[La nuova seggiovia “Altavista” di Livigno. Immagine tratta da “La Provincia-UnicaTV“.]Durante l’inaugurazione della nuova seggiovia Altavista a Livigno, avvenuta domenica 14 dicembre, il presidente di Skipass Livigno, Giorgio Zini, ha dichiarato: «Da qui vediamo le montagne del Bormiese e dell’Engadina e sogno un giorno il collegamento anche con questi versanti sciistici». Il presidente Zini fa riferimento da una parte al progetto di collegamento sciistico tra Livigno e i comprensori intorno a Bormio, rilanciato di recente in un evento di Confindustria di Como, Lecco e Sondrio e sul quale ho scritto qui in merito alle moltissime criticità che lo rendono quasi utopico, e dall’altra all’idea di collegamento questa volta ferroviario (quello sciistico è impossibile) tra la valle di Livigno e l’Engadina, da tempo agognato dai primi e molto meno dai grigionesi.
Tuttavia, anche al netto di questi aspetti che non a caso rendono un “sogno” i due collegamenti, fa pensare l’atteggiamento assolutamente no limitsche manifestano – per bocca dei loro rappresentanti – questi pur già grandi comprensori sciistici, certamente attrattivi e dunque “di successo”, turisticamente parlando, ma per i quali sembra che la realtà di fatto non possa mai bastare, che si debba continuamente pensare a ingrandirsi, a espandersi, a superare ogni limite fino a quel punto raggiunto in barba a qualsiasi rispetto e attenzione (non solo ambientale e paesaggistica) verso i territori che verrebbero coinvolti. Ovvero, di contro, dimostrando come il loro apparente successo sia in realtà una sorta di tossicodipendenza turistica e consumistica in forza della quale occorra sempre fare di più: un castello tanto imponente e sfavillante quanto fatto di carte che potrebbe crollare da un momento all’altro, al primo colpo di vento traverso e cioè con qualche variabile negativa che ne infici la sostenibilità economico-finanziaria e/o, di rimando, l’attrattività turistica.
[Il versante Mottolino/Trepalle del comprensorio sciistico di Livigno, dal quale passerebbe il collegamento verso il bormiese, il 15 dicembre alle 13.40. Immagine tratta da qui.]Come si possono conciliare soggetti economici del genere, con i loro interessi particolari, le loro pretese e la visione totalitaria che impongono ai territori ove operano, con la realtà ecologica e ecosistemica attuale e futura delle montagne, con la necessità di preservarne le valenze ambientali, naturalistiche, paesaggistiche come peraltro la Costituzione impone, con la crisi climatica in divenire costante, con la sensibilità crescente delle persone verso questi aspetti della frequentazione ludico-ricreativa delle montagne? Perché è così impossibile per loro “accontentarsi” di quel tantissimo che già hanno e devono pretendere sempre di più, come veramente fossero in preda a una patologia di qualche genere?
Mi sembra che ormai qui si sia ben oltre la più ragionevole etica imprenditoriale, anche di quella maggiormente intraprendente. Tanto più che di mezzo non c’è un spazio libero da riempire di “cose” finché ce ne stanno, ma territori montani di grande bellezza, ambienti naturali preziosi e delicati, patrimoni collettivi di inestimabile valore culturale dei quali non si può pensare si poter fare ciò che si vuole in base ai propri interessi particolari. Non si può, punto.
P.S. – Pre Scriptum: vi avviso, è un post parecchio lungo, ma anche necessariamente lungo. Se lo leggerete capirete perché lo sia.
[Veduta della conca di Bormio verso nord, in pratica verso la zona di Livigno, da Cima Bianca, punto più elevato degli impianti bormini. Immagine tratta da www.travellingwithvalentina.com.]Il 29 settembre scorso è stato presentato lo “Studio Strategico Territoriale” riguardante l’area del Lario, della Valtellina e della Valchiavenna, realizzato dalla European House Ambrosetti e richiesto da Confindustria Lecco e Sondrio e Confindustria Como; ne vedete la copertina qui sotto. Uno studio, molto interessante e ricco di passaggi apprezzabili, che presenta lo stato di fatto dell’area in questione – tra le più significative delle Alpi italiane – sotto diversi punti di vista nonché le azioni prioritarie e i progetti-guida per realizzare scenari strategici innovativi, anche alla luce degli imminenti Giochi Olimpici invernali di Milano-Cortina 2026.
