Ci siamo troppo assuefatti al rumore?

Stasera io e Loki saliamo lunga una spalla boscosa per un sentierino dimenticato, forse perché parecchio ribelle, ma che ci fa arrivare rapidamente in una piccola radura che offre un gran panorama verso la pianura. I temporali recenti hanno raffrescato l’aria e lustrato il cielo, la vista si fa ampia e profonda. Tuttavia, nonostante la limpidezza ormai quasi vespertina, qualche ombra ne disturba il godimento pieno… no, non sono nubi, foschie o che altro, ma i rumori della civiltà che giungono dal basso, un indistinto ma costante brusio, il rumore bianco del paesaggio urbanizzato contemporaneo. Risale lungo i monti prossimi al piano come un vento impercettibile a pelle ma udibile e avvertibile nella mente e nell’animo, un Föhn che del “fon” non ha il getto caldo ma ne ha il rumore, distante ma distinto.

Il paesaggio è una dimensione formata da elementi tangibili materiali e immateriali, oltre che da altri intangibili ma altrettanto determinanti – il nostro intelletto che il paesaggio lo elabora, innanzi tutto. Tra gli elementi tangibili ma immateriali il suono è quello principale e più identificante: ogni luogo possiede un proprio peculiare paesaggio sonoro, a volte gradevole e altre meno quando si palesa come vero e proprio rumore. A questo col tempo noi Sapiens iper urbanizzati e tecnologicamente evoluti abbiamo concesso fin troppa assuefazione, temo, perdendo la cognizione del disturbo che arreca alla nostra relazione con il paesaggio. In qualche modo diamo ormai per scontato che il progresso e i vantaggi che ci concede producano rumore, forse a volte lo consideriamo persino qualcosa di positivo, di “vitale” quando invece, mi viene da pensare, un progresso realmente tecnologico e benefico dovrebbe lavorare per limitare i disturbi collaterali (ma nemmeno così tali, in effetti) cagionati.

Di recente, e dopo molti anni che non ci andavo, sono stato a Ponte di Legno, uno degli abitati più belli (al netto di certe solite brutture architettoniche, qui tutto sommato limitate) delle Alpi lombarde, inserito in un territorio di grande bellezza alpestre sorvegliato dai possenti contrafforti settentrionali dell’Adamello, svettanti duemila metri sopra il fondovalle, e ho vagato lungo alcuni itinerari tra la conca dalignese e la Valle delle Messi, che sale verso la sella del Passo di Gavia. Luoghi bellissimi, ribadisco, ma il cui godimento del paesaggio è parecchio rovinato dal rumore del traffico veicolare lungo le frequentatissime direttrici che lo attraversano, la strada del Gavia, appunto e quella del Passo del Tonale. Un rumore di fondo continuo, incessante, con alcuni picchi particolarmente fastidiosi (certe motociclette evidentemente fuggite da un circuito, in particolar modo) che si placa solo verso sera, quando il flusso dei turisti motorizzati si acquieta negli alloggi o ritorna a valle. Un overtourism che genera un “overnoise”, in pratica, un eccesso di rumore in un paesaggio montano il quale invece dovrebbe contraddistinguersi da quelli più urbanizzati per una diminuzione di tali frastuoni da città. Ma al riguardo, certamente, dovremmo essere capaci di percepirli così, di comprenderne il disturbo e di soffrirne il conseguente fastidio. Forse è questo che manca, più che la possibile e necessaria mitigazione del rumore. Forse è più fastidioso o più alienante il silenzio, per alcuni, ormai totalmente assuefatti a questa desolante realtà rumorosa.

Oppure sono io che, vivendo in montagna, risulto troppo sensibile e insofferente al rumore. Come accade ogni volta che mi reco a Milano e, nei primi momenti in cui sono in città, ho l’istinto di tapparmi le orecchie per il fastidio del paesaggio sonoro metropolitano. Traffico tram clacson bus ambulanza vociare scooter musica camion… Fortunatamente, quassù, basta divallare un poco sull’altro versante per fare in modo che la montagna ci protegga dal rumore bianco udibile dove eravamo prima. Concedo a Loki un rinfrescante bagno nel torrente del fondovalle e ce ne torniamo a casa accompagnati dal “rumore” più tipico di questi momenti serali, il frinire dei grilli e delle cicale nei prati, pronti a goderci la quiete della notte che già oscura sempre più il cielo a oriente.

Contro l’«effetto WOW» del turismo in montagna

[Turismo “WOW!” (?) a Braies e a Misurina. Immagini tratte da qui.]
Devo ringraziare molto gli amici Dante Schiavon, membro del Gruppo di Intervento Giuridico (GRiG) e dell’associazione “SEQUS / Sostenibilità Equità Solidarietà”, da anni impegnato nelle questioni legate al consumo di suolo nel suo Veneto e non solo, e Luca Pianesi, direttore de “Il Dolomiti”, uno degli organi di informazione più attenti alla realtà delle montagne italiane, per come stiano contribuendo a tenere alta l’attenzione su certe fenomenologie di natura pseudo-turistica che si registrano di frequente e che si manifestano come espressioni di una certa forma mentis politica la quale appare sempre più alienata e perniciosa rispetto alle realtà territoriali amministrate, in tema di turismo macroscopicamente (ma non soltanto in questo ambito).

