Consentitemi di esprimere subito una considerazione d’un genere che, solitamente, rimarco alla fine di queste mie “recensioni”, e che posso titolare con qualcosa del genere: Keller Editore, chapeau! Perché realmente l’editore trentino ha intrapreso una strada d’una tale onestà professionale e intellettuale, di così intelligente gestione commerciale e, in primis, di tanto alta qualità letteraria da meritare che il suo giù consistente successo – per un editore ancora “piccolo” sotto molti aspetti – non possa che accrescersi sempre più. Alla faccia di certa grande editoria che di grande ho forse i numeri in bilancio ma sempre più inversamente proporzionale all’etica professionale e alla qualità dei suoi cataloghi!
Bene, posto ciò – che è anche un piccolo sfogo personale atto a rimarcare che la buona editoria, quella fatta di qualità e non di quantità, si può fare, in Italia: basta volerlo, e aggiungere a tale volontà una relativa e adeguata lucidità imprenditoriale e culturale – capirete forse già il tono della parte specifica di questo mio articolo, quella dedicata a La morte dei caprioli belli di Ota Pavel (Keller, 2013, traduzione di Barbara Zane, postfazione di Mariusz Szczygieł; orig. Smrt krásných srnců, 1971), ennesima dimostrazione delle capacità di Keller di cercare e trovare piccole/grandi perle letterarie di valore assoluto sconosciute da noi…
(Leggete la recensione completa di La morte dei caprioli belli cliccando sulla copertina del libro lì sopra, oppure visitate la pagina del blog dedicata alle recensioni librarie. Buona lettura!)
quello che hai scritto all’inizio è verissimo. La quantità non fa la qualità. Per fortuna qualcuno punta ancora sulla qualità.
Interessante questo piccolo editore trentino.
Caspita, interessantissimo Keller. Anche per tutta la strategia commerciale che negli anni ha messo in piedi e che verrebbe troppo lunga illustrare (ma che, in due parole, comporta l’assoluta indipendenza dal sistema di distribuzione classico e il contatto diretto con le librerie fiduciare sparse in tutta Italia) ma che col suo essere “controcorrente” si sta rivelando assolutamente vincente.
Torna in letargo, ora, Orso! Che (finalmente) fa freddo! 😀 😉
brrrrr! si fa freddo. Dopo keller torno in letargo.. Ronf, ronf
Buon riposo, Orso Bianco! A presto! 😀 😉
ciao, Luca
Però se stanno in piedi sia le case editrici “di nicchia” sia quelle più commerciali è perchè hanno logiche e target differenti. Evidentemente hai ragione riguardo al consumismo e alla teoria del libro “usa e getta” ma ciò che conta è il bilancio e queste due categorie lavorano in antitesi, inversamente proporzionali una all’altra. Credo che nessuno butti i soldi, nè in un caso nè nell’altro. Se poi parliamo di chicche e qualità, di prelibatezze da gustare…
Io non resterei indecisa se ordinare una torta margherita o della crema catalana! Ciao.
Ciao.
Esatti, milady. Ovviamente il piccolo editore deve necessariamente seguire logiche commerciali – e di profitto – di sostanza simile ma di forma ben diversa rispetto al grande editore. E capisco che oggi come oggi l’utile di bilancio conti più di ogni altra cosa ma, appunto, non concepisco che conti così tanto rispetto al fatto, ineluttabile, che un editore è e resterà sempre un produttore di cultura, prima che di utili, dividendi o che altro. Ugualmente, non concepisco che un grande editore che – se non è del tutto incapace dal punto di vista imprenditoriale, e non è detto che non siano tali, certuni dei grandi – “sbraghi” il proprio catalogo verso libroidi pressoché privi di valore letterario, prodotti solo per consonanza con l’imperante gusto TV, e non curi più il talent scouting come si faceva fino a qualche decennio fa. Non lo concepisco perché in tal modo gli editori che agiscono così si stanno dando la classica zappa sui piedi: possibile che non se ne rendano conto?
Grazie come sempre delle tue ottime – e consapevoli! – considerazioni, Nadia! 😉 🙂