[Cliccate sull’immagine per leggere e scaricare lo Studio in formato pdf.]Detto ciò, nel leggere i resoconti della presentazione sulla stampa (questo, ad esempio), un passaggio ha subitamente e inevitabilmente attirato la mia attenzione più di altri: quello relativo alla proposta di realizzare «un unico comprensorio sciistico in Valtellina interconnesso e di livello internazionale». Ho dunque recuperato lo Studio Strategico Territoriale: la proposta in questione è la 5B (a pagina 179), il cui titolo è “Portare alla piena realizzazione del progetto di integrare gli impianti sciistici dell’Alta Valtellina in un unico comprensorio sciistico interconnesso e di livello internazionale”. Di seguito il testo della proposta:
L’Alta Valtellina, già meta turistica di prestigio, necessita di rafforzare la propria competitività rispetto ai grandi comprensori alpini europei attraverso un progetto di integrazione degli impianti sciistici. L’obiettivo è creare un unico comprensorio interconnesso che colleghi Livigno, Bormio, Santa Caterina Valfurva e Cima Piazzi – San Colombano, ampliando l’area sciabile dagli attuali 200 km a circa 315 km di piste, grazie alla realizzazione di 10 nuovi impianti. Questo intervento consentirebbe di attrarre un turismo internazionale di fascia medio-alta, aumentare la permanenza media dei visitatori e destagionalizzare l’offerta con attività estive come escursionismo e mountain bike.
Il progetto, che potrebbe essere lanciato in occasione delle Olimpiadi Invernali 2026 e consolidato per i Giochi Olimpici Giovanili 2028, rappresenterebbe una legacy duratura per il territorio. Oltre a migliorare la mobilità interna e favorire l’uso sostenibile degli impianti tutto l’anno, l’iniziativa rafforzerebbe la resilienza del turismo locale rispetto al cambiamento climatico, grazie alle quote elevate delle stazioni sciistiche valtellinesi. A medio-lungo termine, sono previste ulteriori opportunità di collegamento con aree svizzere (Saint Moritz e Splügen) e investimenti in ricettività, soprattutto in Valdidentro, per accogliere i flussi turistici attesi e consolidare l’Alta Valtellina come polo internazionale dello sport e del turismo alpino.
La proposta viene poi sviluppata in diverse altre parti dello Studio, che ho analizzato. In buona sostanza, rilancia l’idea già ventilata da tempo di creare il suddetto comprensorio sciistico unico, che qualcuno vorrebbe addirittura ampliare alla Valle Camonica con il collegamento agli impianti del comprensorio “Adamello Ski” attraverso il Passo del Gavia. Nello Studio la proposta è sì sviluppata seppur in chiave ipotetica, ma comunque contiene numerosi passaggi che trovo discutibili se non del tutto errati, il che la rende piuttosto significativa della visione di sviluppo dei territori montani che sovente viene presentata da soggetti di natura economica: una visione parecchio superficiale, decontestuale e a volte alienata (e alienante) rispetto ai territori stessi.
[Veduta del comprensorio sciistico di Bormio, tratta da facebook.com/bormioski.]Analizzo di seguito alcuni dei passaggi più “interessanti” dello Studio.
A pagina 180: «L’iniziativa per integrare gli impianti sciistici dell’Alta Valtellina si propone di raggiungere obiettivi di ampio respiro, quali: lo sviluppo economico integrato, mirato non solo a incrementare il turismo invernale ma anche a destagionalizzare l’offerta turistica, generando così maggiori ricadute economiche per le imprese locali. L’aumento della competitività, attraverso la creazione di un comprensorio sciistico di rilevanza nazionale e internazionale, in grado di attrarre un pubblico più ampio grazie a un’offerta coordinata e di alto livello.» Al netto della bontà o meno delle motivazioni qui addotte per sostenere la proposta, si tratta della riproposizione delle solite cose che in tali circostanze vengono citate, compresi alcune locuzioni ormai di moda come «destagionalizzare l’offerta turistica», che ancora nessuno ha capito cosa voglia veramente dire se non, tempo, semplicemente il riproporre il modello turistico massivo invernale anche nel resto dell’anno. Inoltre è evidente che tale proposta mantenga preponderante l’offerta turistica sciistica – anche perché è ovvio che non tutti gli impianti di risalita al servizio dei comprensori sciistici invernali possono garantire una fruibilità anche quando la neve non c’è più – e quindi non è per nulla chiaro come si possa parlare di «obiettivi di ampio respiro» e «sviluppo economico integrato»: integrando ogni cosa locale con l’economia prettamente sciistica, forse, ma così rendendo il territorio ancor più “ostaggio” di essa e delle sue dinamiche. E, visto che si parla di “sviluppo economico integrato”, un reale «aumento della competitività» territoriale è conseguibile solo con un progetto organico rispetto a ogni economia locale, non soltanto di quella legata al turismo che ovviamente godrà di «maggiori ricadute economiche»: già, ma le altre attività? Che fine faranno?
