Togliere dal paesaggio esteriore, aggiungere al paesaggio interiore

[La testata della Valle Spluga con le case di Motta di Sopra e, sullo sfondo, il gruppo del Suretta, ottobre 2024.]
Ponti tibetani, panchine giganti, passerelle panoramiche e poi strade, case, funivie… una concezione distorta della montagna, per la quale sia un luogo dove ci si possa solo svagare, continua ad aggiungervi “cose”, alla montagna perfettamente inutili ma funzionali a chi su quegli svaghi ci voglia fare affari. La chiamano “valorizzazione” ma si tratta di un inganno lessicale, in realtà è una messa a valore: una svendita, in pratica, della montagna e della sua identità culturale.

Invece, bisogna cominciare a togliere cose dal paesaggio esteriore e aggiungerne a quello interiore, dentro di noi: aggiungere curiosità, attenzione, conoscenza, consapevolezza. Solo così si può realmente e pienamente godere di ciò che la montagna sa donare a chi la visita, tanto a chi vi salga solo per qualche ora di relax quanto a chi desideri conoscerla più approfonditamente e, magari, restarci a lungo.

Paesaggio esteriore e paesaggio interiore sono sempre in relazione, anche nel turista più svagato: se nel primo ci si piazzano cose insulse, degradanti, inutili, anche nel secondo si addensano le stesse cose, inevitabilmente. E il danno che risulta è triplo: per la montagna, per chi la frequenta e non di meno per chi la abita.

Notizie sul nostro mondo che forse non fanno più notizia

Di nuovo, una notizia che dà conto della sparizione sempre più imminente dei ghiacciai alpini compare oggi su un quotidiano a diffusione nazionale, come vedete qui sopra, e ancora è il Ghiacciaio dell’Adamello, il più grande delle Alpi italiane, dunque tra i più sorvegliati e la cui riduzione appare quanto mai evidente e drammatica, a essere oggetto della notizia. L’ennesima, come accennato, su questo tema.

Ecco, appunto, mi chiedo: è ancora una “notizia” questa? Al netto di ciò che l’articolo racconta, fa ancora notizia, interessa a qualcuno, provoca qualche reazione a chi la legge? Se la redazione di un quotidiane nazionale la mette in prima pagina probabilmente pensa che lo sia ancora, una notizia. Ma poi? Che fine fa, una volta consegnata all’opinione pubblica? Resta in circolo nella mente dei lettori, viene in qualche modo elaborata dal loro intelletto oppure viene subitamente messa da parte, come fosse qualcosa di ormai irrilevante, magari anche di tedioso?

[Alba sull’effluenza Mandrone del Ghiacciaio dell’Adamello, 11 agosto 2018. Immagine tratta dalla pagina Facebook del Servizio Glaciologico Lombardo.]
In verità notizie del genere, che da decenni compaiono sugli organi di informazione, avrebbero dovuto fare notizia allora, e conseguentemente alimentare all’epoca un dibattito pubblico atto a farne un tema politico oltre che civico. Non è accaduto, e ormai per la gran parte dei nostri ghiacciai alpini non c’è più nulla da fare: che sia tra cinque, dieci o cinquant’anni, spariranno inesorabilmente e noi non possiamo farci nulla; dovevamo farlo quarant’anni fa, come detto. Ma ciò giustifica la mancanza diffusa di sensibilità, attenzione, di presa di coscienza, di assunzione di responsabilità su questi temi? Non tanto per fare qualcosa a difesa dei ghiacciai, ma per assicurarci di poter continuare a vivere in un mondo comunque accettabile anche senza di essi e con tutte le altre conseguenze più o meno critiche derivanti dalla crisi climatica – e poterci vivere, intendo dire, innanzi tutto per ciò che significa dal punto di vista culturale e antropologico, anche prima che ambientale, sociale, tecnologico o che altro. Da abitanti del pianeta – ovvero del territorio domestico – veramente consapevoli e responsabili, in parole povere.

Di sicuro non ci salverà, per dire, il dotarci di climatizzatori sempre più efficienti o le auto elettriche oppure i nuovi pozzi per rifornirci di acqua anche in caso di forti siccità. E nemmeno le notizie come quella sopra citata ci saprà salvare, posto quanto sopra. Invece, ci salverà l’aprire gli occhi, la mente e il cuore nei confronti del mondo che abitiamo, ci salverà l’essere parte armonica del suo ambiente e dei suoi paesaggi, ci salverà la capacità di osservare il futuro e saperci vedere in esso. Ci salverà essere realmente Sapiens, un titolo di cui ci siamo investiti ma, ad oggi e posta la storia di cui siamo protagonisti, senza troppe giustificazioni plausibili.

Educazione è rivoluzione.

5d2b333dc124711e532156e3093ab752Educazione è rivoluzione.
Già.
Più il tempo passa, e più educazione, cortesia, garbo, senso civico, urbanità, coerenza, etica, consapevolezza culturale, onestà intellettuale, senno, divengono peculiarità rare, non ordinarie, anomale, perturbatrici, sovversive. Rivoluzionarie, insomma. Ergo pericolose. E, inutile rimarcarlo, sono (sarebbero) tutte cose assolutamente ovvie e ordinarie in un qualsiasi individuo d’una società realmente moderna e civile.
Invece no, sono cose pericolose. Pericolose in primis per chi vorrebbe, attraverso la loro estinzione, caratterizzare la gente comune in modo opposto così da creare caos sociale, cioè la condizione migliore affinché il potere possa prosperare, dominare e assoggettare tutto e tutti in modo sempre più assoluto.
Ma lo stesso principio vale anche su “piccola scala”. Per dire: essere educati, appunto, è azione rivoluzionaria anche nelle minime cose quotidiane, nei gesti più minuti di tutti i giorni che invece, sempre più spesso, sembrano già essi contraddistinti da maleducazione, egoismo, inciviltà, menefreghismo, ignoranza. Ugualmente rivoluzionari diventano così la cultura, la razionalità, il senso civico, la capacità di discernimento, eccetera.
Per tutto ciò, e ben più di tante altre cose, l’educazione può essere un’arma potente di rivoluzione, di rinnovamento sociale, di costruzione d’una rigenerata base culturale comune oltre che di vibrante protesta verso quel sistema di potere e di dominio che invece fa delle peculiarità opposte la propria cifra e la propria forza – inevitabilmente, dacché un sistema corrotto non può che nutrirsi della corruzione – culturale, sociologia, antropologica e ovviamente politica – della società su cui si poggia.
Bisogna rivoluzionare con l’educazione, dunque bisogna educare alla rivoluzione. Anche perché è forse l’unica, tra le “rivoluzioni”, a non rischiare di sovvertire sé stessa e degradarsi in involuzione, come accaduto a tanti altri moti apparentemente “rivoluzionari”. È pure l’unica che, probabilmente, si può facilmente realizzare: basta volerlo, singolarmente, senza aspettare che altri chiamino all’adunanza e/o all’azione.
Basta volerlo, già. È proprio questo che la rende così preziosa e, parimenti o forse più, così utopica. Purtroppo.