Quelli che potete leggere di seguito sono interessanti (spero!) strascichi elucubrativo-chiacchierosi tra lo scrivente e Paolo Terruzzi susseguenti al post Dalle stelle alle stalle (e ritorno, si spera!). Se oggi lo scrittore in quanto “intellettuale” conta sempre meno, nella società… pubblicato qui sul blog qualche settimana addietro, sul tema della sempre più declinante importanza dell’uomo di cultura, e più specificatamente dello scrittore (ovvero del “letterato”, come si diceva una volta), nell’epoca contemporanea… Perché, insomma, del fatto che in una società così problematica e degradata come la nostra gli intellettuali – quelli veri, naturalmente! – e il loro pensiero vengano messi sempre più al bando piuttosto che essere considerati voci importanti da ascoltare dacché più illuminate di (tante) altre, ci sarebbe da discutere quotidianamente e moooooolto a lungo!
(Ma ovviamente se leggerete prima il post suddetto comprenderete meglio il senso della chiacchierata, alla quale è altrettanto ovvio che chiunque può partecipare e nel caso aggiungere il proprio punto di vista…)
Paolo Terruzzi: “E’ pur vero che il contrasto otium/negotium relativo al ruolo dell’intellettuale in senso lato, che continua da secoli, ha avuto un andamento quasi ciclico nella storia, ma è altrettanto vero che un sistema come il nostro, così relativistico e frammentato, quanto mai strabordante di informazioni e idee condivise o non, tanto ravvicinato che diventa quasi possibile sfiorare l’ubiquità della propria immagine, di così spaventosa e vertiginosa enormità rispetto al singolo, non è mai esistito in tutta la millenaria evoluzione delle società umane. Ciò che intendo dire è che, essendo le direttive della cultura tenute in saldo pugno dai media, e passando ogni cosa, di valore intellettuale alto o meno, innovativa o ripetitiva, banale o straordinaria, proprio dai media; questo “dovere” rischia di diventare un nostalgico richiamo recidivo destinato a fallimento, passando forse sotto silenzio e ripudio, a tempi in cui la società di oggi non si riconosce e che quindi rifiuta (mi riferisco appunto ai tempi in cui l’intellettuale poteva ancora “guidare le masse”). Per spiegare la probabilmente unica, figurandosi tuttavia vagamente utopica tanto quanto maestosa, soluzione al problema, mi permetto di prendere in prestito un’idea di Machiavelli (sì perché che lo si voglia o meno, il buon trattatista fiorentino c’entra sempre), sebbene lui l’avesse contestualizzata a livello politico: in sostanza il principe deve cogliere l’occasione al volo, capire i tempi in cui si ritrova a dover agire, ovviamente in concordanza e armonia con le sue stesse volontà, abilità o virtù, in altre parole è necessario che il principe si doti di plasticità per rendere vittorioso il proprio intento. Ovviamente questo è inteso politicamente, mancando quindi di altri aspetti, ma lo si può benissimo convertire in ambito sociale: prendere una società per le palle, insomma, e, sebbene possa sembrare che le due posizioni da te descritte (quella dell’intellettuale e quella della società direzionata/direzionabile) paiano in stridente antitesi, non si può fare a meno di constatare come la prevalenza (assolutamente giustificabile, perché trattasi della parte attiva fra le due, come una mente e un corpo, mentre l’altra è passiva, come fosse la vittima di droghe mediatiche) della prima, sia invece possibile solo nella misura in cui si sfrutti proprio la mondiale influenza dei media, mantenendo (sempre e comunque) e in questo modo iniettando (come se si sostituisse quelle droghe in medicine) nel sistema, tutti i contenuti, nozioni e quant’altro che l’intellettuale intende far passare, forse riuscendo a ridurre l’ignoranza e l’indifferenza verso le possibilità intellettive e creative della mente, non dico ad elidere l’intrattenimento (anche stupido e cretino, perché no?) e le fughe dalla complessità e dalle riflessioni più profonde, perché per nutrire la mente: “miscere utile dulci”. Non si tratta di un asservimento alle masse e neppure ai mezzi di comunicazione globali, ma di una via efficace per perseguire un perfezionante e nobile obiettivo. Scalzerebbero inoltre, questi intellettuali, i precedenti punti di riferimento (quali certi disumani conduttori televisivi o giornalisti, opinionisti bestie e spocchiosi ecc.), non perché i primi sono modelli da assumere come “ducenti” senza altro motivo oltre al fatto che sono stati imposti (forzatamente o “silenziosamente”, ossia senza che la massa si accorga di essere guidata verso certe idee o convinzioni), ma in quanto porterebbero le persone allo sfruttamento delle proprie possibilità mentali, e parallelamente si raggiungerebbe una certa libertà di pensiero, professata dagli intellettuali stessi, che in questo senso non imporranno determinate convinzioni con la forza, ma forniranno una serie di punti di vista, in qualsiasi campo speculativo, posti allo stesso livello fra loro e passibili di confronto, cosicché starà poi all’ individuo, che poscia diventa collettività, scegliere che cosa condividere o meno (e qui si potrebbe anche discorrere all’ infinito sulla religione e le ideologie). Il vero ostacolo, lo si evince facilmente, è proprio il mettere in pratica un simile proposito, in quanto prima di tutto è imprescindibile riferirsi ai vertici, cioè a coloro che gestiscono il “plagio del tutto”, rischiando di imbattersi in piani che giocano con gli interessi, i vantaggi, i guadagni ecc… Per non parlare poi dell’intrinseca relazione fra canali informativi e popolazione, che si influenzano e degradano vicendevolmente. Non sono certo considerazioni né ottimiste né pessimiste, ma realiste. Mi fermo soltanto precisandomi proprio sulle libertà di pensiero, le quali si può ben dire che siano sempre state tragicamente compromesse dagli estremismi culturali (oserei dire la più grande piaga di tutti i tempi, la base di guerre e conflitti) e poiché questi sempre presenti, essendo uno specchio della più fosca natura umana, il raggiungimento delle quali emancipazioni, di comunicazione ed espressione, resta la più grande utopia di tutti i secoli.