Sempre a pagina 180: «La promozione della sostenibilità, che si traduce nella possibilità di ottimizzare l’uso delle risorse naturali e migliorare la gestione del territorio attraverso un approccio integrato.» Eccola qui l’altrettanto immancabile parolina magica, “sostenibilità”! Che l’infrastrutturazione sciistica possa «ottimizzare l’uso delle risorse naturali e migliorare la gestione del territorio attraverso un approccio integrato» è ormai qualcosa a cui non crede più nessuno che non sia coinvolto per propri interessi nell’industria dello sci – il che non significa che non sia possibile, ma che non c’è (a parte rari casi) l’interesse nei gestori dei comprensori a perseguire tale fine, sovente in contrasto con gli scopi di efficienza turistico-commerciale dei comprensori stessi. Come rimarco spesso, ormai per rendere “sostenibili” certi progetti basta scrivere da qualche parte nella loro presentazione che sono sostenibili. Se lo siano veramente e come facciano a esserlo veramente, al solito, non è dato sapersi.
A pagina 181: «L’obiettivo è quello di completare i collegamenti degli impianti sciistici dell’Alta Valtellina, riunendo in un unico comprensorio territoriale le ski aree di Bormio, Santa Caterina Valfurva, Cima Piazzi – San Colombano e Livigno. Tale intervento, oltre a generare un ampliamento significativo dell’area sciabile, renderebbe la zona competitiva rispetto ad altre destinazioni del Nord Italia o del Centro Europa, promuovendo al contempo un utilizzo della valle per tutto l’anno. In inverno, l’offerta si concentrerebbe su sci e sport outdoor, mentre in estate verrebbero incentivate attività quali mountain bike ed escursionismo. Inoltre, gli impianti di risalita non solo faciliterebbero lo spostamento di turisti e residenti tra le diverse aree, anche su terreni complessi, ma rappresenterebbero uno strumento di mobilità sostenibile durante tutto l’anno.» Tutte cose interessanti tanto quanto piuttosto aleatorie ovvero discutibili. Sulla competitività effettiva di un tale comprensorio ci torno più avanti; inquieta invece da subito l’idea esposta che i nuovi impianti di risalita incentiverebbero l’attività escursionistica:ma questa non si fa camminando, piuttosto di fruire di seggiovie e funivie? Tuttavia, inutile rimarcarlo, è vero che un certo tipo di turismo massificato che alla montagna autentica è molto poco interessato fruisce volentieri degli impianti di risalita, con le conseguenze che già da tempo si registrano un po’ ovunque sulle montagne, non ultima quella dell’iperturismo. Ma che visione del turismo montano è, questa? Inoltre mi sembra altrettanto fantasioso che «gli impianti di risalita non solo faciliterebbero lo spostamento di turisti e residenti tra le diverse aree, anche su terreni complessi, ma rappresenterebbero uno strumento di mobilità sostenibile durante tutto l’anno»: cosa potenzialmente vera ma già smentita dall’esempio delle Dolomiti, eppoi quanto impiegherebbe un turista per andare da Bormio a Livigno usufruendo degli impianti invece che della propria auto? Il doppio del tempo, o il triplo? Certo non avrebbe il problema di trovare parcheggio, ma resterebbe vincolato all’orario di apertura degli impianti e/o al loro esercizio: se piove? Se c’è vento forte? Se c’è nebbia, chi ci va in funivia ad ammirare il nulla? Insomma: l’idea è bella, ribadisco, ma ad oggi sostanzialmente astratta. Altra cosa critica è il collegamento tra Bormio e Santa Caterina Valfurva, che avverrebbe quasi totalmente negli ambiti territoriali protetti del Parco Nazionale dello Stelvio e dalle conseguenti normative vigenti: come la mettiamo al riguardo? Probabilmente è il caso di ricordare che proprio a Santa Caterina per i Mondiali di sci del 2005 venne realizzata una nuova pista in area tutelata del Parco, dunque dove non si poteva fare nulla di ciò, e per questo l’Italia è stata messa in mora dall’UE per la distruzione di un sito di importanza comunitaria, oltre ad aver subito numerosi esposti e ricorsi alla giustizia penale e amministrativa. Detto francamente, chi ha redatto lo Studio o ha la memoria corta oppure dimostra di non aver imparato nulla dagli errori del passato.
