Divina Provvidenza (Un racconto inedito)

P.S. (Pre Scriptum!): il seguente è un racconto al momento ancora inedito che tuttavia farà presto parte di una raccolta mooooolto particolare (a cominciare dalla brevità dei testi contenuti, come noterete), di prossima pubblicazione editoriale. Seguite il blog e/o il sito e a breve potrete saperne di più…

WC-god(Prima pagina, quotidiano di oggi: “ALLUVIONI, LA REGIONE ORMAI IN GINOCCHIO. Fenomeno imprevedibile per gli esperti. Danni ingentissimi.”)

Dio si affrettò ad andare verso la porta d’ingresso, richiamato dal possente campanello.
“Oooh, finalmente, caro San Itario, finalmente!”
“Lodi e gloria, Capo. Immagino che debba andare sempre di qua, vero?”
“Sì, certo, da questa parte… Ha cominciato a perdere un paio di giorni fa ma era solo una goccia ogni tanto, non pensavo proprio che il danno s’aggravasse in questo modo!”
Nel grande bagno totalmente rivestito da piastrelle immacolate e limpide come il cielo più terso stazionava quasi una spanna di acqua non esattamente limpida. Lo sguardo esperto di San Itario vagò rapidamente per il locale e attorno alla parete contro la quale vi era addossato il wc, poi egli prese ad annuire con rapidi cenni del capo. In effetti, la sua qualifica di protettore degli idraulici era da sempre ben riposta.
“Sì sì, ho già capito tutto: è come la scorsa volta. Potrei fare nuovamente un rapido e ordinario miracolo manutentivo… Tuttavia, Capo, vorrei ancora rimarcare la necessità che lei risolva una volta per tutte questo problema. Ormai i tubi sono vecchi, hanno quasi cinquemila secoli! E anche per quella storia dello scarico…”
“Lo so, lo so!” ribatté Dio un poco infastidito. “So bene che l’impianto non sarebbe più a norma di legge, che i tubi sono da cambiare e che dovrei effettuare il nuovo allacciamento alla fognatura, dacché se mi becca San Zione è capacissimo di multarmi… Non guarda in faccia a nessuno, quello, e a me tanto meno nonostante sia quelli che le leggi le fa! Ma se le cambiassi e poi si sapesse dei miei tubi, uh, apriti cielo!”
“Ma i tubi al momento scaricano sempre… ehm… come si chiama quel posto?”
“Terra. La Terra. D’altro canto, ricorderai perché decidemmo di far scaricare le tubazioni proprio lì e non altrove.”
“Sì, certo… Pianeta bellissimo un tempo, ma poi rovinato dai suoi stolti abitanti e reso una sorta di cloaca a cielo aperto… Già.”
“Esatto! Dunque, in fin dei conti, non è tutto questo gran danno, no?”
“Sì, esatto.”

(“Amaro, il sottosegretario alla Protezione Civile dichiara al nostro inviato: «Purtroppo, di fronte a calamità naturali di tale impensabile gravità, l’uomo coi propri mezzi può fare molto poco. Non resta che rimettersi nelle mani di Dio!»”)

Dalle stalle alle stelle. Se dalla montagna può “discendere” la salvezza culturale della nostra società…

Ghirri-Luigi-Alpe-di-Susi-Bolzano-1979Vorrei proporvi un argomento diverso da quelli soliti trattati qui nel blog – anche se a ben vedere, e credo ne converrete anche voi, a fine lettura, sto comunque disquisendo di cultura, e pure di quella molto alta.
Voglio parlare di montagna, ambiente che amo frequentare e che trovo assolutamente stimolante per le mie scritture, ma in tal caso voglio dissertarne in chiave sociale/sociologica – peraltro, non a caso, quanto andrete a leggere mi si è formulato nella mente proprio durante un’escursione sui monti…
Montagna in chiave sociale e/o sociologica, ho scritto: già, e voglio riferirmi in primis a quel processo che ha avuto inizio nel dopoguerra sull’onda dell’industrializzazione intensa del territorio italiano il quale, per via delle relative modificazioni alla società, al modus vivendi quotidiano, agli usi e costumi nonché, ovviamente, alla cultura, ha provocato un drammatico spopolamento delle aree di montagna e il conseguente deperimento generale dell’economia sussistente in esse. Un’economia rurale difficile, legata a poche attività faticose, scarsamente fruttuose – certamente molto meno che quelle industriali – inevitabilmente legate al clima e ai cicli stagionali. Per decenni i montanari sono emigrati, scendendo a valle nei paesi e nelle città ovvero dove le industrie sempre più in espansione abbisognassero lavoratori per l’incessante produzione di matrice via via consumistica. Di contro, la montagna si è trasformata in “divertimentificio”, come qualcuno l’ha definita, un luogo per il quale l’unica economia post-rurale possibile è stata ritenuta quella del turismo, e in particolare quella dello sci.
Un’evoluzione inevitabile, forse, quella della montagna nel 20° secolo, e sotto certi aspetti pure comprensibile – anche perché, banalmente, era impossibile pensare di aprire grandi fabbriche in mezzo ai monti, pensando di trattenere lì i residenti; tuttavia, tale evoluzione ha cagionato uno stato di “coma socioeconomico” profondo, alla montagna, privata di buona parte delle sue risorse umane e al contempo sfruttata in modo sovente insostenibile a fini turistico-speculativi. La si è creduta (ottusamente) per tanto tempo ricca, grazie al turismo, quando invece si stava impoverendo e sfiancando sempre di più.
Poi, negli ultimi anni, sulla scia della diffusione nel pensiero comune delle tematiche ecologiste e ambientaliste, oltre che di una sempre più condivisa avversione verso la società post-industriale, ultraconsumistica e verso tutti i danni da essa arrecati, c’è stato un certo ritorno alla montagna, soprattutto da parte di giovani i quali hanno riscoperto attività lavorative quasi scomparse – allevamenti, colture, sfruttamento sostenibile del territorio, eccetera – e che hanno fatto sperare in una (quasi miracolosa) inversione di tendenza, purtroppo per nulla sostenuta dalle istituzioni pubbliche le quali invece pare considerino già da tempo la montagna come una sorta di “zona morta”, priva di futuro – tra gli altri lo denunciò tempo fa con forza e a suo modo Mauro Corona, che da buon abitante del Vajont conobbe bene cosa può provocare il disinteresse della politica e delle classi dirigenti nei confronti del territorio di montagna. Si sa, la bieca e criminogena politica nostrana si fionda ovunque veda la possibilità di ricavi, di tornaconti, di intrallazzi e di inciuci, mentre altrove non si degna nemmeno di porre la pur minima attenzione…