Dante Schiavon, nell’articolo L’effetto “WOW” del turismo industriale pubblicato sabato 8 luglio scorso su “Il Diario Online”, cita le mie considerazioni sulla questione del ponte tibetano che si vorrebbe realizzare a Vezza d’Oglio, in Alta Valle Camonica, che a fronte del rappresentare l’ennesima giostra turistica che riduce il territorio alpino ad un mero divertimentificio per turisti ai quali nulla viene riportato della cultura del luogo – anzi, vengono resi protagonisti della sua banalizzazione – è presentato dagli amministratori locali come «un’opera necessaria per creare un effetto WOW che oggi manca al paese». Dichiarazione assolutamente emblematica di quella forma mentis a cui facevo cenno poco fa, dalla quale Schiavon prende spunto per raccontare alcune realtà venete ad essa afferenti e formulare considerazioni al riguardo molto interessanti.

Lo stesso 8 luglio su “Il Dolomiti” il direttore Luca Pianesi in Dalle panchine giganti ai ponti tibetani passando per i mega eventi in quota (come le Olimpiadi): se si insegue l’effetto ”wow” e si trasforma la natura in fattore produttivo riprende l’articolo di Schiavon agganciandone le osservazioni alle mie formulate riguardo la questione del ponte camuno, contestualizzandole in maniera ancora più articolata alla realtà alpina contemporanea e in questo modo denotando l’invasività di certi modelli politico-amministrativi lungo tutta la cerchia alpina italiana – nonché lungo la dorsale appenninica – che utilizzando un concetto di “turismo” obsoleto, degradante, insostenibile, fuori contesto rispetto ai luoghi ai quali viene imposto attraverso formule di marketing che parrebbero già stupide se rivolte a un bambino di prima elementare, generano un sistema di potere economico, con ovvie ricadute elettorali, privo di reali benefici per le comunità residenti e che di contro rischia di distruggere alcuni degli angoli più belli e preziosi della montagna italiana.

Ecco: mantenere alta l’attenzione e articolato il dibattito su questi temi e sulle situazioni conseguenti, nonché la denuncia ferma e articolata nei casi in cui ve ne sia il bisogno, è quanto mai importante. Ciò perché quei politici che attentano in modo tanto sconcertante all’integrità, la cultura, l’identità e la bellezza delle montagne rappresentano una parte sempre più minoritaria – ma purtroppo ancora dotata delle redini del potere amministrativo locale – della realtà delle nostre montagne, anche dal punto di vista turistico: a fronte di un turismo massificato e “ignorante”, ingente ma in costante diminuzione, c’è una parte sempre più ampia di turisti e di frequentatori delle montagne in genere i quali sanno prendere sempre più coscienza delle cose che non vanno, di ciò che è deleterio per le montagne e l’ambiente, di quanto siano da evitare modelli turistici che si vorrebbero ancora imporre nonostante siano palesemente fallimentari. Per tutto questo dibattere con costanza e con intelligenza e consapevolezza su questi temi è importante: perché rappresenta un minimo ma fondamentale atto di scrittura del futuro delle nostre montagne, un futuro diverso da quello preteso da alcuni e ben migliore per le comunità residenti.

Ovviamente potete leggere i due articoli cliccando sulle rispettive immagini.

Vezza d’Oglio e il ponte tibetano: un referendum dove chi ha vinto ha perso

Nel referendum sul ponte tibetano della Val Grande, a Vezza d’Oglio, non è stato raggiunto il quorum: dei 1.577 aventi diritto sono andati a votare in 530, quando per la maggioranza del 50+1% ne servivano 789. Ma è stato un referendum falsato in partenza, a ben vedere: leggo infatti che nel computo dei votanti risultano iscritti anche 300 residenti all’estero, che ovviamente è facile pensare che non si siano mossi solo per partecipare al voto, peraltro in una domenica già vacanziera per molti. Però, dei 530 votanti, ben 496 hanno detto “NO” al ponte. Una risposta insufficiente nei numeri ma assai chiara nel messaggio, considerando poi che è quantitativamente ben maggiore rispetto al numero dei votanti (380) che nelle elezioni comunali del 2019 hanno sostenuto la lista contraria a quella del sindaco in carica, il primo e più acerrimo sostenitore del ponte tibetano («Un’opera necessaria per creare un effetto Wow, che oggi manca al paese», è bene ricordare le sue sconcertanti parole): dunque tra i “no” vi potrebbero ben essere anche numerosi voti di chi stia dalla parte del sindaco ma non sia d’accordo con il suo progetto.

Quella per il ponte tibetano è dunque una “vittoria” meramente burocratica. Lo si farà comunque? Può essere, ma poteva anche essere se avessero vinto ufficialmente i contrari, visto che era ed è nelle facoltà del sindaco. Sulle cui spalle resta dunque tutto il peso della responsabilità di realizzare un’ennesima giostra alpestre per turisti svagati con contorno di megaparcheggi, cemento, asfalto e quant’altro. Ovvero di manifestare platealmente tutto il suo disinteresse verso la bellezza del proprio territorio e la sua valorizzazione autentica, realmente proficua e strutturata in una visione progettuale di sviluppo futuro in grado di sostenere al meglio la comunità residente e al contempo di salvaguardare la bellezza del luogo e l’identità culturale che lo rende unico, e che invece l’ennesimo ponte tibetano rischia di trasformare in un altro non luogo alpino ad uso e consumo turistico – alla faccia dei suoi abitanti.

[La Val Grande con l’omonima malga. Immagine tratta da sentiericamuni.wordpress.com.]
Nota dolentissima finale: leggo pure che l’orrendo ponte, che costerà 2 milioni di Euro (soldi che evidentemente non servono per altre cose, a Vezza), sarà finanziato per 500mila Euro dal comune e per 1,5 milioni di Euro dal Parco Nazionale dello Stelvio. Proprio così: l’ente che dovrebbe tutelare il paesaggio e l’ambiente naturale del proprio territorio, paga per sfregiarlo e degradarlo. L’ennesima vergogna per un “parco nazionale” che è ormai da tempo solo una grottesca parodia di se stesso.