Ancora a pagina 181: «Guardando al medio-lungo termine, il progetto apre la strada a ulteriori sviluppi sul fronte infrastrutturale e ricettivo, tra cui: l’eventuale connessione in Valmalenco degli impianti del Valmalenco Bernina Ski Resort a Chiesa in Valmalenco con la ski area di Saint Moritz,
attraversando il ghiacciaio dello Scerscen e arrivando ai piedi del Piz Corvatsch e a Sils Maria; l’eventuale collegamento tra le aree sciabili di Splugen (Svizzera) e Madesimo, con l’obiettivo di arricchire l’offerta turistica e incrementare gli scambi tra la Regione Viamala elvetica e la Valle Spluga italiana.» Qui lo Studio, pur serioso e ben articolato, francamente si fa fantascientifico se non grottesco. Gli “ulteriori sviluppi” indicati, altrettante idee vecchie come il cucco e già cassate da tempo salvo che da certi soggetti un po’ confusi (ovvero parecchio ipocriti), sono semplicemente impossibili: per ragioni tecniche, geografiche e geologiche, ambientali, paesaggistiche, economiche, finanziarie. Il loro inserimento nello Studio, spiace dirlo, gli fa perdere un po’ di credibilità.
[La valle di Livigno e i suoi versanti sciistici. Immagine tratta da facebook.com/Livigno.]A pagina 182: «Si prevede la creazione di un grande comprensorio sciistico nell’Alta Valtellina, in grado di competere con comprensori di eccellenza come la Via Lattea-Sestriere e Cervinia-Zermatt in Italia, Les 3 Vallèes in Francia o Ski Alberg in Austria. In particolare, si prevede la realizzazione di 10 nuovi impianti che permetterebbero di collegare tutte le stazioni dell’Alta Valle, ampliando l’area sciabile di ulteriori 115 km, da sommare ai 200 km già esistenti, per trasformarsi in un comprensorio sciistico dotato di una ski area di 315 km.» Ecco, a proposito di competitività del previsto nuovo comprensorio: certo 315 km di piste sono tanti, ma la Via Lattea ha già oggi un totale di 400 km di piste e, con il recente ampliamento che include Bardonecchia, l’offerta si avvicina a 500 km di piste totali; Cervinia Zermatt ne hanno 360 km; Les 3 Vallèes ben 600 km e il comprensorio dell’Arlberg 305 km. A parte quest’ultimo, il nuovo comprensorio valtellinese sarebbe comunque più piccolo degli altri citati e di ulteriori presenti sulle Alpi: ad esempio il comprensorio franco-svizzero Le Portes du Soleil che ha 650 km di piste – ma non si può non citare pure il Dolomiti Superski con i suoi 1200 km di piste accessibili con un unico skipass. In ogni caso, al netto dei meri dati numerici – che sembrano quelli di una competizione a chi ce l’ha più grosso (il comprensorio sciistico) buona per il marketing più spregiudicato ma non per tutto il resto – il nuovo comprensorio, pur di estensione importante, non sembra dunque così tanto concorrenziale rispetto agli altri. Inoltre, si dovrebbero realizzare ben 10 nuovi impianti, quindi con un costo di svariate decine di milioni di Euro dovendo essere tutti di dimensioni e portate medio-alte (non dei semplici skilift, insomma): quanto ciò si riverbererà sul costo finale dello skipass per gli utenti del comprensorio? Quando dovranno sborsare per sciarci? Ne Les 3 Vallèes ad esempio il costo dello skipass giornaliero è di 74 Euro a persona, 60 per i bambini: sono cifre sostenibili anche nel comprensorio valtellinese? In quanti potranno permettersi di sciarci più di una o due volte a stagione? Oppure nella proposta è sottintesa la volontà di rendere il comprensorio parte di un’offerta turistica di lusso destinata solo a sciatori particolarmente benestanti (per la gran parte stranieri), con tutte le numerose conseguenze assai discutibili di una tale circostanza per la pratica “popolare” dello sci e per le sue ricadute concrete e benefiche per le comunità dei territori interessati?
