
Tanto era l’orgoglio per il loro simbolo cittadino, svettante di gran lunga sopra ogni altro edificio, che gli abitanti della città lo consideravano ormai il tempo campione assoluto, nel quale porre la massima fiducia e sul quale organizzare le proprie attività quotidiane, professionali o di svago. C’erano addirittura quelli che avevano perso l’abitudine di portare orologi da polso: la grande torre si poteva osservare nitidamente da qualsiasi punto della città, e quindi chiunque sapeva in ogni momento l’ora esatta, condivisa da tutti.
Così, su quel rinomato metro temporale, passarono gli anni, la città tornò completamente alla vita, obliando la tragedia di una guerra della quale, dopo sessant’anni, pochissimi ormai conservavano il ricordo. I due fratelli, ormai ottantenni, decisero di riunirsi, quello emigrato all’estero annunciò il suo ritorno per rivedere la propria città natia, e per lettera stabilirono di ritrovarsi sotto il celeberrimo simbolo cittadino, la grande Torre dell’Orologio, che aveva scandito il tempo della separazione, lo scorrere degli anni e ora il momento del ricongiungimento. Puntuale, il fratello emigrato giunse sotto la torre in un radioso sabato mattina, cercando di riconoscere tra la folla della piazza il proprio parente; lì vi rimase quasi sei lunghe ore finché, angosciato e sgomento, se ne andò, chiedendosi perché il fratello non si fosse presentato, cosa fosse successo. Questi, invece, arrivò solo qualche momento dopo, cioè dopo sei ore e cinque minuti, ovvero circa 21.900 secondi: in fondo solo un misero secondo al giorno, per sessant’anni.
(P.S.: è un racconto, questo, al momento ancora inedito come la raccolta di cui è parte, composta di testi moooooolto particolari. Forse sarà pubblicata, prima o poi. Voi seguite il blog oppure il sito e può essere che tra un po’ ne saprete di più, al riguardo.)


