In questo “non inverno” appena concluso, così tremendamente avaro di neve e di gelo, io e Loki, il mio segretario personale a forma di cane, ci siamo dedicati alla ricerca di testi scritti sul territorio. Sì, sul territorio, scovati tra la terra, i sassi, l’erba ingiallita dalla siccità, i rovi che avanzano ove più nessuno o quasi transita. Ecco dunque che io e Loki, per l’occasione insignito anche della mansione di pathfinder (che sarebbe “cercatore di sentieri” ma scritto all’inglese fa più figo, e d’altro canto Loki è anglosassone d’origine), siamo andati sui monti intorno a casa a caccia di vecchie vie rurali, di sentieri un tempo fondamentali per i territori in cui si dipanano e oggi dimenticati o quasi oppure frequentati ma senza la sensibilità di capirne la storia, di antiche mulattiere quasi scomparse sotto il terriccio e tra la vegetazione che d’improvviso, per certi brevi tratti, a volte solo per qualche metro, tornano visibili nelle loro fattezze originali, in alcuni casi incredibilmente ben conservate, in altri ormai diroccate ma che con un attimo di attenzione sanno ancora svelare la loro primigenia struttura.
I segni umani lasciati sul terreno nel corso dei secoli, siano essi forme strutturate e evidenti di territorializzazione, come edifici e opere di governo del territorio, ma pure minime tracce consunte dal tempo e spesso sprofondanti sotto la superficie come antichi sentieri e vie selciate, lentamente ma inesorabilmente svanenti e per questo così affascinanti da ricercare e “scoprire”, si possono interpretare – ma vorrei scrivere si devono interpretare – anche come i segni di un codice alfabetico inscritto dall’uomo sulla superficie dei luoghi in chi ha vissuto e con i quali ha interagito, la scrittura di una narrazione geostorica che sa raccontare molto della relazione tra uomini e luoghi, a patto di saperla percepire e poi, per quanto possibile, leggere. È una scrittura che non è fatta da tante singole lettere ma da un tratto continuo che si sviluppa lungo la pagina di un libro la cui decifrazione si genera dalla lettura contestualizzata alla pagina stessa, cioè al territorio e ai luoghi presso i quali viene letta. Come per ogni pratica di scrittura sviluppatasi nel tempo, la pagina del libro può presentare un unico tratto ben definito oppure diversi tratti, cancellazioni, sovrascritture a volte ancora visibili e a volte non più. Inoltre, le pagine sono tante quanti sono gli spazi abitati, vissuti e modificati dall’uomo in quel dato territorio: può scaturire la lettura di un’unica e consequenziale narrazione, pagina dopo pagina, mentre in alcuni casi la lettura genera un racconto differente da una pagina all’altra, come fossero tante storie di un unico libro ma con soggetti diversi, determinati dalle pagine stesse, appunto.
Insomma, lo avrete capito: il territorio è un libro aperto sul quale l’uomo ha scritto e impresso nel corso dei secoli innumerevoli storie usando i tratti che il territorio stesso gli ha consentito di scrivere, con cui ha espresso la sua presenza in quei luoghi, la sua quotidianità, i suoi bisogni, le necessità, l’intraprendenza, a volte le sue paure, in certi casi le sue utopie. Le narrazioni che ne scaturiscono sono interpretabili, a loro volta, come un’altra manifestazione del paesaggio di quei luoghi: infatti ogni libro scritto ha bisogno del saper leggere per palesare e conseguire il proprio valore culturale, il che è proprio ciò che accade con il paesaggio, manifestazione mediata degli elementi materiali percepibili nel territorio e degli elementi immateriali ovvero culturali di chi li percepisce. Per questo mi viene da pensare al paesaggio, anche, come una sorta di biblioteca potenzialmente dotata di tanti volumi quante sono le interpretazioni culturali del territorio relativo ma che tuttavia abbisogna di lettori attenti o, per meglio dire, di chi sia capace di leggere quei libri, per acquisire il valore e la considerazione che gli spetta. Un valore e una considerazione che risultano fondamentali per la salvaguardia di quei luoghi, per la comprensione della loro storia, delle peculiarità, della bellezza, della cultura aulica o popolare che conservano ma che risulta parimenti importante per noi, che quel paesaggio concepiamo, abitiamo, viviamo, riconosciamo e con il quale ci identifichiamo. Se si cancellassero per sempre, quelle scritte impresse sul territorio, sarebbe come se perdessimo il diario degli ultimi secoli della nostra storia, ovvero una parte importante della nostra memoria. Perderemmo un po’ noi stessi, insomma, avendo peraltro ben scarse possibilità di ritrovarci.
Molto bello Luca. Anche io nel mio piccolo e con il poco tempo a disposizione sfrutto spesso le stagioni intermedie per esplorare l’appennino anche a quote basse per riscroprire vecchi sentieri e strade che un tempo erano l’ossatura delle comunità montane.
Per fare questo ahimè servono alcune cose che sempre più spesso si rifuggano: tempo, fatica, poca visibilità.
Vero. Ma se si riesce a praticare questa esplorazione, è veramente come vagare non solo nello spazio ma pure nel tempo. Una cosa assolutamente affascinante.