Pagine 182/183: «Tale integrazione non solo aumenterebbe l’attrattività del comprensorio per sciatori internazionali, ma ridurrebbe anche l’esposizione agli impatti del cambiamento climatico, considerando che gli stabilimenti dell’Alta Valtellina si situano a quote superiori rispetto ad altri comprensori del Nord Italia (Livigno a 1.800 metri, Santa Caterina a 1.700 metri e Bormio oltre 3.000 metri). Inoltre, i collegamenti tra gli impianti favorirebbero la creazione di nuove piste, ad esempio dal Mottolino alla Valdidentro, con benefici anche per la fruizione delle aree durante i mesi estivi.» Qui ci sono informazioni palesemente errate. Livigno e Santa Caterina hanno buona parte delle loro piste oltre i 2000 metri, la quota ormai considerata il limite al di sotto del quale nel prossimo futuro la pratica dello sci non potrà più essere garantita in forza della crisi climatica in corso, il resto del comprensorio tra Bormio e Valdidentro invece no, anzi. A Bormio si scende a 1200 metri e già da tempo sulle piste basse del comprensorio si fatica ad assicurare pure la copertura della neve artificiale; tutta questa parte del comprensorio sarebbe posta sotto i fatidici 2000 metri di quota, dunque come si crede di poter realmente «ridurre l’esposizione agli impatti del cambiamento climatico»? Il rischio concreto è quello di avere un comprensorio unico a parole ma diviso nei fatti: un po’ che sciano sul lato Valfurva, un po’ su quello di Livigno e in mezzo assenza di neve e/o di condizioni accettabili per sciare. Nemmeno sparando neve artificiale a spron battuto si potrebbe assicurare la continuità sciistica se non per una manciata di giorni a stagione, ma se poi così fosse la decantata «promozione della sostenibilità, che si traduce nella possibilità di ottimizzare l’uso delle risorse naturali» (vedi il brano di pagina 180 precedentemente analizzato) che fine farebbe?
[Gli impianti di Santa Caterina Valfurva. Immagine tratta da facebook.com/SantaCaterinaValfurva.]Insomma, capirete bene che, per quanto riguarda la proposta del comprensorio sciistico Livigno-Valdidentro-Bormio-Valfurva, lo “Studio Strategico Territoriale” appare piuttosto superficiale, forzato, a volte campato per aria e, come ribadisco, fin troppo legato a una visione turistica dei territori montani di matrice economico-consumistica, con obiettivi meramente commerciali. Una visione ormai obsoleta e del tutto inadeguata già alla realtà presente e ancor più a quella prossimo-futura delle nostre montagne: per molti aspetti insostenibile, in breve. Peraltro, è molto interessante rimarcare come un altro soggetto puramente economico – anzi, tale par excellence – come la Banca d’Italia, nel proprio report del dicembre 2022 dal titolo “Climate change and winter tourism: evidence from Italy” rimarcava che «Sulla base delle principali proiezioni metereologiche disponibili, nei prossimi anni il cambiamento climatico avrà effetti rilevanti sui passaggi ai comprensori sciistici e sui pernottamenti presso le località alpine, soprattutto alle altitudini più basse. L’innevamento artificiale non sarà sufficiente a sostenere i flussi turistici.» Considerazioni alquanto antitetiche, insomma, a quelle che si leggono tra le righe dello Studio della European House Ambrosetti qui da me sviscerato.
Anzi, giusto a proposito di ecologia, ambiente, clima – tutti fattori che qualsiasi studio strategico che analizzi la realtà presente e futura dei territori montani deve inevitabilmente affrontare e integrare nelle proprie disquisizioni -, ho provato a cercare nello Studio sull’area del Lario, della Valtellina e della Valchiavenna alcune parole e locuzioni di uso comune e necessario al riguardo, per verificarne la presenza:
“Crisi climatica”: mai citata.
“Cambiamento climatico: citata 4 volte (un po’ poche in 196 pagine!).
