Tom Robbins, “Coscine di Pollo”

cop_coscine-di-polloTom Robbins è un pazzo. Credo di aver già affermato questa cosa in passato, in qualche altro articolo o recensione, se non sbaglio, e comunque ci tengo a ribadirlo. Un pazzo, un folle, un fuori di testa, uno che – essendo egli scrittore – non dovrebbe mai essere preso ad esempio di capacità letterarie da nessuno, per non combinare chissà quali pasticci narrativi!
E in effetti non mi pare che vi sia in circolazione qualche altro autore di letteratura il cui stile assomigli a quello di Robbins, almeno del quale me ne sia giunta nozione e in base alle letture compiute da quando riconosco le lettere dell’alfabeto fino ad oggi. Qualcuno anche più folle l’ho letto, certo, ma a suo modo e con altro stile, certamente non assimilabile alla scrittura dell’autore americano. Coscine di Pollo (B.C.Dalai Editore 2010, traduzione di Bernardo Draghi; orig. Skinny Legs and All, 1999), mi sembra una prova lampante di quanto ho affermato e ribadito poco sopra, che va peraltro ad aggiungersi alle altre disponibili – leggasi, agli altri romanzi editi. Basterebbe solo accennare alla trama del romanzo, per sostenere con già scarsi dubbi ciò che ho scritto: prendete Ellen Cherry Charles, pittrice piuttosto talentuosa ma poco convinta dei propri mezzi; sposatela con Boomer Petway, operaio saldatore piuttosto rozzo; mandateli in giro per l’America con un camper al quale lo sposo ha dato fattezze di un tacchino (!) con direzione New York City, dove Ellen Cherry vorrebbe tentare di diventare artista vera e, soprattutto celebrata; fate che, per una serie di bizzarri eventi, sia il camper-tacchino di Boomer ad essere considerato un’opera d’arte, e venduta per una cifra esorbitante da una gallerista newyorkese, così esorbitante che Ellen Cherry tema che la gallerista stessa sia divenuta l’amante del marito-ignaro neoartista, e dunque fate che il matrimonio tra i due vada in crisi, anche perché in crisi ci finisce Ellen Cherry, incapace di capire come sia successo che sia diventato Boomer, il marito saldatore che non sa nulla di nulla di arte, un artista e non lei, con tutto il suo talento…

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L’emblematico fallimento di Dalai Editore, ovvero: il palazzo dell’editoria nostrana è sempre più pericolante…

Non solo intonaco e calcinacci: ora nel palazzo dell’editoria nostrana crollano pure i primi pilastri… Se una crisi economica a dir poco drammatica attanaglia la nostra società, è inutile rimarcare nuovamente che nell’editoria tale crisi è, se possibile, anche peggiore, sia dal punto di vista pratico e sia nel principio, per come qui si palesi tristemente bene l’assoggettamento della cultura diffusa al sistema finanziario che sta facendo vacillare il mondo – o almeno la nostra parte di esso.
Ma se fino ad oggi la crisi del mercato editoriale – ovvero, in soldoni, delle vendite di libri – ha colpito inevitabilmente e inesorabilmente le piccole case editrici – i suddetti “calcinacci” –  logicamente troppo deboli per reggere il pur minimo dissesto economico, ora cominciano a crollare i primi pilastri portanti: nello specifico un nome glorioso dell’editoria italiana, Dalai – ex Baldini&Castoldi – che lo scorso giugno ha presentatodomanda prenotativa di concordato preventivo”, affittando a terzi l’azienda “a termini e condizioni che assicurino la continuità delle pubblicazioni, della distribuzione e dell’uso dello storico marchio”. Tuttavia pare che la domanda di concordato non sia stata accettata, per via delle disastrate condizioni economiche in cui versa l’azienda; per la casa editrice milanese si prospetta dunque il fallimento, con riapertura sotto il nome di “Baldini&Castoldi srl” e previa svendita dei diritti sui principali autori del catalogo al fine di fare il più possibile “cassa” – e in effetti Giorgio Faletti e Aldo Busi, per fare due nomi “importanti” del suddetto catalogo, sono già passati con Rizzoli.

