Scrivere per non sparire nel nulla, scrivere per non apparire del tutto

Selina Trepp, "Appear to Disappear", installazione, 2009 (http://selinatrepp.info/home.html)
Selina Trepp, “Appear to Disappear”, installazione, 2009 (http://selinatrepp.info/home.html)

Mi si nota di più se vengo e sto in disparte o se non vengo per niente?
Chiunque scriva in maniera sistematica si sarà sentito rivolgere, prima o poi, la solita domanda: «Ma tu perché scrivi?» Domanda inesorabilmente retorica che, in quanto tale, finisce per “chiamare” spesso risposte altrettanto retoriche se non – mi sia consentito di affermare ciò – piuttosto insincere, le quali, in ogni caso, non sfuggono da una ugualmente inesorabile e peraltro umanissima realtà: si scrive per farsi notare. Ammettiamolo, suvvia! Perché, ribadisco, è cosa elementare e inevitabilmente umana, questa; quale sia il senso e il fine di questo farsi notare è un altro discorso, poi, sovente di natura abbastanza meschina ma, sia quel che sia, non mi interessa qui di disquisirne.
Tornando invece a quella domanda solita e al mero perché della scrittura, una risposta finalmente diversa da infinite altre la fornisce – seppur indirettamente, ovvero in un articolo che parla di produzione artistica contemporanea uscito sul nr.31 di ArtribuneJussin Franchina, generandola da quella nota citazione di Nanni Moretti (tratta da Ecce bombo) che anch’io ho messo in testa a questo articolo. Così scrive Franchina – e, ribadisco, prendete il termine “artista” in senso ampio, comprendendo dunque pure l’autore di testi letterari (e la letteratura è una forma d’arte, eh, quantunque, sia sempre più arduo considerarla tale!):

“In ogni artista c’è un conto in sospeso con la scomparsa. Alla paura di sparire nel nulla, l’artista reagisce con un gesto artistico che riaffermi la sua presenza. E, però, al tempo stesso quel gesto è il nascondiglio perfetto per non venire allo scoperto del tutto. L’artista si palesa così, in controluce, andando a scomparire in un posto in cui lo si possa in altro modo vedere. Ogni artista è l’inchiostro simpatico sull’opera che costruisce.”