“Cambiamenti climatici”: citata 1 sola volta.
“Riscaldamento globale”: mai citata.
“Salvaguardia ambientale”, “tutela ambientale”, “difesa ambientale”: mai citate.
“Ecologia”: mai citata.
“Paesaggio”: citata solo 2 volte.
“Ambiente naturale”: citata 1 sola volta…
…eccetera. Non credo serva continuare ancora: avete capito la “affinità” dello Studio con le tematiche legate al clima e all’ambiente. Cosa estremamente emblematica, converrete.
[Ski-map complessiva della zona tra la Valfurva, Bormio e Livigno, con i quattro comprensori coinvolti nel progetto di unione. Cliccateci sopra per ingrandirla.]Bene: mi pare che con questo studio si ricada per l’ennesima volta nella maledetta contrapposizione economia-ecologia, due parole dall’origine comune e dal significato complementare ma con la prima che puntualmente, nella nostra era moderna e contemporanea, soffoca la seconda negando qualsiasi possibile e opportuno equilibrio. Quando domina l’idea “economica” – nel senso materiale qui inteso – la montagna viene esclusivamente messa a rendita senza alcuna cura e attenzione verso il territorio, il suo ambiente e il paesaggio che lo contraddistingue, in un ottica prettamente consumistica (la montagna vale solo per quanto può rendere), mentre l’ecologia – attenzione, non il mero ambientalismo ma l’ecologia intesa nel suo significato più pieno e ampio – e gli aspetti ad essa affini sembrano rappresentare un fastidio, un impiccio, qualcosa verso cui bisogna fingere un po’ di interesse ma nel concreto da mettere da parte prima possibile.
Be’, io credo che, dal punto di vista dell’economia turistica, con tale visione che percepisco nello Studio – già accennata e “denunciata” all’inizio di questo mio testo – le nostre montagne non vadano molto lontano, anzi, rischino concretamente di ritrovarsi prima di nuovo illuse e poi concretamente defraudate delle proprie specificità, delle possibilità e del proprio futuro. Alle montagne serve una visione molto più ampia, obiettiva, strutturata, organica e consapevole, che faccia del loro sviluppo non solo uno strumento di progresso economico ma soprattutto ecologico, culturale, sociale, comunitario – la comunità al centro: ecco un’altra assenza fondamentale nello Studio! –, politico, civico, ambientale. Mi sembra che ancora cioè nemmeno questa volta ci siamo, purtroppo.
[Immagine tratta da www.parconazionale-stelvio.it.]La notizia del gipeto morto per aver urtato i cavi di un impianto sciistico di Santa Caterina Valfurva, nel territorio del Parco Nazionale dello Stelvio è profondamente triste. Il gipeto è una specie a rischio: estinto sulle Alpi all’inizio del Ventesimo secolo, è stato reintrodotto di recente nel Parco dello Stelvio ma ce ne sono solo dieci coppie in totale, delle quali sei nel settore lombardo. Dunque anche la perdita di un solo esemplare rappresenta un fatto grave.
Chiaramente è stato un incidente non prevedibile e poco evitabile: la problematica delle collisioni fra avifauna e cavi di impianti di risalita è ormai risaputa e coinvolge ogni specie che vive nei territori sciistici. Nonostante ciò, immagino che il caso solleverà qualche protesta, legittima tanto quanto sterile, temo: al netto di qualche sistema di protezione non so quanto efficace, o si tolgono i cavi degli impianti di risalita o si tolgono gli uccelli dai comprensori sciistici. Entrambe soluzioni impossibili, ovvio.
Semmai, la questione di fondo che il caso mette in luce, questa sì ben concreta, è se sia accettabile nel principio che il territorio di un parco nazionale possa ospitare degli impianti sciistici come è proprio il caso del comprensorio di Santa Caterina Valfurva oltre a quelli di Solda e di Trafoi, nel settore altoatesino, di Peio nel settore trentino e del Passo dello Stelvio, a cavallo tra Lombardia e Alto Adige. Certamente gli impianti sono lì da decenni e godono di particolari deroghe per sussistere all’interno dei confini del parco: si tratta dunque di un “peccato originale”, dal momento che il Parco era lì da prima degli impianti i quali, semmai, non dovevano essere autorizzati in origine, appunto.
