Considerazioni “primaverili” (cioè a caldo ma non troppo) sul Salone del Libro 2016

salone2016«Beh, grazie, il Salone lo fanno in primavera, è ovvio che le considerazioni sul tema siano tali!» dirà qualcuno. Certo, scontato rimarcarlo; invece meno scontato lo è stato, l’evento torinese, fino a mica troppe settimane fa, rimasto a lungo pericolosamente barcollante per parecchi colpi di vento turbinoso (ma pure per proprie zoppìe, eh!) e invece alla fine rimesso in sesto con poderose e provvidenziali zavorre di dné (è dialetto piemontese e termine ben intuibile, credo) e ora appena chiuso e passato alla cronaca con le prime dichiarazioni dei suoi reggenti (riportare da numerosi media: io le ricavo da qui)… dalle quali si possono ricavare alcune considerazioni sul tema, appunto, e ancor più in vista dei cambiamenti già preannunciati (ma niente affatto determinati) per il prossimo anno.
Partiamo da quanto ha comunicato la presidente della Fondazione che organizza il Salone, Giovanna Milella:

Quest’anno abbiamo staccato 126.406 biglietti. Un risultato che va oltre quelli di dodici mesi fa. Si tratta di un più 3,1 percento in più rispetto al 2015, quando i tagliandi emessi furono 122.638.

Mmmm… attenta, presidente Milella, che a parlare di Salone e biglietti si rischia di entrare in un campo minato!

Abbiamo scelto di comunicare i dati più concreti, cioè i biglietti venduti.

Ah, ok. Certo, questo rende le false cifre sparate fino allo scorso anno (300mila e più biglietti… no comment!) ancora più irritanti, da un lato, e ridicole dall’altro, ma almeno si è ripristinata una apprezzabile (e inevitabile, d’altronde) obiettività. Di contro, non è detto che ai biglietti venduti corrispondano altrettanti ingressi effettivi al Salone, inoltre il dato può fare da cronaca e regalare ai giornalisti un po’ di facezie in più da riportare nei loro resoconti ma non credo sia il più importante e significativo – anzi, tutt’altro. Comunque, ribadisco, almeno i conti da questo punto di vista sono tornati, pare.
Andiamo avanti. Sempre Giovanna Milella:

Al Salone sorridono anche gli editori: Feltrinelli ha fatto registrare un più 5 per cento di vendite rispetto allo scorso anno, per De Agostini e Interlinea più  10, mentre Einaudi ha avuto addirittura un più 30 grazie soprattutto a “Scusate il disordine” di Luciano Ligabue. – (vabbé… – n.d.s.) – Meglio ancora ha fatto la casa editrice Sur (più 35), mentre Emos Audiolibri si è fermata ad un incremento del 15-20 per cento. Più 25 anche per Donzelli Editore, 30 per Perrone Editore, 40 per Blu Edizioni, più 20 per le Edizioni Del Baldo, più 30 per Giuntina. Poche le note negative: meno 10 per cento per Scritturapura, stessa performance per Miraggi.

Ecco: qui io, puntualmente, storco il naso, perché non credo proprio che lo scopo principale del Salone di Torino sia vendere libri, ovvero sia quello di essere una specie di mercatone del libro-sconto-fiera-prendi-3-paghi-2. No. E dico no perché che si vendano più libri al Salone (il che in sé mi può far pure piacere, sia chiaro) per poi leggere sulla stampa e sul web della costante moria dei librai – soprattutto di quelli indipendenti ovvero non di catena ovvero non con le spalle (più) coperte, che poi pure questi chiudono, eh! – mi pare una cosa del tutto fuori da ogni logica, seppur possa capire che il visitatore si faccia cogliere dall’entusiasmo dell’evento e compri quello che altrimenti non comprerebbe in un lustro. Peccato però che il salone duri 5 giorni mentre i librai debbano resistere per 360 giorni in più a combattere nella situazione di mercato che ci ritroviamo, e se (ragionando in linea di principio) qualche libro venduto al Salone in questi anni fosse acquistato in libreria, beh, qualche ruga in meno sulla faccia dei librai forse la vedrei.
Passiamo ora al direttore del Salone, Ernesto Ferrero, al suo ultimo mandato:

Questa manifestazione ha saputo arrivare a un grande risultato nonostante tutto. Ha vinto la squadra che si è dimostrata più forte di invidie e critiche anche eccessive, e delle enormi difficoltà finanziarie e burocratiche che potevano bloccarla.

