Lindsay Kemp (1938-2018)

Sono tra quelli che non ricordano granché della propria infanzia, e sovente quei pochi ricordi sono anche piuttosto nebulosi. Ma una delle immagini mnemoniche che conservo dacché mi colpì in modo particolare – avevo credo 4 o 5 anni suppergiù, dunque fate conto che siamo intorno alla metà degli anni ’70 – è simile a quella qui sopra pubblicata. Un fermo immagine mentale – ricavato da qualche programma televisivo del tempo, forse ancora in bianco e nero – di uno strano individuo, una creatura indefinita e indefinibile, umana-ma-forse-no, eburnea, arcana, che si muoveva in modo strano e che si impresse nei miei ricordi infantili come una specie di apparizione onirica ed eterea eppure assai potente, suggestiva, sconcertante nel senso meno cupo del termine. Certamente non capii, allora, chi o cosa fosse e che stesse facendo, ma in qualche modo è come se riuscissi a percepire la particolare vividezza della sua recitazione, come se in tutta la mia ingenua curiosità infantile intuissi che non fosse un “attore” come gli altri, che recitasse una parte su un palcoscenico come tanti altri (ribadisco, col nulla che ci capivo a quell’età al riguardo), ma un performer la cui arte ancor prima che dai gesti “emanasse” dalla stessa persona in quanto parte dell’opera artistica da soggetto-oggetto fondamentale, non da mero e ordinario protagonista recitante, acquisendo dunque una rara e impressionante forza espressiva.

Insomma, era Lindsay Kemp. E qui, ora, ho cercato di interpretare oggi ciò che colpì il me stesso bambino in base a quell’immagine mentale rimasta impressa in maniera così vivida. Forse in modo diverso da ciò che fantasticai allora – sono passati più di 40 anni, in effetti – ma di sicuro, in seguito, ogni volta rivedessi Kemp da qualche parte, in TV, su un giornale o sul web, quel mio ricordo tornava a illuminarsi riportandomi a quell’istante di contemplazione e confusione di metà anni ’70 d’un personaggio tanto originalmente iconico.

Sarà ancora così in futuro, ne sono certo.

You have flown away like your angel.

(Ringrazio molto Pimmicella per l’aiuto alla stesura del testo.)

Falcon Heavy (ovvero: di una data storica, di viaggi verso Marte e di futili canzonette)

Ieri sera, nel mentre che chissà quanti milioni di italiani perdevano il proprio tempo davanti alla TV assistendo a futili messinscene tipiche di questo periodo, io in live streaming sul web assistevo a quello che senza dubbio rappresenta un nuovo storico passo nel progresso scientifico e tecnologico (dunque anche culturale) dell’umanità: il primo lancio del Falcon Heavy, il nuovo super-razzo spaziale della SpaceX di Elon Musk, il visionario patron di Tesla che con i suoi vettori e la loro innovativa tecnologia può realmente dare il via ad una nuova era spaziale.

Ed è stato un lancio non solo perfetto dal punto di vista tecnico, ma pure suggestivo ed altamente emozionante: il carico rappresentato da una Tesla Roadster messa in rotta verso Marte, la scritta “Don’t Panic” sul monitor dell’auto in omaggio alla celeberrima Guida Galattica per Autostoppisti di Douglas Adams, le note di Life on Mars di David Bowie diffuse nel centro di controllo durante il lancio, e soprattutto il rientro e l’atterraggio simultaneo dei due booster alla base di Cape Canaveral, una scena che pareva estratta tale e quale da un film di fantascienza. Qualcosa di storico, appunto.
Nel video di seguito potete assistere all’intera sequenza di lancio:

Alla faccia di quelle messinscene e alle loro immutabili, insignificanti manfrine. Ecco.