E se la memoria dovesse svanire?

Sul tema del Giorno della Memoria, poco fa alla radio, ho sentito un interessante intervento nel quale veniva posta una domanda cruciale: quando non ci saranno più testimoni diretti atti a mantenere viva – perché direttamente vissuta – quella fondamentale storia della quale si chiede di salvaguardare la memoria, questa che fine farà? C’è il rischio che, nonostante il suo valore necessario e imperituro, svanisca come è già accaduto per altre pur importanti memorie?

Be’, risposta ovvia dacché immediata, ma forse non così banale: bisogna generare nuovi custodi della memoria, capaci anche di tenere pienamente vivo lo spirito delle testimonianze dirette, quando di esse non ve ne saranno più. Seguito altrettanto ovvio, ma affatto banale stavolta: sono le nuove generazioni a poter diventare quei custodi, e non solo perché “nuove” ma pure perché potenzialmente più sensibili di noi “grandi” (nonostante tutto ciò che si dice all’opposto: si veda la sensibilità verso la questione climatica) verso una tale basilare missione.

Posto ciò, ho la fortuna di conoscere (anche se non quanto vorrei) Marina Morpurgo, storica, giornalista, traduttrice e raffinata scrittrice che ha lavorato per quattro anni al Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea di Milano, e che per la casa editrice Pearson (con la quale ha pubblicato un nuovo corso di storia per la Scuola secondaria di primo grado Luci sulla storia) ha scritto uno “speciale” per studenti intitolato Gli ebrei sotto il nazismo: “pecore al macello” o combattenti? Col quale mette in luce i tanti atti di resistenza morale e culturale che, oltre gli episodi di resistenza militare, gli ebrei seppero organizzare contro la barbarie nazista. Una resistenza disperata e proprio per questo straordinaria nei risultati che riuscì a conseguire.

Cliccate sull’immagine in testa al post per leggerlo – merita molto, inutile rimarcarlo.

Finzi, Fausta – matricola 49538

27 gennaio, Giorno della Memoria: quest’anno vi propongo la testimonianza di una donna delle mie parti, Fausta Finzi, tratta dalla video-intervista La storia di Fausta Finzi. Sopravvissuta del campo di concentramento di Ravensbrück, prodotta nel 2001 dal Comune di Verderio Superiore (Lecco). L’estratto qui proposto, del 2013, è a cura del MUST, il Museo del Territorio di Vimercate (qui invece ne trovate una versione più lunga.

Fausta Finzi Tortera nacque a Milano l’11 giugno 1920 da Edgardo Finzi e Giulia Robiati. Visse a Milano dove il padre lavorava come impiegato di banca. Quando quest’ultimo venne arrestato dalle SS nell’aprile del 1944 decise di seguirne la sorte. Venne portata nel carcere di San Vittore e separata dal genitore. Il 27 aprile 1944 venne trasferita nel campo di Fossoli dove poté riunirsi al padre. Rimase con lui sino alla divisione del campo in due aree distinte per uomini e donne. Durante questo periodo lavorò come infermiera. Nel luglio 1944 venne caricata con il padre su un convoglio ferroviario che fece sosta a Verona. Qui i due vennero separati: Fausta non rivide mai più il padre. Fu deportata nel campo di Ravensbrück con numero di matricola 49538. Qui fu costretta a lavori forzati di nessuna utilità pratica sino a che si offrì volontaria come operaia nella sartoria del campo. Nel gennaio 1945 arrivarono detenute provenienti da Auschwitz. L’organizzazione del lavoro iniziò ad essere meno costante a causa dei bombardamenti, nonostante la disciplina richiesta dai sorveglianti rimanesse ferrea. In questo periodo Fausta fu colpita da un’infezione ad un dito ma continuò a lavorare temendo le selezioni. Nel frattempo le razioni di cibo, già scarsissime,  cominciarono a diminuire progressivamente. Il 27 aprile 1945, dopo ben 265 giorni di detenzione, venne evacuata dal campo insieme ad altre prigioniere e costretta a marciare verso una destinazione sconosciuta sino all’8 maggio 1945, quando un contingente americano mise in fuga i soldati SS. Una volta libera fu costretta a rimanere nella zona controllata dall’esercito russo. Dopo avere assistito a violenze sessuali perpetrate dai soldati sovietici ai danni di alcune prigioniere, decise di fuggire insieme ad alcuni prigionieri italiani e raggiungere l’area di influenza americana. Venne alloggiata in un campo di smistamento ed in seguito trasferita a Lubecca in un campo inglese dove fu curata e nutrita. A metà agosto 1945 partì con una tradotta ufficiale per l’Italia. Rientrò a Milano il 31 ottobre 1945.

Dal ritorno a casa, Fausta Finzi rimase chiusa per sessant’anni in un silenzio ostinato, rotto soltanto dalle due video-interviste concesse nel 1996 al Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea di Milano e nel 1998 alla Shoah Foundation di Los Angeles. Due anni dopo, nel 2000 acconsentì ad una intervista per la Commissione Cultura del Comune di Verderio Superiore e, in occasione della Giornata della Memoria del 2002, affrontò per la prima volta il pubblico, a Vimercate e, poco dopo, a Lecco nell’ambito della mostra “La Memoria”. Proprio da quest’ultima esperienza nacque e prese corpo l’idea di pubblicare il diario della marcia.

