L’emblematico fallimento di Dalai Editore, ovvero: il palazzo dell’editoria nostrana è sempre più pericolante…

Non solo intonaco e calcinacci: ora nel palazzo dell’editoria nostrana crollano pure i primi pilastri… Se una crisi economica a dir poco drammatica attanaglia la nostra società, è inutile rimarcare nuovamente che nell’editoria tale crisi è, se possibile, anche peggiore, sia dal punto di vista pratico e sia nel principio, per come qui si palesi tristemente bene l’assoggettamento della cultura diffusa al sistema finanziario che sta facendo vacillare il mondo – o almeno la nostra parte di esso.
Ma se fino ad oggi la crisi del mercato editoriale – ovvero, in soldoni, delle vendite di libri – ha colpito inevitabilmente e inesorabilmente le piccole case editrici – i suddetti “calcinacci” –  logicamente troppo deboli per reggere il pur minimo dissesto economico, ora cominciano a crollare i primi pilastri portanti: nello specifico un nome glorioso dell’editoria italiana, Dalai – ex Baldini&Castoldi – che lo scorso giugno ha presentatodomanda prenotativa di concordato preventivo”, affittando a terzi l’azienda “a termini e condizioni che assicurino la continuità delle pubblicazioni, della distribuzione e dell’uso dello storico marchio”. Tuttavia pare che la domanda di concordato non sia stata accettata, per via delle disastrate condizioni economiche in cui versa l’azienda; per la casa editrice milanese si prospetta dunque il fallimento, con riapertura sotto il nome di “Baldini&Castoldi srl” e previa svendita dei diritti sui principali autori del catalogo al fine di fare il più possibile “cassa” – e in effetti Giorgio Faletti e Aldo Busi, per fare due nomi “importanti” del suddetto catalogo, sono già passati con Rizzoli.

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Insomma, non siamo al collasso delle fondamenta (ovvero i quattro grandi gruppi editoriali che da soli controllano il 70% del mercato: nell’ordine Mondadori, Rizzoli, Mauri Spagnol e Feltrinelli), ma di certo Dalai era un bel pilastro dell’edificio editoriale italiano. Tuttavia il suo crollo non fa che palesare assai bene la debolezza dell’intero palazzo, e quanto pure le suddette fondamenta, che forse il grande pubblico crede solide e potenti, siano in realtà sempre più fragili: Rcs, per fare un esempio, ha messo nel bilancio 2012 debiti per mezzo miliardo di euro, cifra che nella situazione di mercato attuale potrebbe rappresentare una gran mazzata sulle tibie pure per il gigante più possente. Ma anche gli altri grandi, sappiatelo, non sono messi affatto bene, nonostante i propri mirabolanti best-sellers da (a sentir loro) milioni di copie vendute…
Ora, al di là del fatto specifico – nonché della solita analisi sullo stato deprimente della lettura in Italia – e analizzando invece la sua emblematicità, alcune considerazioni sorgono spontanee riguardo i possibili scenari del mercato editoriale futuro prossimo. In primis, il pericolo di accrescimento della già effettiva condizione oligopolistica del mercato, con i pesci grossi che via via mangiano quelli più piccoli (o meno grossi) e con le conseguenze facilmente immaginabili (cartello, controllo dei prezzi, imposizioni editoriali e commerciali…); inutile dire che – la storia economica insegna – il passo tra oligopolio e monopolio è sempre molto breve. Poi, l’evidente incapacità del sistema editoriale italiano di sfruttare al meglio (ovvero anche a proprio vantaggio) l’evoluzione tecnologica dell’ebook, troppo spesso soffocata da vendite di titoli digitali a prezzi assurdi, di solo pochi euro inferiori alle copie cartacee. Inoltre, se il caso Dalai fosse realmente e malauguratamente il primo di una più o meno lunga serie, non è nemmeno remoto il rischio di soffocamento dell’intero mercato, dacché non è detto che i giganti dell’editoria (quasi sempre rami d’azienda di gruppi industriali e finanziari “superiori”), eventualmente diventati ancora più grandi con l’assorbimento degli editori in crisi, restino immuni da ulteriori sconvolgimenti economici futuri o da altre “operazioni” finanziarie che ne minino alla base la naturale mission
Ma, per finire, penso ad un altro scenario, tanto inopinato quanto, forse, non così fantascientifico, ovvero che dalla crisi dei grandi ne traggano un proficuo vantaggio i piccoli e medi editori indipendenti, quelli che dai grandi vengono fondamentalmente ignorati, considerati come innocui moscerini da spiaccicare solo quando osano infastidirli, quelli che non devono mantenere enormi strutture aziendali, che non hanno obblighi di dividendi da riconoscere ad affamati azionisti, quelli che, certamente, tirano a campare, spesso con difficoltà estrema, ma lo sanno fare anche meglio di altri grazie al semplice pragmatismo quotidiano della tipica artigianalità italiana – quelli che, soprattutto e alla faccia dei grandi e “nobili” editori e dei loro best-sellers da infinite copie che tuttavia – ma guarda, chissà come mai! – la buona editoria la stanno uccidendo, producono e diffondono ancora letteratura, quella autentica, pubblicando veri libri e non beni di consumo da ipermercato. Fanno ancora cultura, in poche parole, non mero merchandising consumistico.
Lo so bene, con questa devastante situazione di crisi e di sbando culturale tante piccole realtà editoriali ci hanno lasciato e ci lasceranno la pelle, tuttavia, ribadisco, non è detto che, proprio perché piccole e indipendenti, ovvero non legate ai distorti sistemi industriali e finanziari su cui si appoggiano i grandi editori, alla fine ne escano meglio. Sì, insomma, se un pilastro crolla è ben difficile sostituirlo, anzi, è facile che tutto il palazzo finisca per collassare; l’intonaco, invece, lo si può anche rinnovare e rabboccare, quando prende a sfaldarsi! D’altronde, se dobbiamo considerare la qualità letteraria generale di buona parte delle proposte dei grandi editori rispetto ai cataloghi di molti piccoli, beh, innegabilmente questi il confronto l’hanno vinto già da un bel pezzo.