Ha ragione, assolutamente. A mia volta ho sempre pensato che chiunque decida di comunicare pubblicamente qualcosa attraverso qualsiasi forma espressiva creativa – dunque lo scrittore, l’artista visivo, il cineasta, il musicista eccetera – abbia il dovere fondamentale (che è anche diritto, sia chiaro, ma lo è se in primis è “dovere” in modo pieno e giustificato) di lasciare una traccia della propria espressività. L’artista che comunica ma non lascia tracce della sua comunicazione si autocondanna al nulla ben più – nel principio – che l’individuo ordinario che non fa niente di tutto ciò e vive nell’anonimato più totale. Attenzione: con “traccia” non intendo semplicemente la prova concreta del proprio lavoro, ma il senso di esso, il messaggio, la comunicazione vera e propria, appunto. È in effetti una necessità inderogabile, questa, per chi come l’artista abbia scelto di comunicare qualcosa piuttosto di produrre qualcosa come invece fa chi opera nella manifattura: se non vi è comunicazione (e, ovvio, relativa trasmissione/ricezione di quanto comunicato) non vi è presenza, e velocemente pure il media comunicante – il libro, il lavoro artistico, il brano musicale e così via – evapora e svanisce nello stesso nulla.
Jussin Franchina, inoltre, con un ulteriore passo nella sua breve ma intensa riflessione, tocca il secondo e conseguente punto nodale della produzione artistica: l’autobiograficità della comunicazione espressiva pubblicamente trasmessa. Questione molto sentita, in tal caso, nella letteratura più che nell’arte visiva, nella quale in ogni caso è più facile per l’artista mascherarsi dietro la sua opera – a meno che non si tratti dichiaratamente di autoritrattismo, in qualsiasi forma esso sia. Scrivendo, è sempre assai arduo non palesarsi personalmente, poco o tanto, nel testo scritto. Tuttavia, come dice Franchina, lo scrittore di pregio sa costruire narrazioni nelle quali calarsi, direttamente o meno, in modo occulto, essendo presente ma senza essere visibile ovvero essendolo ma in modo alquanto velato se non soggetto a una mutazione di qualche genere che alteri la sua più ordinaria visibilità.
D’altro canto questa ipotesi riguardo la scrittura come necessaria reazione all’altrimenti inevitabile scomparsa pone sulle spalle dell’autore una responsabilità enorme e pesantissima: egli deve (ri)affermare la propria presenza nel modo (per sé stesso) più virtuoso e originale possibile, perché altrimenti il rischio è quello di palesarsi con modalità meschine (vedi sopra), disdicevoli e degradanti. In un modo, insomma, pure peggiore rispetto al mero nulla della scomparsa, la quale non garantisce di restare visibili ma nemmeno di esserlo mostrandosi ricoperti di fango che da soli ci si è scagliati addosso per la inaccettabile qualità dei propri scritti – perché, lo avrete intuito, è da qui che può principalmente prodursi il più degradante fango per uno scrittore (a prescindere poi dal consenso commerciale, anche in tal caso questione “altra” che non interessa ora qui a noi).
C’è di più: la suddetta grande responsabilità posta sulle spalle dello scrittore riguardo cosa (e pure come, ovviamente) si scrive concerne anche il dovere di capire se è in grado di affermare la propria presenza, ovvero di comprendere che quel dovere poco sopra citato è tale – e così può anche diventare diritto – quando non sia indiscutibilmente dovuto, automatico: in ogni aspetto della vita si ha il dovere di fare qualcosa se si è in grado di farlo, altrimenti no, facilmente si genera solo danno. Dunque, si ha il diritto di affermare la propria presenza solo se ci si riconosce il dovere di saperla giustificare nel modo più ampio e alto possibile.
Si ritorna, insomma, a quella che a mio modo di vedere è per la scrittura la madre di tutte le questioni – oggi ancor più che nel passato: lo scrivere (ovvero, intendo dire, il diffondere pubblicamente ciò che si è scritto più che l’esercizio espressivo in sé, che naturalmente è libero e individuale) quando si ha qualcosa da esprimere, da comunicare, da trasmettere. Altrimenti, si produce soltanto autocompiacente vuoto, giustificando l’impressione per la quale molti scrivano soltanto per mettersi in mostra, incuranti persino della bontà di quanto scritto – cosa diffusa a tutti i livelli della produzione letteraria contemporanea: non solo tra i debuttanti, insomma, ma pure tra i presunti grandi e celebrati scrittori. Perché, riprendendo quella iniziale battuta di Nanni Moretti, a volte ci si fa notare di più se non si è presenti, e d’altro canto ci si può pure far notare, ma in senso negativo, a essere presenti mettendosi da sé in disparte, ovvero al di fuori di quanto si possa invece notare positivamente!

P.S.: articolo pubblicato anche su Cultora, qui.

Scrivere tanto o scrivere poco, per scrivere bene? La ricerca (e la riflessione) continua, anche al di fuori del mondo letterario…

Qualche post fa, qui sul blog (e qui pure), ho iniziato – con me stesso e con alcuni altri colleghi di “penna” e di blogging – una riflessione su come si possa conseguire, in senso pratico, la miglior qualità letteraria personale: se scrivendo il più possibile, per fare in modo di non porre limite alcuno alla creatività e di conseguenza estrarre da essa il maggior numero di potenziali buone idee e da queste la grande opera, oppure se scrivendo il meno possibile, concentrando tutti gli sforzi su un solo buon spunto e continuamente rivederlo, migliorandolo e affinandolo così da ottenere alla fine la stessa grande opera – l’identico evidente fine ma conseguito in due modi – considerabili come gli estremi entro i quali si definisce la pratica di creazione letteraria – totalmente differenti. In poche parole: scrivere tanto o scrivere poco, per scrivere bene?
Nella costante ricerca di una buona risposta alla suddetta domanda, o anche solo per cercare di capirci qualcosa in più – perché certo, una risposta di valore assoluto non esiste, non può esistere dacché ognuno, banalmente, scrive come meglio crede e ritiene per ottenere il proprio meglio, ma è anche per questo che a me piace molto sapere cosa fanno gli altri scrittori al proposito – mi guardo di continuo intorno e cerco anche al di fuori del mondo letterario validi spunti di riflessione quando non potenziali buone risposte adattabili anche al contesto della scrittura.
Eccone ad esempio una molto interessante che viene dal grande gallerista Tucci Russo, tucci_russo_photodunque dal mondo dell’arte, che riguardo a quanto debba produrre un artista per creare buona arte, così si è espresso (e sostituite la parola “artista” con “scrittore” e vedrete come tale dichiarazione risulti perfettamente consona anche al contesto letterario, appunto):