Luca Rota: “Hai ragione, la forza dell’intellettuale è sempre stata, e dovrebbe sempre essere, anche quella di sapersi adattare ai flussi cognitivi del tempo vissuto, ovvero adattare quelli, e la relativa derivante cultura, l’informazione, i media e quant’altro, alla propria missione di erudizione. Certo, come noti bene, ciò significa inevitabilmente – oggi ancora di più – scontrarsi contro il sistema di potere vigente, che non ama certo chi ne sappia più di lui tanto da poter svelare facilmente tutte le sue magagne. D’altro canto c’è forse stata un’eccessiva assuefazione dell’intellettuale a tale sistema, agevolata dal dolce piacere del successo, della fama più o meno grande, del denaro… Insomma: troppo spesso il “dotto” s’è fatto comprare, anche per assicurarsi una certa tranquillità funzionale alla pratica della propria attività culturale/artistica. Ma, come scrivevo l’altro giorno citando Gauguin, “l’arte o è plagio o è rivoluzione”, e il “plagio” lo si può anche intendere come, appunto, assuefazione a un certo modus vivendi e operandi gradito ai poteri dominanti: un plagio delle loro idee, insomma, un utilizzo di esse per conformarvi intorno anche le proprie, in cambio di soldi e celebrità mediatica, come ribadisco. Ecco, bisognerebbe invece riaffermare di nuovo, e con la massima forza, l’impeto rivoluzionario della cultura e delle arti, che da sempre sono il miglior cibo per la mente, e per la libertà di pensiero che è “rivoluzione” in senso assoluto: continuo studio e riflessione sulla realtà, continuo progresso del sapere, continua ricerca della verità, costante rilettura del mondo che abbiamo intorno per poterlo sempre meglio comprendere e, proprio per questo, per poterlo cambiare, per farlo costantemente progredire ove ve ne sia bisogno. D’altro canto l’intellettuale, con la sua attività creativa, è il primo e più grande esempio di “libertà di pensiero”, dunque è il rivoluzionario per eccellenza. Dovrebbe nuovamente e finalmente capirlo, per evitare un oblio proprio nonché delle arti e culture di cui è espressione altrimenti inevitabile, temo, nella “società liquida” (e sempre più liquida) contemporanea.”
Paolo Terruzzi: “Sì, infatti, sono d’accordissimo… poi dipende da quali sono le intenzioni: se si vuole essere artisti bisogna prendere in considerazione questo punto di vista dei punti di vista, perché è quello che ogni grande esempio nella storia ha integrato alla propria attività culturale: ricerca, ricerca continua e innovativa, con il suo positivismo o negativismo, con i suoi slanci irrazionali e le analisi sistematiche e puntigliose, che sappia rendersi conto delle produzioni passate e sappia prenderle con coscienza alimentando ancora la “macchina organica e modellabile” delle culture, la quale si può dire che veramente sia la salvezza dell’umanità, perché non ci lascia mai soli, o almeno allevia un po’ quella solitudine che qualche volta viene a visitarci, ci dice che qualcuno è già passato in una qualsiasi situazione mentale, emotiva, o di altra natura in cui ci si può trovare, ci dice di credere… E’ esattamente lo stesso discorso che si faceva l’altra volta con Giovanni Allevi (sul quale con Paolo Terruzzi condivido la stessa assai negativa opinione – n.d.s.): non artista perché ha “limitato” in tutti i sensi le possibilità espressive, sia adeguandosi alle pubbliche opinioni di corte vedute, sia snobbando gli esempi passati, i quali, basta un po’ di studio e buona volontà, possono essere perfettamente fatti propri, in modo che si noti quanto è stato detto, fatto, prodotto, sentito, pensato ecc. E si possono dire ancora miliardi di cose sulla questione…”