“Meno male che ho imparato il finlandese, pensò, anche se all’epoca era ritenuto brutto e inutile. Dopo tutto, il finlandese del Tornedal era la lingua madre di suo padre, come di tutta la sua generazione. La lingua dei sentimenti. la più vicina al cuore. Lo svedese l’avevano imparato a scuola, e per tutta la loro vita lavorativa erano rimasti del tutto bilingui. ma con la vecchiaia e la senilità il cervello aveva cominciato a dimenticare e perdere pezzi, il tempo andava a ritroso. E le prime cose a scomparire erano le ultime apprese. Tra cui lo svedese. Le parole diventavano sempre più difficili da ricordare, le frasi sempre più stentate. Il finlandese dell’infanzia, invece, restava per sempre, o almeno finché restava la capacità di esprimersi. Nei reparti di lungodegenza si vedevano sempre più spesso bambini di lingua svedese seduti al capezzale dei loro anziani parenti, ad ascoltarli parlare in finlandese senza più poter comunicare. Un mutismo. Un troncamento linguistico netto tra le generazioni, che tagliava via l’intero, ricchissimo, antico vocabolario, tutti i termini che indicavano gli attrezzi artigianali, quelli agricoli, tutti i nomi finlandesi del paesaggio boschivo, i nomi familiari, l’umorismo del Tornedal, i racconti che andavano raccontati in dialetto per arrivare alla loro piena profondità, una cultura intera che sbiadiva e ammutoliva mentre lo svedese rimaneva lì seduto sul bordo del letto senza sapere. Senza capire.”
(Mikael Niemi, L’uomo che morì come un salmone, Iperborea, 2011, traduzione di Laura Cangemi, pag.45-46)
Mikael Niemi, in questo brano del suo L’uomo che morì come un salmone (trovate la mia recensione qui) scrive “finlandese” come fosse la lingua nazionale di Finlandia ma in verità si riferisce al meänkieli, l’antico dialetto di origine certamente finnica ma differente sotto molti aspetti parlato nel nord della Svezia, e mette in evidenza la triste fine di molte lingue regionali – quelle che appunto definiamo “dialetti” in modo spesso sminuente se non spregiativo – e di tutta la cultura popolare che vi sta dietro e dentro.
Un recente sondaggio (molto interessante! Cliccate sul link e dategli un occhio, merita!) su quali siano le seconde lingue più parlate nel mondo ha rivelato che in Italia, dopo l’italiano appunto, sono proprio i dialetti regionali gli idiomi più parlati. Qualcuno ha definito tale realtà un esempio di italica arretratezza culturale: se sotto certi aspetti è certamente così – dacché questa situazione di contro denota la scarsissima dimestichezza degli italiani con le lingue straniere e in particolare con l’inglese, con le relative difficoltà nel girare e lavorare per il mondo – io credo invece che le lingue regionali, o i dialetti che dir si voglia, debbano essere preservati e per quanto possibile insegnati, almeno dal punto di vista culturale e antropologico se non meramente linguistico. Vi sono stati che lo fanno, che difendono e preservano la presenza nel parlato comune dei dialetti regionali, spesso addirittura locali (in senso stretto) per quanto sia limitata la loro diffusione territoriale: la Svizzera, ad esempio, che oltre a convivere con ben quattro lingue nazionali riconosciute, vede ancora molto diffuso l’uso, ad esempio, dello Schwiizertüütsch, delle numerose varianti (spesso diverse da valle a valle) del Romancio, del Patois arpitano o dello stesso dialetto ticinese, di genesi lombarda. Eppure è una delle nazioni culturalmente e socialmente più avanzate d’Europa.
Insomma, i dialetti sono elementi identitari forti che ci possono ancora rapportare al territorio al quale siamo legati e alla sua necessaria conoscenza, e sono sovente scrigni di saggezza che non ha data di scadenza e non perde valore nemmeno rispetto all’avanzare – a sua volta sovente giusto e comprensibile – delle trasformazioni della lingua nazionale e dell’invasione (benefica o meno che sia) di terminologie straniere. Perderli, perderne la conoscenza, la parlata, il senso, la vocalità e la sonorità e quant’altro, sarebbe un po’ come buttare via tutti i vecchi testi di una biblioteca per far posto soltanto a libri nuovi: potrebbe essere anche comodo, ma sarebbe fortissimo il rischio di non riuscire più a riguadagnare, in valore culturale, ciò che si è perso e dimenticato.
P.S.: è molto interessante anche la cartina che accompagna questo articolo, e che riassume la diffusione delle lingue regionali/dialettali dell’intera Europa. Cliccateci sopra per ingrandirla e studiarla meglio.
P.S.#2: pubblico questo articolo proprio il 2 giugno, festa della Repubblica Italiana. La cosa è del tutto casuale, dunque al di là di qualsiasi considerazione su come la difesa dei dialetti possa rappresentare un elemento di disgregazione ovvero di unità nazionale: che siano sostenibili o meno nell’un senso o nell’altro, non è questione qui contemplata.