Fatto sta che la questione resta intatta e semmai acquisisce ancora più valore, oggi che la tutela dei territori montani sottoposti più di altri agli effetti della crisi climatica è imperativa e inderogabile: è logico e normale che dentro un parco nazionale, area sottoposta a tutele ambientali variamente stringenti decretate appositamente per salvaguardare fauna e flora di pregio, e a quote alte insistano infrastrutture inevitabilmente impattanti come degli impianti sciistici e le opere annesse?
Non è una domanda retorica, questa mia, ma è certamente – e consapevolmente – provocatoria, funzionale alla formulazione di una valida risposta ma ancor di più, e prima, a provocare (appunto) una riflessione sulla questione e, in generale, sull’impatto della presenza antropica nei territori montani ancora poco o per nulla contaminati – a maggior ragione se sottoposti a tutela – nonché sulla sua gestione concreta e realmente benefica per essi e per i loro abitanti. Una gestione peraltro nelle mani di chi lassù è solo un ospite: un’altra evidenza piuttosto illogica, se ci pensate bene.
P.S.: bisogna rimarcare che in Valle dell’Alpe, proprio dove il gipeto è morto, c’è addirittura un resort di lusso (!) e che nel 2005 l’Italia è stata condannata dalla Corte di giustizia europea in occasione dei mondiali di sci di quell’anno per aver allargato le piste da sci di Santa Caterina abbattendo 2.500 alberi e così aver pregiudicato la Zona di protezione speciale (Zps) del Parco. Di contro, nel 2023 il progetto di nuovi impianti e piste da sci a Solda, nel settore altoatesino, è stato bocciato dal Consiglio di Stato proprio perché le nuove opere risultavano incompatibili con i valori naturalistici e paesaggistici tutelati dal Parco, nel mentre che nel settore lombardo si tentava invece di trasformare il Lago Bianco del Passo di Gavia in un bacino idrico al servizio dell’innevamento artificiale di Santa Caterina Valfurva con il silenzio-assenso del Parco, bieca vicenda assai nota e anch’essa fortunatamente risolta con il blocco dei lavori.
[La situazione a Bormio e in alta Valtellina nei momenti in cui ho scritto l’articolo qui sotto. Immagine tratta da qui.]
Slitta di una settimana, rispetto alla data preventivata, l’avvio della stagione invernale sia a Bormio che a Santa Caterina Valfurva. […] Fatta eccezione per Livigno, il resto del comprensorio dell’Alta Valle ha posticipato l’avvio di stagione causa le scarse precipitazioni e le condizioni meteo dei giorni scorsi. «Questa decisione – hanno sottolineato da Bormio SKI – non è stata presa a cuor leggero, ma è dettata dalle condizioni meteorologiche attuali e dalle previsioni meteo dei prossimi giorni. Le temperature non consentono di garantire un innevamento sufficiente per offrire un’esperienza soddisfacente e all’altezza dei nostri standard. Le mancate precipitazioni autunnali, il clima particolarmente mite non hanno permesso di innevare e preparare adeguatamente le piste da sci della ski area […].
Come testimoniato dai passaggi che avete letto qui sopra di questo articolo de “La Provincia-UnicaTV”, si fa ogni anno più dura la vita dei gestori dei comprensori sciistici alle prese con gli effetti della crisi climatica, che rendono l’industria dello sci precaria – quando già ora non più sostenibile e non tanto (o non solo) in senso ambientale quanto economico – proprio per la scomparsa delle condizioni necessarie al suo sostentamento. Se per certi versi è apprezzabile lo sforzo degli impiantisti atto alla sopravvivenza della propria attività, per altri versi sconcerta la mancanza manifesta della presa di coscienza riguardo la realtà attuale e futuro prossima. Una cosa che viene ben dimostrata dal recente rapporto commissionato dall’Anef – l’associazione degli impiantisti italiani – sull’impatto socio-economico dello sci: non una parola viene spesa sulla situazione climatica in corso, sulla sua evoluzione futura e circa le conseguenze che avrà sull’industria sciistica. Un rapporto tanto ricco di dati interessanti quanto del tutto inutili perché già privi di alcun valore concreto, in pratica.