Vorrei però ora porre la questione fin qui illustrata sotto una luce differente, di natura maggiormente sociologica – se non antropologica. Sì, dacché indubbiamente, se già la società post-industriale mostrava da tempo quanto ci fossero, dietro al (presunto) benessere diffuso, parecchie zone oscure, di degrado sociale, di scollamento pubblico, di ghettizzazione d’ogni sorta (tutte oscurità ben nascoste dalla chimera consumistica e dal panem et circenses imposto dal potere), la crisi finanziaria degli ultimi anni ha in qualche modo palesato ancora di più la natura anti-filantropica, per così dire, della società contemporanea, la sua mutazione in un sistema controllato dai poteri vigenti con modi sempre più oligarchici nel quale l’unico fine – per giunta assoluto – è quello della ricchezza e dell’influenza pubblica derivante, mentre ogni altro elemento basilare e necessario per una buona e democraticamente fruttuosa evoluzione sociale è stato sempre più messo da parte, se non a volte palesemente combattuto – vedi alla voce “cultura”, appunto. Abbiamo lasciato che la società da noi costruita, in cambio della possibilità (rivelatasi alquanto chimerica) di poter diventare tutti ricchi, distruggesse buona parte dell’umanità presente in essa, generando una socialità basata sull’avere, non più sull’essere, ecco.
Posto che se si vuole uscire dalla crisi in corso – la quale, qualcuno sostiene e temo a ragione, è stata ormai resa “cronica” dal sistema di potere proprio per fare che, grazie al costante stato di emergenza derivante, lo stesso possa arrogarsi il diritto di divenire ancora più soggiogante – e uscirne nel miglior modo possibile, bisogna indispensabilmente considerare di fondare la ripresa (termine da intendersi in senso generale, non solo economico ma pure, e soprattutto direi, etico) su una rinnovata consapevolezza culturale, sulla quale poi basare l’altrettanto fondamentale consapevolezza civica che, inutile dirlo, deriva anche da una virtuosa coesione sociale (mentre ora pare che l’egoismo, inteso come individualismo bieco, ottuso e direttamente generato dal sistema ultraconsumistico impostoci negli ultimi tempi, sia considerato il modus vivendi più figo da seguire). Bene: io credo che proprio la montagna, nel suo essere un ambiente comunque “difficile”, nel suo costringere l’uomo ad adattarsi ad essa e non viceversa – come è successo nelle pianure, con i danni da antropizzazione selvaggia che abbiamo tutti sotto gli occhi – con l’esigenza inevitabile di un rapporto di collaborazione quotidiana più stretta tra i residenti – perché, ovvio, gli agi, i servizi e i vizi della città mai potranno essere riprodotti tout court in mezzo ai monti – col suo conservare, tra le vette, un ecosistema umano che non diviene – anche nei casi peggiori – così corruttibile come quello della città e, ultimo ma non ultimo, col suo essere cultura – perché, non bisogna dimenticarlo mai, il paesaggio è cultura, e la difesa del paesaggio è azione culturale: se tale verità non fosse stata ignorata così profondamente, in Italia, avremmo meno scempi ambientali, meno dissesti idrogeologici, meno terreni e falde inquinate, e un territorio più bello e vivibile – possa rappresentare l’ambito migliore e più efficace per un buon risanamento (o rinnovamento, o rinascita, fate voi) di una società finalmente più equa, più civica, più consapevole. Già da tempo immemorabile la saggezza popolare recita quel famoso detto, “la montagna è scuola di vita”: beh, con altre parole è proprio il senso di quanto vi sto scrivendo. Che poi, tale rinnovata società potrà comunque continuare ad essere supercapitalistica ma, nel caso, lo sarà con intelligenza, logica, assennatezza e onestà politica – dacché questo conta: ciò che si è, certo, ma ancor più come lo si è.
E’ un dato di fatto antropologico che l’essere umano, allontanato dalle logiche “urbane” (si intenda qui in senso negativo) e messo in contatto con la Natura, recupera in qualche modo un’etica quotidiana che invece la città, con il suo abbagliante luccichio, i suoi agi sfrenati, il suo mettere a disposizione tutto senza sforzo e l’offrire una soluzione a qualsiasi problema, ha purtroppo relegato nell’angolo più oscuro e ignorato dell’animo umano – lo diceva già Thoreau quasi due secoli fa. In montagna lo scempio ambientale è più evidente (il che purtroppo non ne ha evitati innumerevoli, ahinoi…), la prepotenza sociale è più lampante e più irrazionale, la speculazione economica e la dissennatezza civica balzano subito all’occhio, nel silenzio che tra i monti non è disturbato dal baccano urbano e mediatico. Voglio dire – e ribadire: la società civile in montagna non può non porsi di fronte a sé stessa, alle proprie azioni e al proprio presente, nel frattempo facendo gioco forza tesoro del passato e dovendo meglio immaginare e costruire il futuro; e ogni individuo, nelle terre alte, non può non partecipare a tale quotidianità sociale, per il semplice motivo che il primo a trarne vantaggio sarà proprio lui (sarebbe così ovunque, inutile dirlo, ma sappiamo bene come la realtà sia ben diversa). Dunque proprio dalla montagna potrebbe venire un (rinnovato) modello di società civile che da tale ambiente ancora tutto sommato puro – o comunque meno corrotto che quello cittadino iperantropizzato – mutui le migliori virtù vitali, e dal progresso contemporaneo le migliori tecnologie e le più proficue evoluzioni sociali. Paradossalmente, mi viene da pensare e sperare, proprio quelle condizioni che dal dopoguerra in poi causarono lo spopolamento della montagna potrebbero essere le stesse che, in tutta la loro inesorabile schiettezza, consentano di rigenerare una società autenticamente umana nella quale l’uomo, l’essere umano, il cittadino, l’individuo libero, torni ad essere il centro. Così come dovrebbe essere e dovrà sempre essere in futuro, in qualsiasi forma sociale, se vogliamo che la nostra civiltà continui ad essere considerata tale e non diventi invece uno spaventoso mondo alla 1984 di Orwell.

