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Le piste da sci, anche quest’inverno
A novembre non volevo fare l’uccello del malaugurio e dunque non ne parlavo pubblicamente ma tra me pensavo, un po’ sarcasticamente e un po’ tristemente (comunque senza facile ironia, che non è proprio il caso): l’anno scorso, con impianti e piste chiuse causa Covid, in montagna c’era un sacco di neve; sta a vedere che quest’anno, con impianti e piste aperti, di neve ne verrà pochissima.
Ecco. Detto e fatto, o meglio, pensato e accaduto. Ma non sono certo Nostradamus, ci mancherebbe!

Riflettendo su ciò, mi è tornata in mente un’intervista del sempre ottimo Enrico Camanni su “La Repubblica” dell’anno scorso (14 gennaio 2021, per la precisione), nella quale tra le altre cose metteva in luce alcuni dei punti nodali della realtà oggettiva del turismo sciistico contemporaneo: vi ripropongo di seguito quei passaggi, nel mentre che, a quanto pare, l’industria dello sci sembra permanere nel suo stato di miopia, se non proprio di cecità, rispetto al tempo che stiamo vivendo (e non solo in senso climatico):
Non ha più senso l’equazione semplicistica sci-montagna, pensiero superato dalla realtà. Se la montagna viene vista soltanto come un oggetto di consumo quando la vetrina si svuota sembra che intorno non ci sia più nulla. Non sono un velleitario, ma trovare uno scenario equilibrato nella contemporaneità è possibile. Ci può essere moltissimo: la neve, intendo quella vera, il silenzio, la natura, il distanziamento. La fine delle giornate da bruciare in fretta e poi via in città, delle code in auto di ore, di un paesaggio che ci trasciniamo dietro dagli anni Ottanta. […] Ha ragione Michele Serra quando scrive sul vostro giornale che è autolesionista sostenere che se le piste di sci rimangono chiuse significa in automatico la distruzione dell’economia alpina. La verità è che ci ha investiti una tempesta e nulla potrà ricominciare come prima. Le crisi mondiali come quella causata dalla pandemia non sono maledizioni scagliate in terra da una divinità crudele, ma detonatori che hanno fatto esplodere ciò che già prima non funzionava o già stava faticando. I sistemi fragili a un certo punto si frantumano. Utilizzando la metafora del re nudo, la crisi è quel colpo di vento che gli strappa di dosso l’ultima veste.
Qualcuno ha visto l’inverno?
Oggi, qui da me, c’è un inquietante sentore di primavera.
“Inquietante” perché oggi è il 17 gennaio, saremmo nel bel mezzo dell’inverno che invece si è manifestato, nel senso climatico più proprio, solo per qualche giorno all’inizio di dicembre, cioè quando era ancora autunno. Alla primavera mancherebbero ancora più di due mesi – all’inizio astronomico della stagione, a quello meteorologico un mese e mezzo circa – ma, appunto, oggi nell’aria c’è quell’inopinato tepore (anche se la temperatura è comunque bassa), quella corposità immateriale ma percepibile, quella luce che già pare più briosa dell’ordinario, c’è quel nonsoché di vagamente epifanico che ti fa pensare in modi più o meno determinati alla primavera. Come se quel noto motteggio, «non ci sono più le mezze stagioni», fosse ormai da considerare superato per come ora siano proprio le stagioni, apparentemente, a non esserci più, ovvero a essersi scambiate di posto, camuffate in altre, trasferitesi altrove su e giù per il calendario.
Di contro so bene che l’inverno, quello propriamente detto, ritornerà; magari tra qualche giorno commenteremo i metri di neve caduti o le temperature basse da record. Certo è che una gran nevicata in stagione avanzata genera effetti ben diversi, per molti aspetti, di una novembrina o dicembrina, provocando inevitabili adattamenti dei cicli biologici che nel tempo influiranno su ogni altro elemento ambientale, oltre che sulla visione e sulla percezione del paesaggio da parte nostra. È un fenomeno che già la scienza sta registrando: lo racconta bene questo articolo tratto da “3bmeteo.com”, ad esempio, nel quale si evidenzia il fatto che, in forza della circolazione atmosferica modificata anche per cause antropiche, la stagione invernale ha subito uno spostamento temporale in avanti di oltre un mese, certificando il cambiamento in corso del clima non solo in senso termometrico ma pure in quello cronologico, chissà fino a quando e con quali ulteriori conseguenze.
Nel frattempo, tra montagne spoglie di neve fino alle alte quote (nell’immagine è la Grigna Settentrionale o Grignone, alta 2410 m, il cui versante orientale sarebbe una delle zone più nevose – e a maggior rischio di valanghe, guarda caso – della Lombardia), clima più mite a 3000 m che in pianura, stazioni sciistiche che non hanno ancora cominciato la stagione e fioriture primaverili che si manifestano ora (in Puglia sbocciano già le mimose – quelle dell’8 marzo, già) con già cospicua presenza di pollini nell’aria, mi viene da chiedere se, come il Covid per l’organismo umano, anche la situazione climatica attuale non sia da considerare una sorta di pandemia per l’organismo che dà vita a tutti noi, la Terra. Ma con una sostanziale differenza: per il Covid un vaccino più o meno efficace l’abbiamo già trovato così come in passato ne abbiamo trovati per similari pandemie; per il clima al momento abbiamo solo rimedi “simil-omeopatici” per così dire e, di questo passo, forse un vaccino efficace da “inoculare” al pianeta ma necessario a salvare noi che lo abitiamo, e che del virus relativo siamo “portatori” (non sempre sani), non faremo in tempo a trovarlo.