Roberto Mantovani, “Forse lassù è meglio. Viaggio nel cuore della montagna” (Fusta Editore)

Me lo ricordo bene come, fino a mica troppo tempo fa, ci si ritrovava tra amici più o meno professionalmente interessati agli ambiti letterari ed editoriali e, nel disquisire di “libri di montagna”, si finiva per constatare come, di tali libri, ce ne fossero in giro un sacco ma quasi tutti nelle forme dei recit d’ascension o delle biografie (sovente auto-) di alpinisti: tutti belli, tutti interessanti e affascinanti, tutti uguali. E nessuno che, a ben vedere, parlasse realmente di montagne, se non in rari casi. Poi, negli ultimi anni, è successo ciò che nessuno credeva possibile, ovvero che la montagna è (quasi) diventata di moda, nelle narrazioni letterarie: complici certi nuovi costumi diffusi più attenti (almeno a parole) alla Natura e all’ambiente, sicuramente pure una maggior attenzione culturale ai temi relativi, e complice qualche titolo divenuto best seller, oggi di libri di montagna ce ne sono in circolazione veramente parecchi. Non so dire se si possa a ragion veduta parlare di “genere” letterario – come i gialli o i romanzi rosa, per dire – ma di sicuro è un periodo fortunato per la montagna, tra le pagine edite, come probabilmente non lo è mai stato.

Da buon (e interessato) appassionato di lettura e letteratura, mi viene tuttavia da fare un passo ulteriore, nelle considerazioni sopra esposte, e chiedermi: ma in tutte queste pubblicazioni, come viene raccontata, la montagna? Voglio dire: alla “nuova” (o presumibilmente tale) corrente letteraria suddetta corrisponde anche un nuovo modo di narrare i monti e le loro genti? Oppure il fatto che oggi si vendano tanti libri di montagna dipende proprio dal fatto che molti degli stessi non fanno altro che poggiare le proprie narrazioni sui consueti stereotipi i quali, per carità, vanno benissimo e nulla hanno di male ma, alla fine della fiera, reiterano inesorabilmente un immaginario collettivo montano che è lo stesso di quando le montagne non se le filava nessuno ovvero di quando sono state trasformate in periferie d’altura più o meno degradate delle città, solo meglio rifinito e raccontato?

Approcciandomi alla lettura di Forse lassù è meglio, l’ultimo libro di Roberto Mantovani (Fusta Editore, 2018), sapevo benissimo di incontrare – nelle pagine del volume – uno dei massimi esperti italiani di cultura di montagna – e intendo il termine “cultura” nel senso più ampio possibile – dunque la personale curiosità verso il libro non veniva alimentata solo dal leggerne il contenuto ma pure dal capire e constatare se in esso vi fosse qualche buona indicazione rispetto alle riflessioni che ho poco sopra esposto. Indicazioni necessarie se non fondamentali, a mio modo di vedere: perché se noi uomini di oggi osserviamo le cose del mondo che abbiamo intorno e le intendiamo in base a un certo relativo immaginario, più o meno strutturato, questo sotto molti aspetti accade ancor di più per la montagna, che quasi in parallelo ai grandi e gravi mutamenti socioculturali che l’hanno vista cambiare profondamente, nell’epoca moderna, ha visto cucirsi addosso un immaginario collettivo assolutamente emblematico dacché, per sua gran parte, generato da percezioni e stilemi nati altrove, spesso alieni alla quotidianità montanara, a volte persino antitetici ad essa ma col tempo imposti e creduti come “tipici” della montagna. Ciò vale per le cose materiali – simboli, iconografie, narrazioni, rappresentazioni, eccetera – ma anche per quelle immateriali, direttamente costituenti la “cultura” dei territori di montagna e delle genti che li abitano e che alla fine determinano pure la realtà concreta, materiale e quotidiana di chi in montagna ci sta, di chi decide di andarci/tornarci ovvero di coloro i quali dalla montagna hanno deciso di andarsene, in modo temporaneo o per sempre.

Insomma: sto segnalando il bisogno di una narrazione rinnovata o, almeno, ripulita da quella eccessiva stereotipia sul tema che, appunto, quasi inesorabilmente salta fuori in molti testi, una narrazione letteraria ma non troppo (cioè senza troppi inutili orpelli romanzeschi, che tanto la realtà riesce sempre a superare la fantasia, pure sui monti) e al contempo aderente alla realtà dei fatti e della vita in altura. Mantovani, da profondo conoscitore delle montagne, come detto, ma anche da scrittore “vero” nonché giornalista di vastissima esperienza e, ultimo ma non ultimo, vagabondo dei monti alpini e non solo il quale è, riesce a soddisfare questo bisogno adottando una formula particolare ed efficace: sedici storie brevi, assolutamente reali ma – ove consono e per ovvie ragioni di “privacy”, come si dice oggi – mimetizzate in luoghi e dietro nomi fittizi che danno loro anche l’effetto d’una leggera e suggestiva romanzatura, al punto da sospenderle tra narrativa e cronaca proto-saggistica in modo del tutto affascinante e piacevolissimo alla lettura. Sedici storie che vanno a toccare la gran parte degli elementi di quell’immaginario alpino comunemente conosciuto, ma offrendone un racconto e una visione tanto “semplice” (nel senso di comprensibile), quasi diaristica, quanto attenta ai dettagli, profonda, sagace e assai appassionata, quasi emozionata – dunque emozionante per chi legge.