DalaiEditore_logo
Insomma, non siamo al collasso delle fondamenta (ovvero i quattro grandi gruppi editoriali che da soli controllano il 70% del mercato: nell’ordine Mondadori, Rizzoli, Mauri Spagnol e Feltrinelli), ma di certo Dalai era un bel pilastro dell’edificio editoriale italiano. Tuttavia il suo crollo non fa che palesare assai bene la debolezza dell’intero palazzo, e quanto pure le suddette fondamenta, che forse il grande pubblico crede solide e potenti, siano in realtà sempre più fragili: Rcs, per fare un esempio, ha messo nel bilancio 2012 debiti per mezzo miliardo di euro, cifra che nella situazione di mercato attuale potrebbe rappresentare una gran mazzata sulle tibie pure per il gigante più possente. Ma anche gli altri grandi, sappiatelo, non sono messi affatto bene, nonostante i propri mirabolanti best-sellers da (a sentir loro) milioni di copie vendute…
Ora, al di là del fatto specifico – nonché della solita analisi sullo stato deprimente della lettura in Italia – e analizzando invece la sua emblematicità, alcune considerazioni sorgono spontanee riguardo i possibili scenari del mercato editoriale futuro prossimo. In primis, il pericolo di accrescimento della già effettiva condizione oligopolistica del mercato, con i pesci grossi che via via mangiano quelli più piccoli (o meno grossi) e con le conseguenze facilmente immaginabili (cartello, controllo dei prezzi, imposizioni editoriali e commerciali…); inutile dire che – la storia economica insegna – il passo tra oligopolio e monopolio è sempre molto breve. Poi, l’evidente incapacità del sistema editoriale italiano di sfruttare al meglio (ovvero anche a proprio vantaggio) l’evoluzione tecnologica dell’ebook, troppo spesso soffocata da vendite di titoli digitali a prezzi assurdi, di solo pochi euro inferiori alle copie cartacee. Inoltre, se il caso Dalai fosse realmente e malauguratamente il primo di una più o meno lunga serie, non è nemmeno remoto il rischio di soffocamento dell’intero mercato, dacché non è detto che i giganti dell’editoria (quasi sempre rami d’azienda di gruppi industriali e finanziari “superiori”), eventualmente diventati ancora più grandi con l’assorbimento degli editori in crisi, restino immuni da ulteriori sconvolgimenti economici futuri o da altre “operazioni” finanziarie che ne minino alla base la naturale mission
Ma, per finire, penso ad un altro scenario, tanto inopinato quanto, forse, non così fantascientifico, ovvero che dalla crisi dei grandi ne traggano un proficuo vantaggio i piccoli e medi editori indipendenti, quelli che dai grandi vengono fondamentalmente ignorati, considerati come innocui moscerini da spiaccicare solo quando osano infastidirli, quelli che non devono mantenere enormi strutture aziendali, che non hanno obblighi di dividendi da riconoscere ad affamati azionisti, quelli che, certamente, tirano a campare, spesso con difficoltà estrema, ma lo sanno fare anche meglio di altri grazie al semplice pragmatismo quotidiano della tipica artigianalità italiana – quelli che, soprattutto e alla faccia dei grandi e “nobili” editori e dei loro best-sellers da infinite copie che tuttavia – ma guarda, chissà come mai! – la buona editoria la stanno uccidendo, producono e diffondono ancora letteratura, quella autentica, pubblicando veri libri e non beni di consumo da ipermercato. Fanno ancora cultura, in poche parole, non mero merchandising consumistico.
Lo so bene, con questa devastante situazione di crisi e di sbando culturale tante piccole realtà editoriali ci hanno lasciato e ci lasceranno la pelle, tuttavia, ribadisco, non è detto che, proprio perché piccole e indipendenti, ovvero non legate ai distorti sistemi industriali e finanziari su cui si appoggiano i grandi editori, alla fine ne escano meglio. Sì, insomma, se un pilastro crolla è ben difficile sostituirlo, anzi, è facile che tutto il palazzo finisca per collassare; l’intonaco, invece, lo si può anche rinnovare e rabboccare, quando prende a sfaldarsi! D’altronde, se dobbiamo considerare la qualità letteraria generale di buona parte delle proposte dei grandi editori rispetto ai cataloghi di molti piccoli, beh, innegabilmente questi il confronto l’hanno vinto già da un bel pezzo.