Il turismo dei grandi numeri e delle braccine corte

[Foto di Steven Lek, opera propria, CC BY-SA 4.0, fonte commons.wikimedia.org.]
Leggo (ad esempio qui) che da quando è stato introdotto (lo scorso luglio) un biglietto d’ingresso di 5 Euro al Pantheon di Roma, uno dei monumenti in assoluto più visitati d’Italia, il numero dei visitatori è calato di due terzi (da 750mila a 260mila mensili). Temo di doverne ricavare un’impressione desolata, da questo dato: possibile che il turista medio non voglia spendere 5 Eurocinque, non 20 o 50! – per ammirare uno dei luoghi italiani (se non a livello mondiale) più affascinanti e spettacolari? Per poi magari spenderne molti di più in qualche insulsaggine souveniristica? Per soli 5 Euro il Pantheon da monumento tra i più visitati d’Italia da anni rischia di diventare un’attrazione culturale “secondaria”?

Forse è solo un’impressione sbagliata, certo. Oppure, viceversa, è un’altra dimostrazione dello stato dell’arte riguardo la fruizione culturale diffusa, peraltro ciclicamente rilevata, nelle sue difficoltà dalle indagini Istat e/o di altri istituti – ciò ovviamente al netto che il dato suddetto sia “grossolano” e omnicomprensivo delle tipologie di visitatori. Tuttavia, anche con tali evidenze, mi sarei aspettato un calo meno importante e, appunto, parimenti meno desolante. D’altro canto, che i consumi culturali in Italia in generale siano connotati, come altre cose, da un atteggiamento superficiale e conformista oltre che dall’essere sottoposti ai dettami del turismo di massa è cosa palese da tempo: tale situazione la si coglie anche in montagna, il cui paesaggio è un elemento culturale come ogni altro – anche più, in forza del suo notevole pregio naturalistico e della delicatezza ambientale – ma il suo valore resta trascurato se non ignorato oppure inteso dal turismo massificato in modi superficiali e banalizzanti. E ciò non (sempre) per colpa dei turisti, indotti alla trascuratezza da strategie di marketing che solo a parole “valorizzano” i luoghi ma nei fatti li usano come meri sfondi suggestivi a quanto di più lucroso propongono/impongono tour operator e gestori locali, nonostante – ribadisco – quei luoghi, sulle montagne soprattutto, siano ampiamente identificabili come ambiti pienamente culturali.  Un pubblico turistico per di più spesso carente degli strumenti culturali necessari a comprendere e apprezzare adeguatamente quanto ha intorno e a manifestarvi una consona sensibilità – ma sui motivi di questa carenza ci si potrebbe dissertare sopra per giorni interi.

Tutto ciò, al netto del dibattito su che sia giusto pagare o meno l’accesso ai beni di proprietà del demanio dello Stato, come è il Pantheon, la cui gestione e manutenzione sarebbe già pagata dai cittadini con le tasse pagate. Dibattito per il quale ogni posizione è legittima tanto quanto, credo, effimera.

 

La cultura deve essere gratuita o a pagamento? Col “caso Pantheon” si riapre la diatriba

La recente decisione del MiBACT di attivare l’ingresso a pagamento (con biglietto di 2 Euro) al Pantheon, uno dei beni artistico-culturali più visitati di Roma, riapre la vecchia e mai risolta questione alla base della fruizione turistica dei luoghi d’arte e cultura. Da un lato, la tesi per la quale la cultura, essendo un elemento dal valore universale, fondamentale e irrinunciabile per qualsiasi società civile (per di più quando il suo patrimonio sia composto di beni di proprietà statale), non può essere sottoposta al pagamento di un biglietto; dall’altro la posizione per la quale proprio perché la cultura è di tutti e va a vantaggio di tutti, chiunque debba partecipare concretamente alla sua salvaguardia (oltre al gettito fiscale ordinario, dunque), soprattutto in presenza di beni che la loro vetustà, oltre all’importanza storico-artistica, rende particolarmente delicati.

È una questione che, credo, difficilmente potrà trovare soluzione, anche a fronte di esperienze estere di natura opposta ed effetti molteplici, non di rado discordanti. Difficile anche stabilire una sorta di graduatoria “istituzionale” di monumenti più bisognosi di altri d’un sostentamento pubblico volontario, tramite biglietto d’ingresso, alla loro tutela: i contrasti tra i vari gestori si scatenerebbero rapidamente. D’altronde, l’imposizione generale dell’accesso a pagamento a tutti i luoghi artistici e culturali di proprietà del demanio potrebbe dare l’impressione d’una nuova tassa statale sull’arte e la cultura – senza contare poi le ulteriori polemiche (lo sapete, l’Italia è il paese della polemica quale sport nazionale, oltre ai soliti altri) che infurierebbero riguardo l’uso di tali introiti.

Dunque, che fare? Be’, considerando la cronica arretratezza italica in tema di finanziamenti privati alla cultura, ovvero di partnership finanziarie tra pubblico e privato a supporto delle attività delle istituzioni culturali, viene da ritenere che quello messo in atto per il Pantheon possa rappresentare non il migliore sistema ma uno dei rari praticabili, a patto di mantenerne l’entità a carico dei visitatori sui livelli attuali, la cui equità è garantita proprio anche dall’ammontare “popolare” dell’importo richiesto. Non un biglietto d’ingresso, ma una volontaria compartecipazione alla salvaguardia della grande bellezza del luogo in questione (qualsiasi esso sia) e del suo valore artistico-culturale, soprattutto a fronte di un’eventuale malaugurata mancanza di fondi che in un futuro ipotetico (si spera) possa invece mettere in pericolo quel valore e la sua salvaguardia.

Tutto ciò, d’altro canto, non può e non deve esimere lo stato italiano dal mettere finalmente in atto tutti gli strumenti giuridico-fiscali al fine di assicurare al grande patrimonio culturale nazionale il più ampio e condiviso sostegno, economico e non solo. Perché una cosa è assolutamente indiscutibile: quel patrimonio è nostro, è di tutti noi, e dunque tutti dobbiamo esserne consapevoli sia in senso immateriale che materiale, ed essere coscienti che un suo eventuale degrado porterebbe a un danno generale – economico, culturale, identitario, d’immagine, eccetera – che mai nessun gettito fiscale posteriore, pur accresciuto all’uopo, potrebbe alleviare. Meglio dunque prevenire da subito, con poco e ben speso – nelle modalità migliori che si potranno/dovranno determinare e il meno direttamente imputate ai singoli cittadini – che ritrovarsi a dover mettere in atto pure qui le solite emergenze all’italiana con caotici stanziamenti di denaro pubblico sostanzialmente privi di controllo. Stanziamenti di cui peraltro in generale, ovvero al di là di possibili “emergenze”, già il comparto culturale nazionale ben poco ha usufruito negli ultimi tempi: lo sapete bene che l’Italia non ama affatto spendere soldi nella cultura, preferendo altre cose ben più “politiche” tanto quanto ben meno utili al paese e alla società civile, ovvero senza capire ancora che i soldi affidati alla cultura non sono una “spesa” ma un investimento – forse il più importante e fruttuoso che uno stato possa fare. Sarebbe bello, insomma, che tale verità essenziale stavolta la capisse la gente comune: il vero (e unico) “stato”, in fondo. Il resto sono quasi sempre chiacchiere e polemiche, come sempre.

P.S.: articolo pubblicato su Cultora, qui.