Fausta Finzi aveva già pubblicato nel 2003 un libro di memorie dal titolo Varcare la soglia (ediz. ISMLEC, 2003), in seguito al quale fu chiamata a partecipare a numerosi incontri pubblici, inclusi quelli con gli studenti. Il diario della marcia è uscito invece nel 2006 con il titolo A riveder le stelle (Gaspari Editore, 2013). Con esso la Finzi ha consegnato alla nostra memoria una singolare testimonianza nella quale l’oggi – ovvero il resoconto tardivo della propria prigionia e le riflessioni sul significato più intimo di tale esperienza – si mescola con il passato con il “tempo di allora” fermato nel diario del 1945. Il diario è accompagnato da due saggi, uno di Federico Bario che si sofferma sulla difficoltà di essere “testimone”, l’altro di Marilinda Rocca dedicato alla scrittura, o meglio alle “scritture” di Fausta Finzi. A riveder le stelle in qualche modo ridona voce – e oggi ancora di più – a chi come Fausta Finzi ha saputo affrontare ogni momento della propria vita, anche il più tragico, con una straordinaria forza d’animo; è riuscita con tranquillità, lucidità, talvolta autoironia, a raccontare il senso di una vita che alla fine è riuscita a fare i conti anche con la propria memoria. Memoria che ora appartiene anche a tutti noi.

Fausta Finzi è scomparsa a Vimercate il 26 giugno 2013.

Il Giorno della Memoria

Il 27 gennaio, Giorno della Memoria, è probabilmente l’unica delle tante “giornate-per-qualcosa” a cui conferisco pieno valore. Perché ricorda qualcosa di veramente e drammaticamente fondamentale, per la storia di noi come “civiltà umana” (o di inciviltà, se vista all’opposto) e perché contribuisce a tenere in costante evidenza l’importanza della memoria come dote umana altrettanto fondamentale ovvero – anche in tal caso se vista la questione dalla parte opposta – il dramma di non avere memoria della storia e del passato.

A tal riguardo, come contributo sul tema e come testimonianza “non convenzionale” ma profondamente emblematica sulla giornata in questione e sul suo valore, voglio segnalare il progetto-denuncia messo in atto lo scorso anno dallo scrittore satirico israeliano Shahak Shapira, berlinese d’adozione: Yolocaust, nome che deriva dalla crasi tra Holocaust e l’acronimo YOLO, ovvero “you only live once”, hashtag ricorrente nelle foto postate online, tra gente che si gode una bella situazione. Come si può leggere in questo ottimo articolo di Artribune, il progetto Yolocaust, col suo chiaro taglio educativo-morale tanto quanto sarcastico, punta a colpire chi non conosce il rispetto di certi luoghi sacri – come una chiesa, un cimitero o un ospedale – ma apre anche una doppia riflessione: sul ruolo delle immagini oggi, nel consueto mix di cinismo, ipertrofia tecnologica e vuota proliferazione, e su quello dell’arte pubblica (e non solo di quella aggiungo io) rispetto al tema della memoria, fra naturale calo emotivo, elaborazione e superamento del dramma, e una necessità di presa in cura, di custodia, di permanenza dell’exemplum. Quella in testa al post fa parte della serie di 12 immagini che ha composto il progetto; l’originale modificata da Shapira (scattata dai suoi protagonisti nel Memoriale della Shoah di Berlino, un luogo che chiunque nella vita dovrebbe visitare almeno una volta) la potete vedere qui sopra. Nell’articolo di Artribune potete vedere anche le altre immagini della serie.

La domanda che dunque sorge inesorabile, per l’ennesima volta, è: perché, noi uomini contemporanei, per di più (apparentemente) “ipertecnologici” e “superinformati”, non abbiamo memoria?

Racconta al proposito Alessandro Ghebreigziabiher in uno dei suoi spettacoli teatrali:

Il mio nome è memoria. Sono la vostra più preziosa amica. Sono la buca in cui non ricadere e la strada sbagliata da non imboccare la seconda volta. Posso essere la vostra più temibile nemica. Perché sono l’occhio che fotografa la vostra vergogna nel buio di una stanza.

Ecco, la verità, forse, non è che non abbiamo memoria o che ci dimentichiamo del passato: è che la ignoriamo. La memoria – e la storia da cui proviene e di cui in qualche modo diventa parte e rappresentazione – è sempre presente, permane sempre “visibile”, percepibile: se non la cogliamo è perché non vogliamo farlo, e non lo vogliamo fare, io temo, proprio per ciò che dice Ghebreigziabiher: perché troppo spesso nella memoria si conserva in modo inesorabile e indubitabile la vergogna del nostro agire. Quello che dichiariamo di non voler più far accadere ma del quale sappiamo – anche solo solo inconsciamente, temo – tutta la gravità, il che ci rende ad esso meschinamente sfuggenti e per questo, per drammatico paradosso, fautori del suo inevitabile ritorno.

In fondo, viene normalmente da associare il termine e il concetto di “memoria” al passato, ma credo sia parimenti associato al futuro e stavolta in modo niente affatto paradossale: perché la mancanza di memoria del passato facilmente (e drammaticamente) diventerà la preveggente visione del futuro. Un futuro nel quale torneranno gli errori già commessi, inesorabilmente, senza che ce ne renderemo nemmeno conto.