Jørn Riel, “Viaggio a Nanga”

viaggio_nanga_copUna delle caratteristiche più evidenti e fondamentali della letteratura scandinava è da sempre – ovvero dalle antiche saghe fino alle opere contemporanee – la presenza più o meno marcata ma comunque immancabile della Natura in qualità di “personaggio” sovente attivo nelle storie, giammai di mero sfondo ambientale e/o scenografico. Immaginatevi dunque quanto una caratteristica del genere possa divenire ancora più fondamentale in una storia ambientata in Groenlandia, terra estrema di quelle (ormai rare) in cui la Natura è dominatrice incontrastata della realtà, con l’uomo che non può far altro che adattarvisi alla bell’e meglio, peraltro subendo spesso i suoi possenti “rimbrotti” climatici.
Per ben 16 anni, prima di divenire un autore di successo in Danimarca e non solo, Jørn Riel è stato uno di quegli uomini – soprattutto in qualità di ricercatore scientifico al seguito di diverse spedizioni – e certamente un’esperienza così intensa non poteva non avere nella sua sostanza un aspetto anche letterario: nasce da qui Viaggio a Nanga (Iperborea, 2012, con traduzione e postfazione di Maria Valeria D’Avino; orig. Rejsen til Nanga) così come tutti gli altri libri che lo scrittore danese ha dedicato alla Groenlandia e a quella ciurma di cacciatori artici che nelle sue storie popolano la costa nordorientale della grande isola…

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Quando la poesia sgorga come sterco da un vitello da latte… (Jørn Riel dixit)

Quella primavera Anton divenne meditabondo. Non che fosse insoddisfatto della sua esistenza, anzi, al contrario, ma aveva cominciato a scrivere poesie e si era fatto l’idea che cose del genere andassero strappate a forza dalle profondità più remote dell’anima. (…)
Per Anton quella primavera fu davvero speciale. Le poesie sgorgavano da lui come sterco da un vitello da latte, e man mano che scavava nelle profondità del proprio animo anche la loro qualità migliorava. Herbert, che era sempre stato un fervente ammiratore del suo romanzo, guardava alla poesia con molta apprensione.
“Non è il tuo terreno di caccia, Anton. Questi scarabocchi sono minutaglia per un cacciatore come te. Riponi i versi sullo scaffale, e scrivi un nuovo romanzo.”
“Ma vengono da sé”, spiegava Anton, “che io lo voglia o no. E’ il torrente primaverile del cuore, Herbert: non si può imbrigliare così alla buona.”
Herbert era comprensivo, ma anche preoccupato. Perché con le poesie era sempre la stessa cosa. Aveva visto molti eccellenti cacciatori assaliti dalla stessa nostalgia. All’inizio scrivevano fischiettando, poi imparavano quella fuffa a memoria, in seguito li coglieva il bisogno improvviso e inderogabile di andare in Danimarca, per consegnare tutto l’ambaradan nelle mani di quale altro svitato. Un gran casino, la poesia. Guardate Anton: si era comportato benissimo per anni. Non c’era stato il minimo accenno a stranezze di sorta. E poi di colpo, ecco che la slavina delle poesie si era abbattuta su di loro.

(Jørn Riel, Viaggio a Nanga, Iperborea 2012, traduzione di Maria Valeria D’Avino, pagg.154-155)

Beh, immagino che molti poeti, autentici o sedicenti tali (forse soprattutto questi ultimi), storceranno non poco il naso nel sentire paragonata la propria arte a un siffatto bucolico scarto biologico… D’altro canto è vero, e bisogna riconoscerlo a Riel e alla sua creatività, che la vena poetica sovente è proprio così: qualcosa di biologico, appunto, nel senso di strettamente legato alla vita e alla sua più profonda essenza interiore. E in fondo, se vogliamo continuare sulla metaforica e rustica via indicataci dallo scrittore danese, non si può ignorare l’evidenza che quel “prodotto” del vitello da latte sia quanto di più vitale, in senso organico, e fertile che la terra possa ricevere per fiorire di altra nuova vita… Proprio ciò che deve e/o dovrebbe essere la poesia, quella autentica ovviamente, per l’intera produzione artistica letteraria.