12 pensieri riguardo “L’emblematico fallimento di Dalai Editore, ovvero: il palazzo dell’editoria nostrana è sempre più pericolante…”

  1. E’ vero: ciò che i grandi editori pubblicano per fare cassa (non solo da risonanza) ha abbassato notevolmente, negli ultimi anni, l’asticella della letteratura e della saggistica in Italia. Tuttavia, nei loro vasti cataloghi si annidano opere e traduzioni altrimenti difficili da “sostenere” e divulgare per un’editoria medio piccola.
    La quale, del resto, fa anche troppo bene il suo lavoro, puntanto alla qualità non meno che alla libertà (termine drammaticamente scomparso dal lessico di tanti liberali nostrani) della letteratura.
    Il mio pessimismo mi porta a dire che da una crisi ancor più drammatica non si salverebbe nessuno.

    1. Beh, guarda, il tuo è un pessimismo che mi riesce difficile non comprendere e condividere… Per carità, non è che i grandi editori siano il male assoluto e i piccoli tutti candidi angeli: tu hai ragione a sostenere quanto hai scritto su certe opere di difficile sostenibilità per la piccola editoria. Tuttavia, appunto, la situazione che si è venuta a creare, e che non sembra poter migliorare a breve (anche se ovviamente dobbiamo sperare in un inopinato contrario!) non è che la zappata sui piedi che proprio i grandi nomi dell’editoria nostrana si sono tirati, quando hanno deciso di assoggettarsi alle regole bieche e distorte del mercato (finanziario) dimenticando di NON essere una normale azienda – una che produce saponette, bulloni o mutande! – ma un effettivo presidio culturale, ergo non capendo che, forse, quelle regole non sono così ben applicabili all’editoria e la loro dannosità produce effetti ben più tremendi che in altri comparti.
      E’ vero, gli italiani non leggono libri e la cultura, qui, è da troppa gente ritenuta una futilità, ma è anche vero che c’è qualcosa che non va nell’editoria nostrana, e non è detto che se gli italiani leggessero di più non ci manifesterebbero gli stessi problemi…
      Grazie di cuore del tuo commento! 🙂