Insomma, per concludere: la montagna e la sua Natura (in senso generale) ancora “brada” possono concedere all’uomo quello spazio di azione civica che la città – ovvero l’ambito industrializzato, superantropizzato, ipermediatizzato, socialmente degradato e soggiogato alle più basse strategie consumistiche – forse non può più offrire, a causa dell’imminente autosoffocamento sociale. Bisogna salire, per ritrovare noi stessi e il mondo “nostro” – quello che dovremmo desiderare per vivere bene: all’apparenza quasi un anelito spirituale (come lo interpretò Henry Wadsworth Longfellow in quel celebre componimento dal quale lo stesso Club Alpino Italiano trasse il proprio motto: Excelsior!, letteralmente “più in alto”, in un’epoca nella quale la montagna era ancora totalmente viva) che tuttavia, qui, io mi auguro possa essere un concretissimo invito a ritrovare la migliore via sociale da seguire, per non ritrovarsi sempre più ridotti a numeri uguali a tanti altri, dunque formalmente inutili, in una società simile a un arido e sterile deserto etico.

(In testa al post: Luigi Ghirri, Alpe di Siusi, Bolzano, 1979)

Carl Hiaasen, “Cane Sciolto”

Non male questo Carl Hiaasen, autore americano del quale già da tempo mi ero ripromesso di leggere qualcosa, e mantengo il proposito con Cane Sciolto (Rizzoli, traduzione di R. Bortolussi): intricato romanzo nel quale Hiaasen ironizza efficacemente sul potere politico lobbystico, tipicamente USA, al servizio del capitalismo più bieco e idiota che in questo caso ha nel mirino una idilliaca e ancora incontaminata isoletta della Florida, da distruggere e trasformare nell’ennesima località turistica VIP, tutta grattacielo, asfalto e campi da golf; a combattere contro tale progetto c’è Twilly Spree, un giovane ambientalista estremo un poco folle, che ne combinerà di tutti i colori pur di salvare l’isoletta, con il contorno di tanti bizzarri personaggi dell’una e dell’altra fazione…

Leggete la recensione completa di Cane sciolto cliccando sulla copertina qui sopra, oppure visitate la pagina del blog dedicata alle recensioni librarie. Buone letture!