Intanto il clima continua a cambiare, di neve sotto i 2000 metri ne cade sempre meno venendo sostituita da quella “tecnica” che costa sempre di più ma che viene frequentemente fusa dalle temperature in aumento, la durata delle stagioni sciistiche diminuisce, i prezzi degli skipass lievitano, la gente di conseguenza scia sempre di meno preferendo fare altro in montagna, dalle passeggiate al wellness all’enogastronomia. Lo sci in buona parte delle località ove si pratica ha il destino segnato, e se non è pensabile fermare tutto di colpo, è inammissibile che ancora così poco si pensi alla conversione turistica verso attività ben più consone ai luoghi, ai tempi e alla realtà, e ciò solo nel tentativo di difendere interessi ormai indifendibili. Perché è ovvio che i gestori dello sci la conoscono bene, la situazione in corso, ma preferiscono voltarsi dall’altra parte e provare a far finta di nulla: è come se stessero sui binari guardando dalla parte opposta a quella dalla quale sta arrivando il treno.
Finirà, forse, che arriveranno le montagne, le comunità che le abitano e chi le frequenta consapevolmente a cambiare le cose ben prima che la politica, gli impiantisti e i soggetti che gestiscono il turismo. Sta già accadendo, in effetti, ma non c’è peggior cieco di chi non vuol vedere, dice il noto proverbio.
[Foto di tunechick83 da Pixabay.]Probabilmente numerosi di voi conosceranno la storia delLago d’Aral, ne avranno letto da qualche parte o visto le inquietanti immagini che la testimoniano.
In passato il Lago o Mare di Aral (definizione adottata della lingua inglese, Aral Sea), che si trova in Asia centrale tra l’Uzbekistan e il Kazakistan, era il quarto lago più esteso del mondo (circa 100mila kmq) al punto da essere definito “mare”, appunto. Oggi è ridotto al 10% della sua estensione originaria, persa in meno di 50 anni a causa dei prelievi massicci delle acque dei suoi immissari decisi a partire dagli anni Sessanta dall’allora governo sovietico per coltivare a cotone il deserto. Privato di gran parte dell’apporto dei corsi d’acqua che vi confluivano, il Lago d’Aral ha iniziato a ridursi progressivamente per la forte evaporazione: le acque si sono ritirate in tre bacini residui, lasciando una distesa arida, sabbiosa e salata (chiamata oggi deserto Aralkum), intrisa di residui di pesticidi provenienti dalle colture. La fiorente economia legata alla pesca è andata distrutta: nei bacini rimasti, la salinità era così elevata che i pesci sono quasi del tutto scomparsi. Uno dei più grandi disastri ecologici della storia umana, insomma.
Le immagini del Lago d’Aral che probabilmente avrete visto e che vi saranno risultate più emblematiche al riguardo, oltre a quelle aeree e satellitari che evidenziano la sparizione delle sue acque, sono di sicuro quelle delle numerose navi rimaste in secca nei porti scomparsi o adagiate in abbandono su quello che fino a qualche decennio fa era il fondale sottomarino e ora è il deserto Aralkum.
Inutile rimarcare che da tempo, e tanto più oggi, da quelle parti nessuno ha più pensato di spendere soldi per costruire nuove navi che possano solcare le acque dell’Aral, visto che di acqua nel lago non ce n’è praticamente più.
Be’, quando leggo sui media titoli e notizie come che vedete qui sopra (fateci clic per leggerla), mi viene in mente la storia del Lago d’Aral, già.
Cioè di quando nel bacino un po’ di acqua ce n’era ancora ma molto meno rispetto a un tempo e si era ormai compresa la sorte inesorabile che il lago avrebbe subìto. Al punto che laggiù non vi si costruirono più imbarcazioni ne piccole ne grandi che lo potessero navigare, come detto. Avrebbe significato buttare una gran quantità di soldi al vento, in buona sostanza. Come avreste guardato, e cosa avreste pensato, nel vedere qualcuno varare nel basso e irregolare fondale salmastro superstite di quello che un tempo era l’Aral un maxi-yacht, pure alquanto lussuoso, del costo di svariati milioni per giunta di origine pubblica?
Una follia, in buona sostanza.
Ecco. A leggere le suddette frequenti notizie, sembra che qui sì, se ne vogliono costruire ancora e parecchie di “grandi navi” nonostante l’acqua, nella forma cristallina che ricopriva e imbiancava le montagne al punto che un tempo si potevano facilmente definire un “mare” di neve, stia ugualmente diminuendo sempre di più, purtroppo. Già.