralasciai di argomentare: “Se su per quelle rocce salisse uno stambecco non avresti nulla da dire e non lo impediresti; perché lo impedisci a me?”. Non seppe rispondermi subito. Dopo più di un’ora di cammino, mi si avvicinò per dirmi: “Sai perché è giusto non essere saliti là in cima? Perché noi uomini siamo gli unici che abbiamo la facoltà di saper rinunciare a tali tentazioni! È questa la nostra spiritualità!”.
L’argomento mi ha lasciato stupito perché l’ho trovato e lo trovo tuttora straordinario.

Brano tratto da Il paese più verde dell’Himalaya. Viaggio in Bhutan alla scoperta di tradizione e sacralità della montagna, di Luigi Zanzi. La Rivista – Bimestrale del Club Alpino Italiano, Settembre/Ottobre 2011.

Zero-uno-nove.

Zero-uno-nove, ovvero 019.
No, non è un nuovo numero telefonico d’emergenza, come il 118 o il 112. Ma se proprio dovesse essere una combinazione telefonica, sarebbe quella di un reparto di cura in prognosi riservata, o anche peggio.
Perché quelle tre cifre, a dirla tutta, suonano come una condanna numerica, o una prognosi infausta, per utilizzare ancora l’esempio ospedaliero di prima. Sono un veleno, nemmeno di così lento effetto peraltro, iniettato in un organismo per gran parte già parecchio agonizzante, nonostante un aspetto esteriore a volte ancora piacevole. Un veleno per il cui suddetto effetto non occorre aumentare la dose ma diminuirla, anno dopo anno.
In verità devo precisare meglio la questione, perchè, più correttamente, dovrei scrivere quella formula numerica così: 0,19%. Zero-virgola-diciannove-percento. Già, è una percentuale, ma mi sembrava che evidenziare le sole cifre, e in particolare quello 0 davanti, rendesse meglio l’idea, e ancor più il senso della questione, la realtà dei fatti.
La triste realtà dei fatti.
0,19% è la percentuale di risorse sul bilancio dello Stato Italiano attribuite alla cultura nel 2011.
Ovvero: l’Italia, il paese con il più grande patrimonio artistico del pianeta, con ben 47 siti Unesco, con paesaggi e vestigia storiche che attirano quasi 50 milioni di turisti l’anno, destina solo lo 0,19% dei propri investimenti statali alla cultura. E’ come se in un deserto infuocato, a un viaggiatore pur dotato di un’infinità d’acqua disponibile, vengano date da bere soltanto poche gocce alla volta. Il risultato, così agendo, sarà inevitabile: quel viaggiatore forse non morirà di sete in pochi giorni, ma certamente morirà in qualche settimana. E capirete ora che definire una tale realtà soltanto “triste” è l’atteggiamento più ottimista che si possa tenere, considerando anche i successivi e ulteriori tagli che la cultura italiana ha dovuto subire anche nel 2012, e che faranno diminuire ancor più quel già miserrimo 0,19%!
Insomma, siamo alle solite – alla solita tortura comminata all’intero paese, e alla sua società, dalla solita inetta marmaglia politicante al governo, la quale, da qualsiasi segno partitico provenga, ha sempre considerato la cultura una spesa e non un investimento, ovvero ciò che realmente è sotto ogni aspetto: culturale ovviamente e poi economico, politico, industriale, sociale, civile, etico.
La cultura, per la classe politica italiana (soprattutto ma non solo), è un peso, un fastidio, un qualcosa che ci si ritrova tra i piedi e si fa di tutto per scansarla via. Ciò nonostante, nel 2010, il settore abbia creato un valore aggiunto di 70 miliardi di euro: ben più che una manovra finanziaria anche di quelle “lacrime e sangue” che dobbiamo sempre più spesso subire.
Ergo: veramente l’Italia potrebbe vivere, e prosperare, con la sola cultura! E’ una gigantesca ovvietà, questa, della quale tutti gli italiani con un pochino di sale in zucca sono consci, ma che continua a essere pervicacemente ignorata dalla classe politica italiana, la quale beatamente continua a farsi i caz… suoi (scusate la scurrilità, ma ci sta bene in questo discorso, rende bene l’idea e l’indignazione che ne deriva) alla faccia della società civile e del futuro del paese e dei suoi abitanti – i quali probabilmente è bene che non stiano troppo a contatto con la cultura ovvero che restino ignoranti, così da poter essere governati, controllati e abbindolati meglio! Si finanzi piuttosto la TV e i suoi reality e i talk show, oppure i giornali faziosi e cortigiani, oppure ancora il calcio: queste sì, tutte cose utili alla società e all’intelletto dei cittadini! O no?
Ricordatevelo: zero-uno-nove, o 0,19%. Una percentuale che, se non tornerà a crescere, diventerà un ineluttabile epitaffio numerico per l’Italia e la sua sfortunata società.

(Fonte principale per il post: Cultura, come farsi valere?, di Stefano Monti, su Artribune nr.7-Maggio/Giugno 2012, pagg.40/41)