Ringrazio di nuovo la redazione de “Il Dolomiti” e il direttore Luca Pianesi per aver concesso considerazione e spazio alle mie impressioni formulate qualche giorno fa riguardo la deriva consumistica – si può definire così – che sempre più sta corrompendo il turismo d’alta quota e high cost (cioè l’opposto del low cost) himalayano, col quale basta pagare una cifrona di dollari non solo per essere trasportati (letteralmente, quasi) sulla vetta dell’Everest ma per avere servizi da hôtellerie di lusso al campo base della montagna, a 5000 m di quota. Una follia sempre più degradante che dovrebbe essere regolata se non drasticamente limitata, prima che lo faccia da par suo qualche grande tragedia ambientale e umana.
D’altro canto, come alcuni hanno giustamente commentato a seguito dell’articolo, quello che sta avvenendo sugli ottomila himalayani non è che il risultato, portato sotto molti aspetti all’estremo, del modello di turistificazione delle alte quote già ben rodato sulle Alpi da almeno due secoli e, ovviamente, soprattutto negli ultimi decenni. In fondo, al netto dei rischi oggettivi, l’unica differenza tra l’immagine della coda di alpinisti sulla cresta sommitale dell’Everest, visibile nell’articolo de “Il Dolomiti”, e quella diffusa qualche giorno fa sulla stampa e in rete (la vedete qui sotto) che ha mostrato la coda di alpinisti in salita verso il Breithorn, uno dei quattromila più semplici delle Alpi anche perché 300 metri sotto la vetta, sul Klein Matterhorn/Piccolo Cervino, ci arrivano le funivie da Zermatt e Cervinia, è il costo dell’ascesa. Il prodotto turistico in vendita è lo stesso, cambia solo la scala altitudinale con ciò che ne consegue – oltre al prezzo, appunto.

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