
Questa distesa di campagna fertile e riparata, nella quale i campi non sono mai riarsi e le sorgenti inaridite, è limitata a sud dall’ardito crinale di rocce calcaree che comprende i dossi di Hambledon Hill, Bulbarry, Nettlecombe Tout, Dogbury, High Stoy e Bubb Down. Il viaggiatore che proviene dalla costa dopo aver faticosamente marciato verso nord per una trentina di chilometri su dune calcaree e attraverso campi coltivati a frumento, arriva improvvisamente all’estremità di una di queste scarpate, e resta piacevolmente sorpreso scorgendo, aperta come una carta geografica sotto di lui, una regione la quale è assolutamente diversa da quella in cui è passato. Alle sue spalle le colline sono dolci, il sole dardeggia su campi tanto grandi da dare al paesaggio l’aspetto di un’estensione sconfinata, i viottoli sono biancheggianti, le siepi basse e con i rami fittamente intrecciati, l’atmosfera priva di colore. Qui nella valle il mondo sembra costruito su scala più piccola e delicata; i campi sembrano semplici pascoli recintati, così ridotti nelle proporzioni che, da quell’altezza, le loro siepi di confine appaiono come una trama di fili verde scuro sovrapposta al verde più tenero dell’erba. Là in basso l’atmosfera soave e struggente è così sfumata di azzurro che ciò che gli artisti chiamano il campo medio prende anch’esso la stessa sfumatura, mentre l`orizzonte più lontano ha la tinta del più cupo azzurro-oltre-mare.
[Thomas Hardy, Tess dei d’Urberville, 1891.]
Secondo Eugenio Turri, uno dei maggiori geografi italiani e tra i più grandi esperti di paesaggio, questa è una descrizione esemplare di un paesaggio, «funzionale al racconto dei fatti che vi accadranno, ma importante anche per capire che tutto cova nelle profondità della terra, del paesaggio, pur nella pacatezza delle visioni che esso suscita e che poi tutto ritorna al paesaggio» – come scrive al riguardo nel saggio Il paesaggio racconta (presentato al convegno della Fondazione Osvaldo Piacentini a Reggio Emilia nel marzo del 2000). E se il «paesaggio» esiste solo se noi lo sappiamo concepire in quanto prodotto delle nostre percezioni sensoriali e del nostro bagaglio culturale, e se possiede una propria identità peculiare e un valore culturale i quali si riflettono in chiunque vi si relazioni, da abitante permanente o da visitatore temporaneo, la descrizione del paesaggio – non necessariamente artistico-letteraria, anche solo mentale, di chi vi sta e lo sta osservando cercando di comprenderlo – diventa la descrizione di noi stessi. Cioè qualcosa di determinante e fondamentale per ciò che noi siamo. Ecco perché è così importante saper percepire e capire il paesaggio: è una pratica che come poche altre sa dare un senso a noi che lo viviamo, alla nostra vita.
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