Una letteratura condannata all’irrilevanza. Stralci da un articolo di Martina Testa, di Minimum Fax

Stralci di un articolo di Martina Testa, direttore editoriale di Minimum Fax, pubblicato su Artribune nr.15, Settembre-Ottobre 2013. Lo rimetto alla vostra attenzione (nonostante il pezzo sia di qualche settimana fa, appunto) e li cito, tali stralci, perché in qualche modo confermano certe mie opinioni circa il panorama letterario/editoriale nostrano di oggi da una posizione interna al panorama stesso e peraltro di prestigio, vista la bontà del lavoro di Minimum Fax. Un buon lavoro, quello della casa editrice romana e di molte altre piccole, medie e indipendenti, che rischia di essere “infangato” e reso vano dalla situazione in corso, caratterizzata da (per semplificare al massimo) troppa quantità edita a fronte di sempre più scarsa qualità letteraria. Certo, gli italiani leggono poco e questa è una colpa gravissima e una questione non solo culturale ma pure sociale: tuttavia se l’editoria (che è un’industria culturale, è bene non dimenticarlo mai!), piuttosto che far di tutto per invertire tale tendenza la sfrutta biecamente per conseguire meri fini consumistici ovvero di guadagno – il che significa, nella logica industriale in cui pure i grandi editori sono finiti, elargire dividendi agli azionisti, e pace se nel frattempo il paese diventa sempre più ignorante… – allora non solo scivoliamo verso l’orlo del baratro ma veniamo pure brutalmente spinti in esso.
E, si noti, l’articolo pare scritto sull’onda della visione del “talent show” RAI per scrittori Masterpiece! Invece no, non era ancora in onda, all’epoca della pubblicazione, d’altro canto tale parvenza ne conferma la bontà: in fondo il programma di RAI 3 non è che una macroscopica prova di quanto asserito.
L’articolo completo di Martina Testa lo trovate QUI.

Da una dozzina d’anni lavoro per una casa editrice di Roma: prima come redattrice, poi anche come editor e ora come direttore editoriale. (…) La mia professione si svolge all’interno della cosiddetta “industria culturale”: un complesso di attività che comprende non solo la produzione di materiali culturali ma anche la loro diffusione, comunicazione, valutazione; un ambito in cui la letteratura e l’editoria convivono con la musica e le arti visive, ma anche con l’organizzazione di eventi e il giornalismo. Riflettendo sulle dinamiche di questo vasto settore, un fenomeno che negli ultimi anni mi sembra evidente è quello del sostituirsi della forza della personalità alla forza della competenza. Un ventennio di berlusconismo, televisivo e non, ha eroso alla base l’idea che lo studio, l’acquisizione di sapere, il possesso di un bagaglio di tecniche specifiche e di strumenti critici siano necessari per farsi strada professionalmente. Il biglietto da visita è diventato quello del carattere: simpatia, spigliatezza, voglia di fare; sensibilità, originalità, passione; capacità di farsi notare. Questo tipo di mentalità anti-intellettuale, la mentalità per cui chi “sa” è un pedante da sbeffeggiare, o un elitario da guardare con sospetto, ha trovato terreno fertile nella democrazia telematica da blog e da social network. Il preoccupante risultato è che, oggi, chiunque scriva si sente scrittore, chiunque faccia musica si sente musicista, chiunque abbia un’opinione su un libro si sente critico letterario, chiunque scatti una foto si sente fotografo. E spesso si ritiene che la passione per la lettura basti di per sé a dare accesso a una vita professionale nell’editoria. Non molti sembrano consapevoli del fatto che per lavorare nella redazione di una casa editrice è utile saper scrivere senza errori in un paio di lingue straniere, o saper usare uno scanner, o saper creare un file .epub, o conoscere il linguaggio HTML o anche solo la regola per la formazione del plurale dei sostantivi in –cia e –gia. (E il fatto che gran parte delle case editrici esternalizzino sempre più il lavoro, rinunciando a formare il proprio personale interno, non contribuisce certo a innalzare il livello di competenza generale nel settore.) (…) Ritenere la letteratura e l’arte – nonché il fare libri, e il curare mostre – questione di sentire più che di sapere fa gioco a chi vuole ridurle a passatempo o a puro mercato, e privarle di valore conoscitivo, critico e, in definitiva, politico. Se in nome di un generico rifiuto della “casta” (la casta dei critici, la casta dell’“editoria tradizionale” ecc.) la cultura si pensa fatta solo di gusto, estro creativo, intraprendenza personale, e non più di abilità tecnica, di patrimonio cognitivo condiviso da accrescere e trasmettere, la si condanna all’irrilevanza. Proprio come, nella vita politica, la progressiva sostituzione della personalità alla competenza e l’idea che voler fare equivalga tout court a saper fare hanno portato agli esiti desolanti degli ultimi mesi.

2 pensieri riguardo “Una letteratura condannata all’irrilevanza. Stralci da un articolo di Martina Testa, di Minimum Fax”

  1. Non c’è più una battaglia culturale per migliorare gli italiani, come ad esempio facevano i vari Einaudi….Feltrinelli & C., ma anche Garzanti! Per Einaudi i libri erano uno strumento pedagogico. Pnesa come sono cambiati i tempi. E’ l’Italia ad essere cambiata. Forse deve cambiare anche il ruolo degli intellettuali che rischiano poco. O nulla.

  2. Grazie per le parole gentili. Però ci tengo a precisare che a me Masterpiece è piaciuto molto. È evidente che un programma televisivo non può riprodurre il processo della scrittura né costruire il successo di uno scrittore, questo lo si sapeva a priori e se lo si giudica con certi criteri ideologici (come hanno fatto quasi tutti i professionisti dell’editoria e quasi tutti gli scrittori e gli aspiranti scrittori) lo si condanna per forza. Ma io ho uno sguardo più laico e l’ho guardato come un prodotto di entertainment. E come prodotto di entertainment mi è sembrato molto buono. Le prove a cui erano sottoposti i concorrenti erano (spesso, non sempre) ben pensate e divertenti, i giudici e i concorrenti erano ben scelti in modo da far venire fuori personalità diverse che ispiravano simpatia/antipatia, e quel poco del mondo dell’editoria che si vedeva era rappresentato, vivaddio, senza quell’aura di sacralità della quale spesso e volentieri lo si investe. Per quanto mi riguarda, come programma televisivo funzionava bene, non me ne sono persa una puntata, ho fatto il tifo pro e contro e riso un sacco. E oltretutto, tornando al tema del mio articolo, nel suo modo necessariamente cursorio e approssimativo – era un gioco a premi, non un documentario – Masterpiece non propagandava affatto l’idea che fare lo scrittore fosse solo questione di personalità e di ispirazione: agli aspetti tecnici del mestiere, alla questione della competenza, veniva dato il dovuto peso.)

Lascia un commento

Questo sito utilizza Akismet per ridurre lo spam. Scopri come vengono elaborati i dati derivati dai commenti.