Eh, l’ha detto, esimio (ex) direttore Ferrero: enormi difficoltà finanziarie e burocratiche. Che ora pare siano state risolte, ma si sa che di questi tempi di ostacoli simili ne spuntano all’improvviso come funghi, senza contare che il Salone deve comunque (anche) essere un’azienda (termine brutto ma consono) che crea utili e non perdite, come accaduto fino allo scorso anno. Purtroppo nessuno vive di aria e tanto meno (anzi, tanto peggio!) nell’ambito culturale, dove non solo di soldi non ce ne sono mai abbastanza ma quei pochi che ci sono si fa di tutto per farli sparire (perché “con la cultura non si mangia” (cit.), ricordate no?)
Di nuovo Ferrero:

Gli editori sono preoccupati di tutto questo parlare di cambiamento. Stanno assaporando il successo di quest’anno e già si sentono dire che andranno cambiate molte cose. A chi prenderà le redini raccomando di andare piano, documentarsi sui dossier, perché questa è una formula che funziona. Sicuramente da ammodernare, ma funziona.

Eh già, vanno cambiate (ancora) molte cose, al salone, se si vuole che la sua vita si allunghi di parecchio e resti in salute per lungo tempo. La formula funziona ma il rischio che diventi stantia (se non lo è già) è possente – con in più quella costante sensazione di mega-sagra paesana coi libri al posto delle salamelle che è simpatica, divertente, pure coinvolgente ma, in certi casi, parecchio avulsa dal concetto culturale (imprescindibile, se non vogliamo la trasformazione in non luogo del Salone e in non cultura dei libri) di letteratura e di lettura. Sia chiaro – lo voglio rimarcare con forza, a scanso di equivoci: il Salone del Libro di Torino è un evento più che importante, necessario per un ambito e un mercato editoriali così claudicante come quello italiano. Ma la sua necessarietà è strettamente correlata a quello che, a parere dello scrivente, è lo scopo fondamentale del Salone: il suo dover essere motore, propulsore, volano, fonte d’energia o che altro di simile per il mondo dei libri nostrano. E non solo in senso economico/industriale, anzi: soprattutto come basilare e omnicomprensivo evento di promozione della lettura per chiunque, ancor più per chi al Salone non ci viene, talmente evidente in questa sua missione da non poter essere ignorato da nessuno e da far che i suoi effetti posano spandersi nello spazio e nel tempo per l’intero anno, fino alla successiva edizione.
Per tale motivo, in fin dei conti, che si venda un tot di biglietti in più o in meno rispetto agli anni scorsi o che si vendano vagonate di libri, saranno pure cose belle e piacevoli ma conta poco o nulla. Un Salone quasi deserto ma le librerie piene di gente che compra in tutto il paese: questa sarebbe la condizione ideale che personalmente mi auguro. Restando, il Salone, un evento doveroso, lo ripeto ancora: ma che al dovere segua il piacere – della lettura, s’intende. Dacché, come dicono dalle sue parti, “Ghè mia na bèla scarpa, c’la divénta mia na sciàvata!” (“Non c’è una bella scarpa che non diventi una ciabatta”. Ecco.)

P.S.: articolo pubblicato anche su Cultora, qui.

Torino-Riyad: andata e ritorno, o nemmeno andata? Il Salone del Libro, l’Arabia Saudita e il necessario ruolo politico della cultura