L’artista non può essere una fabbrica, anche perché sennò snatura il proprio lavoro: nella misura in cui comincia a entrare in uno stadio produttivo molto ampio, non pensa più al concetto dell’opera, ma pensa alla capacità che ha lui di realizzare l’opera, per cui questa – poco per volta – si svilisce, assume sempre più connotati decorativi e meno intensi, di ripetitività e accademia. Per questo dico sempre che gli artisti devono avere momenti di pausa, non devono rincorrere il potere che il mercato vuole mettergli nelle mani. Quando qualche cosa funziona troppo, e il mercato lo pretende e lo vuole, devono avere la capacità di non produrlo più.
(Tucci Russo intervistato da Marco Enrico Giacomelli in Dal Mulino alla Stamperia. La storia di Tucci Russo, Artribune anno III #11, Gennaio/Febbraio 2013)

Prendersi delle pause, dunque. Magari anche forzatamente, mettendo da parte la presunzione di poter sempre scrivere bene, che sia tanto o poco, costringendosi a fermarsi per un po’ e a meditare. Sembra facile e banale, ma non lo è affatto – e chi scrive credo comprenderà bene ciò. La pausa, per lo scrittore, assomiglia sempre troppo alla crisi di creatività (il terrore che lo sia la rende tale anche quando non lo è affatto, e in modo lapalissiano), per cui si tende sempre a fuggirla come fosse la peste, continuando a scrivere cose magari di scarso valore o intestardendosi su idee di analogo basso pregio ma che si vuole tentare a tutti i costi di rendere buone, pur magari essendo consapevoli, dentro di sé, che non porteranno da nessuna parte. Ma Tucci Russo ha forse ragione: se a volte fermarsi per un po’, sospendere la propria produzione, obbligarsi a una pausa, potesse servire a rimettere ordine nella mente e nello spirito (letterario) per poi ripartire alleggeriti da incrostazioni e zavorre varie e, per questo, potendo scrivere meglio di prima?
Beh, non so che ne dite voi… Io ci rifletto sopra e continuo la mia ricerca. Potrebbe anche essere che, a quella domanda sopra esposta, non esista una risposta assoluta e nemmeno una risposta univoca, ma che una buona soluzione sia data dalla somma di tanti elementi diversi, tanti frammenti di pratiche differenti (come quella indicata da Tucci Russo) che, appunto sommate, possano aiutare a elevare sempre di più la qualità della propria scrittura… La quale poi resta, in fin dei conti, la vera e fondamentale “domanda” ovvero scopo a cui chiunque scriva – e qualsiasi cosa scriva – deve dare risposta e realizzazione, no?

Una domanda a tutti gli autori letterari che leggono questo post – ma non solo…

Vorrei sottoporre una domanda a tutti gli autori di letteratura (in qualsiasi forma) che leggono le mie cose qui nel blog o che si trovano a passare da esso occasionalmente / incidentalmente, e pure a chi è lettore frequente – ma è in fondo una domanda aperta a chiunque voglia rispondervi…:

ritenete che la personale miglior qualità letteraria (in senso generale) sia raggiungibile scrivendo il più possibile – per non porre freno alcuno alla creatività – oppure scrivendo il meno possibile – per raffinare e rifinire al massimo quanto scritto?

La domanda in sé è banale e profonda – se così si può dire – allo stesso tempo. Tratteggia quelli che, sostanzialmente, sono i limiti “pratici” entro i quali si muove l’autore letterario, e che a modo loro Snoopy_writerrappresentano, con ovvie varianti, due “scuole di pensiero” sulle quali mi sono trovato spesso a disquisire con amici autori (del campo letterario in primis ma anche altrove: nell’ambito artistico, ad esempio…), di valore e accezione equivalenti (dacché prettamente legati al modus operandi personale) ma su cui, nonostante tutto, mi sono sempre trovato a riflettere, chiedendomi se tutto sommato non ve ne sia una che possa essere più “redditizia” (termine improprio, ma che uso qui per mera comodità e chiarezza) dell’altra…
Che ne pensate? In base alle vostre esperienze personali (che tali sono e restano comunque, senza alcuna pretesa di assolutezza, ovvio), ritenete che si possa, se non rispondere, dissertare su quella domanda? A quale delle due “scuole di pensiero” voi appartenete?
Potete rispondere commentando questo post oppure, se preferite, a luca@lucarota.it
Per la cronaca, io in principio appartenevo senza dubbio alla scuola “alta produzione”, ma poi col tempo ho preso a traslare sempre di più verso la parte opposta…
Grazie di cuore fin d’ora per i contributi che vorrete manifestarmi!