Ciò che ci insegna la civiltà africana

[Un pastore Masai. Foto di Bertrand Lacote, opera propria, CC BY-SA 4.0, fonte commons.wikimedia.org.]

All’equilibrio ecologico corrispondeva un equilibrio nel campo delle relazioni umane, un equilibrio ideale di diritti e di doveri di parentela, talvolta molto semplice, spesso molto complicato e quasi sempre costruito in funzione di pressioni bilanciare tra le diverse sezioni della società: in maggioranza fra discendenze e gruppi di discendenza. Questo equilibrio ideale di relazioni di parentela, considerato essenziale per quell’altrettanto ideale equilibrio con la natura che era di per se stesso garanzia materiale di sopravvivenza, richiedeva specifici modelli di condotta. Gli individui potevano avere dei diritti, ma li avevano in virtù solo dei doveri che assolvevano verso la comunità.

In questo passaggio del suo celebre volume La civiltà africana, Basil Davidson (che di storia dell’Africa è stato considerato tra i massimi esperti in assoluto) rimarca indirettamente – ma non troppo – una colpa che noi civiltà avanzate occidentali manifestiamo rispetto a quelle altre comunità umane che, dall’alto del nostro progresso, abbiamo sempre considerato (più o meno marcatamente) arretrate: l’incapacità, ovvero la capacità perduta, di concepirci in relazione con la Natura proprio come civiltà, come rete strutturata di individui che abitano un territorio e il suo ambiente naturale con i quali dover necessariamente instaurare un equilibrio biologico proficuo per entrambi, umani e Natura, al fine di viverci al meglio e contemporaneamente garantire tale condizione a lungo nel tempo attraverso la salvaguardia del territorio stesso – a prescindere dalle forme attraverso le quali istituire e manifestare tale equilibrio nonché dal grado di progresso tecnologico e culturale raggiunto, ovviamente: non è questo il fulcro attorno a cui ruota la questione. Invece gli occidentali da tempo hanno rotto quell’equilibrio e ne hanno dimenticato l’importanza: avremmo la tecnologia per restare in armonia con il mondo che viviamo e con la sua Natura e invece la utilizziamo da decenni per distruggerlo. Anche in Africa, dove abitano quelli “arretrati” che vivono ancora nelle capanne di fango ai quali, anche sul tema suddetto, vorremmo insegnare il nostro “progresso”, già.

Mirella Tenderini, “Le nevi dell’Equatore”

cop_nevi_equatoreCredo che se tutt’oggi si raccontasse a molta gente comune (definizione qui con accezione del tutto letterale e neutra, sia chiaro) che nel bel mezzo dell’Africa, lungo la linea dell’Equatore e dunque in una zona del mondo che immediatamente richiama alla mente caldo infernale, zone desertiche e savane, leoni, giraffe, elefanti e quant’altro di affine, vi siano montagne con cime innevate e ampi ghiacciai, in tanti storcerebbero il naso e non ci crederebbero granché.
In fondo, da questo punto di vista, la situazione non è cambiata molto da quasi 170 fa, quando i primi esploratori europei presero a raccontare di altissime montagne scintillanti di ghiacci eterni al centro del “continente nero”, venendo presi per visionari in preda ad allucinazioni da febbre malarica o cose del genere. D’altro canto, un po’ per lo stesso motivo, l’aura leggendaria che allora circondava le tre grandi montagne africane, Kilimanjaro, Kenya e Ruwenzori, resiste ancora adesso, continuando ad affascinare gli alpinisti contemporanei che decidono di calcarne le vette massime e nonostante anche lì sia in atto un regresso delle superfici glaciali che la collocazione geografica non rende meno drammatico di quello in corso sulle Alpi o ai Poli.
E’ un’aura leggendaria che affascina anche a distanza, anche chi legga della sua essenza seduto su una comoda poltrona a migliaia di chilometri di distanza dacché scaturente da una storia altrettanto leggendaria, nel bene e nel male, che Mirella Tenderini – una delle migliori scrittrici di alpinismo ed esplorazione in circolazione – narra ne Le nevi dell’Equatore (Alpine Studio, 2012; 1a ediz. CDA&Vivalda Editori, 2000).
In effetti la storia della conquista delle più alte montagne africane è assolutamente emblematica della parallela conquista – dovrei usare il termine “colonizzazione”, ma il primo credo renda meglio l’idea – della parte interna dell’Africa da parte degli europei, ovvero è assai significativa di quello storico travaglio che ha caratterizzato il continente tra Settecento e Novecento (e che continua tutt’ora)… (continua)

mirella-tenderini(Leggete la recensione completa di Le nevi dell’Equatore cliccando sulla copertina del libro lì sopra, oppure visitate la pagina del blog dedicata alle recensioni librarie. Buona lettura!)