Un principio ineludibile, per il bene delle montagne

[Foto di camillo granchelli su Unsplash.]
Buongiorno a tutti, care amiche e cari amici! Mi auguro che stiate bene e abbiate passato dei giorni di vacanza veramente rilassanti e rigeneranti – almeno per chi di voi che lo ha fatto come me nelle scorse settimane.

Anch’io da oggi riprendo a camminare sui sentieri della quotidianità dopo averlo fatto, per un paio di settimane appunto, su quelli di varie montagne, dalle quali torno con una convinzione se possibile ancor più forte di quanto già fosse (per me) prima, al punto di assumere le forme di un vero e proprio principio pressoché ineludibile: la montagna è per tutti, sì, ma tutti quelli che la sanno vivere con  equilibrio, rispetto e consapevolezza. Ovvero: chiunque non sappia e non voglia rispettare questo principio credo sempre più che debba essere gentilmente ma fermamente invitato ad andare altrove.

Ribadisco: è un principio ineludibile, che nel mio sistema di valori ne assume uno formalmente “giuridico”.

Ciò per il bene della montagna, di chi la vive con la giusta armonia e ancor più di quelli che invece concepiscono i territori montani come luoghi da ingolfare di turisti convinti (?) che ciò sia l’unica speranza di prosperità (o di salvezza) per le loro comunità e non si rende conto che invece è la sola e certa condanna al degrado della bellezza dei monti e della cultura che li caratterizza e risulta così fondamentale per tutti – sì, ma tutti quelli che la sanno comprendere e fare propria.

Per una coincidenza che – mi viene da pensare – non è così causale, l’amico Pietro Lacasella ha dedicato a questo tema e allo stesso principio  il suo editoriale di oggi su “L’AltraMontagna”, che io ho letto dopo aver appuntato i pensieri suddetti. Così Pietro rimarca: «(È) un principio a cui dovremmo aggrapparci per diventare dei residenti/turisti più consapevoli; un principio che non dovrebbe rimanere aggrappato alle guglie, ma scendere in valli e pianure che non di rado hanno perso la capacità di dialogare in modo armonico con il territorio.»

Io rilancio: è un principio che deve farsi regola, richiesta, invocazione, bisogno, necessità. E ciò in modo fermo, deciso, determinato, il più possibile rigoroso. Perché le montagne sono montagne, non il mare, le città o che altro, la loro geografia, naturale e umana, deve essere vissuta nel modo più consono possibile alle loro peculiarità – esattamente come a loro volta il mare, le città e ogni altro luogo deve essere frequentato e vissuto in modo altrettanto proporzionale. Una questione di buon senso, alla fine: una cosa apparentemente semplice e invece sempre troppo complessa da attuare e constatare, ma sulla cui carenza non si può più transigere. Non più.

Cambiano le montagne e i paesaggi, cambiamo anche noi

Ormai decenni fa, quando avevo poco più di vent’anni (dunque metà anni Novanta, in pratica), con alcuni amici salii per la prima volta il Cevedale, trovandomi così al cospetto di una montagna la cui bellezza iconica mi conquistò subito, per come era ed è possibile osservarla dalla via normale al Cevedale dal rifugio Casati: il Gran Zebrù/Königsspitze, una piramide pressoché perfetta puntata verso il cielo e scintillante di ghiaccio. Scattai una fotografia (il digitale era ancora roba rara, ai tempi) e ne ricavai un ingrandimento che incorniciai e appesi a casa – dove ora vivono i miei genitori e dove fa ancora bella mostra di sé, vicino all’ingresso: lo vedete lì sopra (e tenete conto che erano i primi di agosto, se volete fare qualche raffronto con il presente). Al netto del celeberrimo Cervino, credo sia una delle montagne più belle e “potenti” delle Alpi, il Gran Zebrù, e capace di narrare storie meravigliose su di sé, come raccontai in questo articolo.

Credo lo sia, ho scritto, e vorrei poter continuare a utilizzare la forma verbale al presente tuttavia temo mi (e ci) sarà impossibile farlo, di questo passo. Qualche giorno fa l’amico Luca Ciccio Impagnatiello ha pubblicato sulla sua pagina Facebook quest’immagine del Gran Zebrù, presa dalla vetta del dirimpettaio Monte Pasquale. Una foto (della cui concessione lo ringrazio di cuore) quanto mai significativa e francamente angosciante:

Consentitemi un paragone un po’ idiota ma certamente chiaro: immaginate di avere un’amica (parlo per me uomo, ovviamente il tutto vale anche in ogni altra versione di genere) bella, formosa, atletica, bionda, assolutamente affascinante, e poi di rivederla solo dopo qualche giorno smagrita, pallida, ingrigita, spenta al punto da faticare a riconoscerla se non fosse per le sue fattezze principali. Ecco, è ciò che mi si formula in testa nel considerare l’immagine odierna del Gran Zebrù, quasi del tutto privato dei suoi ghiacci e dunque dall’aspetto soprattutto roccioso, ingrigito, cupo dacché senza più lo scintillio nivale che prima rendeva abbacinante la sua piramide, con il letto della lingua valliva che sembra un’enorme piaga sterile diffusasi tra gli alti pascoli della Valle di Cedèc… un’altra montagna, in pratica, se non fosse per le forme che la rendono ancora identificabile da parte di chi la conosce. E il tutto in pochi decenni, un periodo rapidissimo nella scale del tempo della Terra: per questo l’ho correlato ai pochi giorni del paragone suddetto.

Per tutto ciò sostengo da tempo che i cambiamenti climatici e le trasformazioni fisiche dei territori che ne subiscono gli effetti, tra i quali le montagne sono quelli forse in assoluto più soggetti, più sottoposti ad alterazioni, non comportano conseguenze solo ambientali e in generale materiale ma anche, e per certi versi soprattutto, immateriali ovvero culturali, antropologici, psicogeografici… Il Gran Zebrù che si osserva oggi obiettivamente non è più la montagna di trenta o cento anni fa: ne conserva le forme ma la sua identità assume un aspetto diverso e dunque anche la nostra percezione, assimilazione e elaborazione della sua immagine e del suo paesaggio sta cambiando, quindi inevitabilmente si modifica anche la relazione culturale che possiamo intrattenere con essa e che, nel caso di una montagna appunto così iconica, finisce per influire sul costrutto dell’intero paesaggio d’intorno, rispetto al quale il differente aspetto della montagna genera una diversa percezione del luogo. E siccome noi siamo il paesaggio, dal momento che esso è una nostra elaborazione culturale che esprime nell’idea del paesaggio anche noi stessi, sostanzialmente pure noi cambiamo, al cospetto del Gran Zebrù attuale e futuro così come in ogni circostanza simile.

Sono cambiamenti o, se preferite, alterazioni intense, profonde, complesse, senza dubbio epocali, ma che ancora, credo, non sappiamo percepire e comprendere, fermandoci ai pur essenziali aspetti ambientali (ed è comunque già buona cosa, visto che non sempre accade e il disinteresse, l’apatia o il negazionismo – del clima ma di rimbalzo anche dell’effettiva realtà ambientale – a volte si palesano in tutta la loro sconsideratezza). Ma dobbiamo saperli elaborare e capire, quei cambiamenti in atto, dal momento che come detto stanno cambiando anche tutti noi e la nostra relazione con il mondo che abitiamo, quella che ce lo può far vivere al meglio oppure in maniera problematica. Cioè per costruirci il necessario futuro di proficua resilienza rispetto al divenire della realtà: sarebbe il caso di pensarci, finalmente.