Jonathan Lethem, “L’Inferno comincia nel giardino”

Ho cominciato la lettura di Jonathan Lethem convinto di avere (un po’ ottusamente, lo ammetto) a che fare con uno scrittore alla Tom Robbins o alla Tom Sharpe, e invece… L’Inferno comincia nel giardino è una raccolta di racconti (edita da Minimum Fax, con la traduzione di Martina Testa) che appartengono al periodo d’esordio dello scrittore americano, per le cui narrazioni Lethem utilizza l’espediente dell’inserire, in una storia sostanzialmente normale, ovvero realistica e quotidiana, un elemento assurdo, surreale e irrazionale, che distorce quella sensazione di “normalità” altrimenti scaturente dalla lettura per porla in balìa di una dimensione piuttosto inquietante, tanto più perchè, appunto, presente in un ambito assolutamente quotidiano…

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La magia della letteratura (D. F. Wallace dixit)

Il mondo reale è pieno di solitudine esistenziale. Io non so cosa stai pensando o che cos’è che hai dentro, e tu non sai che cos’ho dentro io. Nella letteratura penso che in un certo senso riusciamo a saltare oltre questo muro. Ma questo è solo un primo livello, perché l’idea dell’intimità mentale o emotiva con un personaggio è un’illusione, un meccanismo creato dallo scrittore attraverso la sua arte. C’è anche un altro livello su cui un testo letterario diventa una conversazione. Fra il lettore e lo scrittore si instaura un rapporto che è molto strano, complicato e difficile da descrivere. Un ottimo brano di letteratura non è detto che mi catturi completamente e mi faccia dimenticare che sono seduto in poltrona. C’è della narrativa commerciale che è perfettamente in grado di riuscirci; una trama avvincente è perfettamente in grado di riuscirci: ma non mi fa sentire meno solo.
Invece c’è una specie di: “A-ha! Qualcuno almeno per un attimo la pensa come me, o vede una cosa nel modo in cui la vedo io”. Non capita sempre. Sono brevi flash, fiammate, ma ogni tanto mi capitano. E non mi sento più solo, a livello intellettuale, emotivo, spirituale. La letteratura e la poesia riescono a farmi sentire umano, a eliminare quel senso di solitudine, a mettermi profondamente e significativamente in comunicazione con un’altra coscienza, in una maniera del tutto diversa da quanto riescano a fare altre forme d’arte.

Tratto da Le perle di David Foster Wallace, di Martina Testa, uno speciale sul grande scrittore americano nel sito di Minimum Fax.
Direi con c’è ben poco da aggiungere, se non che Wallace, con queste intense parole, conferma che ove i libri e la lettura siano diffusi e amati, la società è inevitabilmente migliore, dacché chi la vive viene predisposto a sentirsene parte integrante e non un numero tra tanti, parte della massa eppure solo, appunto. E se la natura singolare dell’individuo muta in solitudine, la società ha fallito, annulando qualsiasi buona forma di civiltà. I libri invece possono salvaguardare la singolarità di ogni individuo, eppure connettendola al mondo d’intorno grazie alla condivisione delle storie narrate e lette, quasiasi esse siano: per questo, come sostiene anche Wallace, la letteratura è uno degli apici assoluti dell’evoluzione umana. Ecco perché dove si legge tanto, la società è più avanzata, più civile, più libera. Migliore, in una parola sola.
Ed ecco invece perché, se in un paese, più della metà della popolazione non legge nemmeno un libro… Oh, ma può esistere un posto tanto sfortunato?

David Foster Wallace, “Una cosa divertente che non farò mai più”

Sovente si ha l’impressione, nei casi di suicidio di personaggi pubblici e ovviamente tralasciando qualsiasi riflessione sulla mera tragicità di essi, che siano serviti a perpetrare e immortalare, nel vero senso della parola, la conoscenza di quei personaggi, facendo in modo che se ne parli più di quando erano vivi. Molte volte ciò è avvenuto senza reali meriti oggettivi e più per via della suggestione popolare; in altri casi – purtroppo e ribadisco: purtroppo! – le improvvise e tragiche dipartite hanno contribuito a dar modo di parlare pubblicamente di personaggi che, altrimenti, sarebbero rimasti nell’ombra o poco fuori, pur invece detenendo meriti assolutamente degni di essere considerati da pubblici ben più vasti. E’ d’altronde una considerazione ben nota, questa, tanto quanto amara: in certi casi solo la sempiterna presa suggestionante della morte sulla superficiale opinione pubblica sa donare quella celebrità che una vita intera di impegno e di lavoro non ha saputo dare…
David Foster Wallace è, a mio parere, un caso emblematico di quanto sopra esposto. Veramente non so quanto si sarebbe parlato di lui e dei suoi scritti – al grande pubblico al di fuori dei natii USA – senza il suo tragico e per certi versi inspiegabile suicidio. E infatti, ad esempio, tanto si è parlato e scritto di lui lo scorso febbraio, in occasione del suo “virtuale” cinquantesimo compleanno; in ogni caso, quando si parla di autori letterari forse più che in altri ambiti artistici, non bisogna mai scordare che sono i libri a parlare e parlarci di chi li ha scritti, e senza dubbio più per scelta personale che per quanto letto in giro, ho voluto che di David Foster Wallace mi potesse parlare Una cosa divertente che non farò mai più, da poco riedito da Minimum Fax con la traduzione di Gabriella D’Angelo e Francesco Piccolo…

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