Ci risiamo.
Fammi controllare… Anno 2014. Ok, non stavo sbagliando. Non io, almeno.
Ho la grande fortuna di aver conosciuto Gian Paolo Tomasi, senza dubbio uno dei più importanti fotografi italiani contemporanei, e aver goduto dell’onore di chiacchierare con lui mi ha confermato ciò che già avevo “visto” nelle sue opere: uomo assai sagace, illuminante, capace di interpretare con un “semplice” scatto fotografico un mondo intero di parole, idee, opinioni – e di bellezza, nel caso. E artista mordace, come l’arte deve essere. “L’arte si rivolge a tutti nella speranza di essere, prima di tutto, sentita, di suscitare uno sconvolgimento emotivo.”: affermava ciò il celebre regista russo Andrej Arsen’evič Tarkovskij, ben conscio di come altrimenti essa non diventi che un mero esercizio di conformismo, ovvero l’ennesima e alquanto pelosa affermazione del sistema di potere vigente.
Insomma, forse avrete saputo della questione dell’esclusione di Oppio 2.0, l’opera che Tomasi aveva destinato alla mostra Respect Me aperta al MAXXI di Roma – in questo articolo potete leggere, seppur sommariamente, i dettagli di tale vicenda – inizialmente accettata senza alcun problema e poi, appunto, rifiutata. Ora: l’opera in sé, come ogni altra, può piacere o meno, ma non è certo diritto del “committente” rifiutarla con queste modalità (cioè dopo l’iniziale assenso). Chi ritiene che la committenza possa essere libera di rifiutare un’opera richiesta – azione sostenibile solo in presenza di qualcosa di assolutamente triviale e offensivo, e non è certamente questo il caso – si dimentica che il MAXXI è un ente di diritto pubblico (così come qualsiasi altro ente superiore che abbia voce in capitolo nella gestione del museo romano) e dunque, formalmente, che dovrebbe rispondere all’assenso o al dissenso del pubblico, appunto, prima che di sé stesso. Dacché, se in quel modo invece funzionasse il giudizio sulle opere artistiche, credo che buona parte dell’arte contemporanea di matrice sociale (sociologica) in circolazione sarebbe stata censurata e negata alla fruizione pubblica.

Censurata, già: uso questo termine non a caso, dacché qui siamo in presenza di una bella e buona censura. “Sono spiacente di comunicarle che per sopraggiunte valutazioni di opportunità si è ritenuto più prudente non esporre la sua opera”: questa la risposta della funzionaria del Viminale che ha negato il consenso all’esposizione dell’opera di Tomasi. Sopraggiunte valutazioni di opportunità: un politico navigato e scafato al magna magna più istituzionalmente tipico non avrebbe saputo esprimersi meglio (peggio). “E’ una tradizione di cui abbiamo il massimo rispetto. La scelta di non esporre l’opera è dettata solo da questo senso di rispetto e non da cautela o prudenza. Non sarebbe stato né bello né corretto assimilare il burqa alla violenza verso le donne, cui è dedicata la mostra internazionale che si è aperta al Maxxi” continua il testo censorio.
Bene, sfido chiunque a ritenere il burqa una libera e consapevole scelta delle donne dei paesi ove è imposto – paesi che, ma guarda che strana coincidenza, sono in fondo alle classifiche che rilevano la salvaguardia dei diritti civili, delle donne e non solo ovviamente. L’opera di Tomasi ha efficacemente ritratto la realtà di una parte di mondo nella quale la dignità delle donne è tragicamente calpestata, nel mentre 
Da tutto ciò, inevitabilmente, che può derivare? Una bella e buona censura, appunto. Calata dall’alto, e nascosta (male) dietro un preteso/presunto rispetto delle tradizioni. Che nemmeno l’arte, quell’arte che da sempre è fonte di illuminazione fondamentale sulla realtà che abbiamo intorno e sulle relative verità, si può permettere di toccare. Peccato che le “tradizioni”, quando siano imposte a suon di obblighi, piuttosto che permettere l’evoluzione delle società sulle quali hanno effetto le fanno spaventosamente regredire; e peccato che il “rispetto” quando viene derivato da pura convenienza politica e non dalla consapevolezza del suo stesso senso divenga pusillanimità – o vogliamo tornare a epoche pre-illuministiche, forse? – ovvero segno di grandissima debolezza civica. E sia chiaro, chi sta scrivendo queste riflessioni aborrisce certi politicanti che sbraitano contro le culture straniere e tutto ciò che di esse è realtà!
Insomma, ribadisco: qual è la somma di finale di tutto quanto? E’ la censura. Nell’anno di (dis)grazia 2014, nel quale menti tanto distorte, a furia di imporre rispetti privi di qualsivoglia logica storica, sociologica e antropologica, ottengono il risultato contrario. Inevitabilmente.
Tuttavia, altrettanto inevitabilmente, mi viene da dire che alla fine Gian Paolo Tomasi – con la sua arte – ne uscirà vincitore. Perché ogni volta che qualcuno si arroga il diritto di agire e imporre decisioni prive di alcuna autentica logica, alla fine si sta tirando la zappa sui piedi. E’ solo questione di tempo, e di “dissanguamento” (intellettuale)…