  2. Condivido l’interesse e la preoccupazione per lo stato dell’editoria in Italia. Concordo sul concreto rischio rappresentato dal fallimento di un editore importante come Baldini Castoldi Dalai, non credo che riveli prospettive vantaggiose proprio per nessuno, se non nell’immediato (e nell’immediato solo per chi sia in grado di accaparrarsi a prezzi stracciati i diritti di alcuni autori). Se la tendenza dovesse radicalizzarsi si rischia l’oligopolio (che di fatto già c’è) e, seppure è vero che si potrebbero aprire nuovi spazi per l’editoria medio-piccola — spazi che, attenzione, le major stanno facendo di tutto perché non si aprano, è di appena due anni fa lo storico sorpasso delle librerie di catena su quelle indipendenti — non so quanta fiducia avere circa la possibilità che l’ascesa di editori più piccoli possa riuscire a incidere sulle abitudini di lettura e sull’esposizione dei volumi in libreria. In ogni caso quello che mi interessa molto è sapere cosa succede quando muore un gigante del genere: che fine faranno i libri, in questa fase — in cui il sito è stato rinnovato da poco — i lavoratori che fine hanno fatto? Che vuol dire che il catalogo è stato “affittato”? È solo tutta una specie di copertura per cercare di vendere i diritti al più presto e fare per l’ultima volta cassa, o cosa?

    1. Ciao Federico, e grazie di cuore del tuo commento!
      Ovviamente non posso che essere d’accordo con le tue riflessioni; una situazione di oligopolio editoriale è già in essere, senza dubbio, solo che a differenza di altri settori (vedi quello della comunicazione radiotelevisiva) pare che lo stato di oligarchia editoriale nel quale siamo finiti non assicuri affatto maggior potere a chi lo regge e ne è parte, anzi! Sembra rappresentare soltanto un altro modo per affondare, e forse pure più tragicamente, rispetto alla piccola editoria…
      Circa gli sviluppi della questione BCD, conoscenti del settore (indipendenti, dunque non di parte!) mi hanno detto che dietro il fallimento c’è stata in effetti parecchia “filibusteria” – se mi passi il termine – dei titolari della casa editrice, oltre a una effettiva incapacità imprenditoriale… Ma dietro la “nuova” srl nata dalle ceneri della vecchia editrice a quanto pare ci sarebbero ancora loro. Insomma: società-cadavere ricolma di debiti da una parte, nuova casa editrice ripulita e immacolata dall’altra… Anche in tal caso, certe bieche strategie tipiche della finanza contemporanea sono diventate il modus operandi usuale di vecchie e (ex) nobili società culturali. Molto triste.
      Grazie ancora delle tue osservazioni! A presto! 🙂

  3. Scusatemi se semplifico troppo, ma un’azienda che ha sempre pagato male, che ha sempre pagato con ritardi da record olimpionico, e che ha trattato i suoi scrittori e i suoi traduttori (almeno in alcuni casi che conosco personalmente) con una spiccata indifferenza non è stata gestita bene e non mi sembra un modello di un bel niente. Se era un pilastro, era un pilastro alquanto friabile e forse lo sgretolamento è giusto. È un po’ per questo che non mi convince molto questo “emblematico” fallimento. Che abbiano pubblicato dei bellissimi libri non metto in dubbio, ma il discorso è un altro.

    1. Ciao, e grazie per il tuo commento!
      Capisco la tua riflessione, tuttavia il mio ragionamento si generava da una ovvia posizione (essendo il mio un blog non neccessariamente dedicato solo agli “addetti ai lavori”) da “lettore standard”, per così dire, il quale conosce la BCD come “prestigiosa e storica casa editrice italiana” e legge sui giornali che fallisce. E’ (era) un pilastro d’immagine, ma esattamente come lo sono tutti gli altri grandi editori, i quali non fatico a pensare – visto come sono a loro volta messi, in certi casi – che utilizzino gli stessi pessimi metodi gestionali della BCD (e non fatico a pensarlo anche perché ne ho testimonianze dirette, come te). Il fallimento della BCD trovo che sia emblematico in primis per il semplice motivo che, se crolla una casa editrice così considerabilmente importante, è il segno che tutto il palazzo oligarchico della grande editoria italiana può essere ugualmente fragile – esattamente come, per via della crisi nella quale siamo ancora immersi, negli ultimi anni sono fallite realtà industriali che fino a qualche mese prima si ritenevano solidissime. Che poi tali realtà, nell’editoria o altrove, crollino per imperizia imprenditoriale o per altro, non cambia la realtà dei fatti, che alla fine io riconduco a un’evidenza fondamentale: chiude un “produttore di cultura”, non uno di soprammobili o di patatine – cose delle quali potremmo tranquillamente fare a meno… Ecco, anche qui sta l’emblematicità di quanto accaduto alla BCD.