80c0842a4a9955ef963f2ca3d3d43b40-kcZE-U10601458572829ooE-700x394@LaStampa.itDisserto ancora sull’evento torinese, questa volta per tutt’altra questione rispetto al mio precedente articolo. Forse avrete letto sui giornali delle forti perplessità sulla presenza in qualità di paese ospite al prossimo Salone del Libro di Torino (sempre che si faccia!) – (no, beh, tranquilli, si farà, si farà…) – dell’Arabia Saudita, soprattutto dopo lo sconcertante caso di Ali Mohammed al-Nimr, il giovane attivista condannato a decapitazione e crocifissione pubblica per aver manifestato in vario modo contro il regime – accuse peraltro ben poco dotate di effettivo fondamento, a quanto sembra. Inutile dire che quello di al-Nimr non è che l’ultimo di un lunghissimo elenco di casi non solo di violazione dei diritti umani ma pure di negazione delle più elementari libertà fondamentali (“Una ragazza non possiede altro che il suo velo e la sua tomba” predica un diffuso ed emblematico proverbio locale!) senza contare poi l’appoggio ben più che presunto alle più feroci organizzazioni terroristiche fondamentaliste, il tutto senza alcun moto di revisione di tale atteggiamento socio-politico da parte del potere saudita, anzi, con la reiterata sostanziale difesa di questo inquietante status.
Al momento in cui sto scrivendo queste righe, i vertici politici regionali e comunali sembrano concordare sul diniego alla presenza del paese arabo al prossimo Salone, mentre da quest’ultimo non è ancora arrivata una comunicazione definitiva ufficiale (arrivata poi il 6 ottobre, dopo che questo articolo era stato scritto e pubblicato altrove – n.d.s.) se non, già a maggio di quest’anno, la presa di posizione della presidente Giovanna Milella che, poco dopo essere stata eletta a capo dell’organizzazione dell’evento, criticò la scelta: “Dobbiamo ripensarci su” – peccato che nel frattempo non sia ancora chiaro chi dirigerà il prossimo Salone, con la posizione della stessa presidente Milella messa in discussione da più parti.
Inutile rimarcare che la reazione saudita non s’è fatta attendere, con l’ambasciatore a Roma Rayed Khalid A. Krimly a dichiarare che “Desta stupore constatare che quanti si ergono a promotori del liberalismo e del pluralismo stiano manifestando ostilità alla partecipazione di rappresentanti di altre culture in un evento di cultura internazionale».
Comunque, al di là di ciò, la vicenda mi porta a formulare la seguente dubbiosa osservazione: un evento culturale di portata notevole (a prescindere dalle sue difficoltà concrete) come il Salone del Libro di Torino, il quale appunto col suo manifestarsi rappresenti in qualche modo la cultura e il senso generale di essa, a fronte di una questione come quella rappresentata dalla presenza dell’Arabia Saudita ovvero di un paese in diversi modi del tutto antitetico a qualsiasi buon concetto di “cultura”, deve negare la suddetta presenza oppure deve accordarla?
In soldoni: come manifestazione culturale – di nome e di fatto – e dunque espressione di cultura nel senso più ampio del termine, è giusto che il Salone rifiuti la presenza dell’Arabia Saudita, usando in qualche modo (improprio?) la cultura stessa come uno scudo bellico contro chi quella cultura rifiuta, oppure proprio per lo stesso motivo dovrebbe comunque accogliere i sauditi per far loro capire, in un contesto di raffronto esplicito e ineludibile, che quella da essi definita “cultura” (“altra” ovvero diversa, se vogliamo stare alle parole dell’ambasciatore sopra citate) non è affatto tale ma solo un bieco muro dietro il quale nascondere le più barbare atrocità?
Per riassumere ancora di più: il diniego definitivo rappresenterebbe un vero e proprio scontro culturale (con tutte le relative considerazioni del caso)? L’accoglienza, invece, sarebbe un segno di dialogo e un tentativo di far cambiar rotta al regime saudita, oppure raffigurerebbe una resa al suo efferato arbitrio sociopolitico?
Mi pare che la questione, sotto questo punto di vista, sia ben più importante e delicata del mero (e pur significativo) “sì/no” su cui pare concentrarsi la stampa, dacché genera inevitabilmente una riflessione sul ruolo politico della cultura – ruolo inteso come attivo, d’azione, non solo teorico e dunque passivo. Per quanto mi riguarda, di primo acchito trovo difficile non esprimere il più fermo diniego verso la significativa presenza di un regime così efferato, follemente anacronistico e lontano da qualsiasi dimensione di umanità sociale – nonché di cultura, ribadisco. Però mi chiedo anche se il diniego tout court non possa finire con l’estremizzare ancora di più la posizione e l’azione interna del regime saudita, visto che, da bravi produttori di quel maledetto liquido nero che al mondo intero serve per muovere ogni mezzo semovente, avrebbero comunque alleati a gogò pronti a chiudere entrambi gli occhi sulla situazione dei diritti umani pur di ossequiare i principi di Riyad.
Insomma, il “no” è del tutto sostenibile e auspicabile ma solo se seguito da una qualche azione diplomatica e politica di carattere culturale, non solo del Salone che certamente da solo può far ben poco ma a livello ben più ampio e possibilmente alto, volta a fare pressione sui dittatori sauditi al fine di far cambiar loro un po’ di quelle idee malsane sulle quali basano il proprio potere. Ritrovando dunque un ruolo politico attivo e d’azione della cultura e dei suoi elementi rappresentativi in senso diretto (verso i sauditi) e indiretto (verso le istituzioni nazionali e internazionali) fondamentale non solo in tale circostanza. Lo stesso discorso varrebbe per il “sì” alla presenza arabo saudita al Salone, ma in tal caso credo che sarebbero i sauditi stessi a rifiutare la presenza in un evento che li accolga anche per far loro un adeguato cazziatone. Quanto meno, tuttavia, in questo caso sarebbero soprattutto loro a perdere una buona occasione culturale.

P.S.: articolo pubblicato anche su Cultora, qui.

P.S.2: cliccando sull’immagine in testa al post, potrete visitare la pagina di change.org dedicata alla petizione da firmare per chiedere al governo saudita l’annullamento della condanna inflitta ad al-Nimr.