È una visione, quella di Mantovani, che per di più riesce anche a “sospendersi” temporalmente, per così dire, quasi seguendo l’evidenza che in montagna il concetto di tempo resta legato allo scorrere delle stagioni e delle relative variazioni climatiche e vegetative (lo racconta, Mantovani, a pag.74), più che al mero correre delle lancette degli orologi che troppo spesso detta, in modo assurdamente frenetico, la velocità del nostro vivere contemporaneo. Anche perché in montagna conta ancora il “tempo della Terra” (per usare una felice espressione di Davide Sapienza) e ad esso anche l’uomo ipertecnologico deve gioco forza adattarsi. Eppure, ciò non significa che la montagna sia un ambito inesorabilmente agganciato ad un passato ormai sterile, come troppo spesso e con troppa superficialità il suddetto immaginario collettivo – quello delle immagini d’un tempo dei buoni (selvaggi) montanari alla Heidi e Peter, dei musei ricchi di cimeli bellissimi e corrosissimi dalla ruggine, dei miti dell’aria pura e della “Natura incontaminata” (veri, senza dubbio, peccato che però fino a non troppo tempo fa i montanari campavano la metà di quanto campiamo noi, per quanto grama e misera fosse la loro vita!) – anzi: forse ciò che noi crediamo “roba del passato”, vedendo il futuro sui monti solo nelle strade asfaltate che giungono fin sugli alpeggi più remoti, nelle funivie o nei resort a cinque stelle per turisti che nemmeno sanno su che montagna stanno, è proprio in potenza l’indicazione di una possibile strada futura che la montagna può percorrere, di (scusate il gioco di parole) “nuove innovazioni” ben riuscite che, piuttosto di perseguire la sopravvivenza di certe tradizioni belle e importanti proprio perché superate, possano generarne di nuove – proprio come sagacemente postulava Oscar Wilde. Forse anche di più nuove strade, di diverse nuove direzioni, nuove e numerose visioni attraverso cui osservare (e realizzare) il futuro della montagna. Mantovani ne disquisisce al riguardo e a suo modo nel penultimo capitolo del libro (non a caso posto quasi in chiusura di esso, io credo), ad esempio qui: “«Sapete di cosa abbiamo bisogno, più di tutto? Di superare i vecchi paradigmi di pensiero e distillarne di nuovi. Dobbiamo rompere il guscio che ci fa vivere come prigionieri; aprirci al dibattito delle idee, farci ispirare da altri ambiti economici, confrontarci con valori, competenze e culture diverse. Creare degli intrecci, ibridare pratiche e idee. E dobbiamo anche smettere di pensare di essere soli al mondo. Là fuori c’è un pianeta intero che si arrabatta per inventare soluzioni nuove: non possiamo continuare a pensare di migliorare la situazione economica delle valli limitandoci alle feste tradizionali e alle polentate per i turisti»” (pag.115).

Non so se Mantovani voglia arrivare proprio qui, con questo suo ultimo lavoro, cioè a tali conclusioni, so però che queste osservazioni sono tanto fondamentali quanto ancora poco elaborate e sostenute – mi riferisco anche a quella così corposa produzione letteraria “di montagna” della quale dicevo in principio del presente testo. E so che a quel punto più o meno concludente ci arriva, Mantovani, attraverso un percorso tematico e narrativo che veramente esplora la montagna contemporanea percorrendone con sagacia molti dei suoi “sentieri” culturali, sociali, antropologici, spirituali, un percorso che la suddivisione in numerosi capitoli non spezza affatto, non rende per nulla continuamente interrotto, anzi, ne conferisce una poliedricità espressiva e meditativa alquanto potente e illuminante. Il tutto, peraltro, senza mai dare l’impressione di guardare le cose narrate attraverso uno sguardo univoco, unidirezionale, limitato sia in senso spaziale che temporale – lo sfondo delle valli del cuneese e delle Alpi Marittime di buona parte dei capitoli non lede per nulla la natura geograficamente emblematica delle storie narrate – piuttosto riuscendo nella non semplice impresa di “camminare” tali storie lungo lo spazio e il tempo, senza nostalgie del passato, senza remore verso il futuro, senza parzialità verso il presente. Un presente peraltro già “dilatato”, visto che alcuni dei capitoli di Forse lassù è meglio hanno quasi vent’anni – ovvero sono stati scritti all’inizio del nuovo secolo – eppure risultato assolutamente attuali. Un’evidenza parecchio significativa, questa, che personalmente mi riconferma la necessità di intessere un nuovo linguaggio e un relativo rinnovato immaginario sulla montagna e la sua realtà, fosse solo per osservarla e comprenderla sul serio e autenticamente e non attraverso delle “lenti” ormai inevitabilmente distorcenti. Di certo per far ciò Mantovani, con Forse lassù è meglio, pone delle ottime basi – fin da titolo, peraltro, il cui senso effettivo e necessario vi invito caldamente a scoprire attraverso la lettura del libro. Lo merita pienamente.