  4. Scusatemi se semplifico troppo, ma un’azienda che ha sempre pagato male, che ha sempre pagato con ritardi da record olimpionico, e che ha trattato i suoi scrittori e i suoi traduttori (almeno in alcuni casi che conosco personalmente) con una spiccata indifferenza non è stata gestita bene e non mi sembra un modello di niente. Se era un pilastro, era un pilastro alquanto friabile e forse lo sgretolamento è giusto. È un po’ per questo che non mi convince molto questo “emblematico” fallimento. Che abbiano pubblicato dei bellissimi libri non metto in dubbio, ma il discorso è un altro.

  5. Condivido il tuo articolo sul mio diario, se posso. Stimola sicuramente delle riflessioni. Al di là dell’oligopolio/monopolio mascherato, che è un problema e che è già stato sottolineato nei commenti e nel post, il mercato dell’editoria è il luogo finale ed è, appunto, mercato. Anche quello rionale (fatto di piccoli/medi artigiani venditori ambulati di propri prodotti o rivenditori di altri), crollerebbe se, per assurdo, noi tutti smettessimo di mangiare. In Italia si legge poco e quello che si legge è, spesso, Fabio Volo. Il quale, sia chiaro, non dev’essere bandito dalla letteratura, poichè ne fa pur parte, magari alla voce “letteratura di consumo”; ma è segno indelebile che l’orientamento dei lettori (che per il mercato sono e saranno sempre e solo consumatori) si muove verso quello scaffale. E, per tornare all’esempio di prima, il mercaato rionale crollerebbe anche se ai giovani non venisse mostrato ed insegnato a mangiare. I nostri ragazzi che rapporto hanno con la letteratura? Minimo. Indipendentemente dal supporto (cartaceo o informatico), i ragazzi non sanno leggere e non importa loro di leggere. Si dice che un albero che cade nella foresta non fa rumore perchè nessuno è lì ad ascoltare. Ecco, i pilastri crollano, ma rischiamo anche di fare poche vittime.

    1. Ciao filosofo79! Ma certo che puoi, e grazie di cuore per l’attenzione che gli riservi!
      Dici bene, e individui perfettamente uno dei drammi di fondo della questione: i ragazzi non sanno leggere e non importa loro di leggere, ovvero non vengono educati alla lettura, considerata soprattutto a livello istituzionale, ahinoi, un’attività secondaria se non peggio (io direi peggio, molto peggio, ma non voglio passare per catastrofista…). E, se ci pensi, è una cosa alquanto paradossale, vista la gran quantità di libri editi oggi e la facilità di reperimento, tra web, ebook, self-publishing… Tuttavia, si finisce sempre ad analizzare la questione cercando solo di trovare di chi sia la colpa di ciò: giusto, per carità, ma nel frattempo cosa si fa per riattivare l’interesse popolare (e popolano) verso la letteratura e la lettura ovvero verso la cultura in generale?
      Hai ragione: se un pilastro crolla nel nulla, rischia di fare poche vittime, ma forse anche perché quelle vittime sono già state fatte fuori altrove, da altre “armi”.

      1. Credo che l’Italia si basi – e forse giustamente – su uno dei “pilastri” nascosti della Costituzione: l’iniziativa privata (e delle associazini che di privati sono fatte). Corsi, letture, fatica, impegno, propagando, anche ideologie spicciole a volte; è così che si va avanti. Nel Rinascimento, quando la stampa di un libro era una licenza ed un privilegio (concesso da re, imperatori, vescovi wetc.) ed era dunque soggetta a censura, i libri scomodi venivano contrabbandati, stampati clandestinamente, smerciati con copertine fasulle… ecco, su questo dobiamo costruire, sull’amore e l’interesse dei singoli.

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