Luigi Casanova, “Ombre sulla neve. Milano-Cortina 2026. Il “libro bianco” delle Olimpiadi invernali” (Altræconomia)

Quella che state per leggere, tenetene conto da subito, sarà una “recensione” (virgolette necessarie) assolutamente sui generis. Perché di un libro come Ombre sulla neve (Altræconomia, 2022 pagg.192) il cui autore, Luigi Casanova, è una delle massime figure di riferimento della salvaguardia ambientale in Italia – a 360 gradi, per questo non scrivo “dell’ambientalismo”, al fine di evitare potenziali restrizioni strumentali del personaggio e della sua attività di lungo corso – non può essere “semplicemente” recensito sì da formularne un giudizio che ricalchi mere valutazioni estetico-letterarie. Ombre sulla neve è un libro-inchiesta talmente preciso, dettagliato, obiettivo, analitico e parimenti dotato di visioni lucidissime sulla realtà dei territori montani italiani sottoposti al prossimo evento olimpico di Milano-Cortina 2026, che va letto. Punto. Per sapere, conoscere, capire, meditare e ciò al netto poi delle valutazione che ogni lettore potrà trarne ma che in ogni caso non possono e non potranno esimersi dall’oggettività còlta e messa nero su bianco nel libro.

Detto ciò, piuttosto che una recensione voglio dunque proporre una riflessione che la lettura del libro mi ha suscitato (una delle tantissime, invero) e che ho esposto anche nel corso della presentazione di Bormio del volume, alla quale ho avuto la fortuna di partecipare. Riflessione che ho “appoggiato” su una citazione di un’altra figura storica fondamentale per chiunque si occupi di geografie dei territori antropizzati, Eugenio Turri: «Il problema della tutela e del rispetto per il paesaggio è un fatto intimo, da riportare alla coscienza individuale, anche se rientra tra i grandi fatti territoriali, collettivi e addirittura planetari. Non servono prediche, indicazioni disciplinari pesanti, ma solo la lieve carezza di uno sguardo verso il maggiore dei doni che ci sono stati dati sulla Terra e che quindi deve essere amato e rispettato, come bene sacro, troppo spesso tradito in cambio di beni puramente materiali.»

Occupandomi di paesaggi, ovvero di studiare e scrivere della relazione tra l’uomo e i territori che abita, sia in modo permanente che temporaneo, ho ben presente che è da quella relazione che scaturisce la definizione culturale di “paesaggio” la quale, è bene ricordarlo, non è ciò che vediamo osservando il mondo intorno a noi – questo è il “territorio” – ma è la concezione che ricaviamo da tale visione mediata con la nostra percezione emotiva e con il bagaglio culturale personale. Quindi si può dire che il paesaggio esiste solo nel/dal momento in cui noi lo concepiamo: come ha affermato il grande sociologo e urbanista svizzero Lucius Burckhardt, «Il paesaggio è un costrutto. Questa parola terribile significa che il paesaggio non va ricercato nei fenomeni ambientali, ma nelle teste degli osservatori». In tal modo, essendo il paesaggio una nostra identificazione di matrice eminentemente culturale del territorio in cui siamo, si è determinato il fatto che la civiltà umana, nel vivere i territori abitati, vi ha costantemente impresso la propria identità culturale, dalla notte dei tempi fino a oggi. I territori in tal modo umanizzati, per usare il termine coniato proprio da Eugenio Turri, oppure territorializzati per usare un termine comune nell’antropologia contemporanea, diventano “luoghi”, ovvero spazi vissuti dotati di identità (il cosiddetto Genius Loci), di senso funzionale alla permanenza umana ancor prima che di finalità, di utilità. Uno dei primi “luoghi” creati dall’uomo era il punto nel quale veniva piazzato un menhir (a sua volta uno dei primi segni architettonici, cioè di modificazione strutturale antropica del territorio), segno umano di appropriazione dello spazio ma pure di attribuzione di un valore culturale oltre che funzionale, come marcatura referenziale e identificativa, traccia di passaggio, di transito, di direzione ovvero di rassicurazione (derivante dalla ri-conoscibilità del luogo). E così via fino alla contemporaneità, per dire che sempre e comunque il paesaggio è opera precipua dell’uomo, e viceversa l’uomo e la sua vita negli spazi abitati sono “opera” del paesaggio, sono la conseguenza di come è stato modificato nel passato e vissuto poi, e sono influenzati dalle sue peculiarità materiali e immateriali che nel tempo sono state depositate e impresse delle genti che hanno vissuto quel territorio.

Queste evidenze, apparentemente semplici ma in verità fondamentali per la nostra relazione con i territori in cui viviamo, determinano una responsabilità enorme nei confronti dei territori stessi: responsabilità che se da un lato è naturale e geneticamente propria del nostro viverci, dall’altro è necessariamente da intuire, meditare, comprendere e gestire, proprio perché tutto quanto noi imprimiamo nel territorio diventa paesaggio e si trasforma in elemento culturale e identitario che ci portiamo dentro – ciò che molti definiscono il “paesaggio interiore”, che è sempre lo specchio di quello esteriore.

Posto tutto ciò, la lettura del libro di Luigi Casanova io l’ho parecchio compiuta da questo punto di vista, oltre che attraverso tutte le molteplici altre chiavi di lettura che il libro offre. E nel leggerlo, pagina dopo pagina, mi sono reso conto che quanto sta accadendo con le Olimpiadi di Milano-Cortina 2026, quello che si sta facendo e ancor più la forma mentis percepibile alla base delle azioni progettate – le quali poi rappresentano il compendio massimo e assoluto dei tanti progetti di infrastrutturazione turistica che vengono realizzati e proposti lungo tutte le Alpi italiane -, è anche la diretta conseguenza della mancanza di relazione culturale e antropologica con i territori nei quali si sta intervenendo. Non c’è alcun legame, manca qualsiasi connessione con i luoghi, manca la volontà di coglierne l’identità, e evidentemente manca anche la conoscenza e la comprensione geografica dei territori, e intendo ciò nei termini delineati dalla geografia antropica, cioè proprio quella che analizza e identifica i territori attraverso la relazione con essi di chi li vive, proprio in forza del fatto che la forma del nostro mondo abitato è soprattutto quella che l’uomo vi ha dato, modificando quella fisica originaria.

Nel libro si cita spesso il fatto che tra le azioni previste e finanziate per le Olimpiadi non ce ne sia una che vada a favore e a risolvere i bisogni e le necessità concrete di chi abita i territori interessati dalle competizioni, che serva a implementare i servizi di base necessari alla quotidianità che le comunità richiedono da tempo (e che invece nel frattempo vengono sovente tagliati e eliminati per mere ragioni di convenienza economica), non ci sono iniziative che sviluppino veramente il tessuto economico e sociale locale a prescindere dall’evento olimpico e dalla monocultura sciistica, che mirino a riconferire almeno in parte alle popolazioni delle sedi olimpiche la gestione politica partecipata dei loro territori, in primis attraverso il coinvolgimento nel dibattito alla base della definizione dei vari progetti – altra carenza che Luigi di frequente mette in evidenza nel libro. E questo secondo me è la conseguenza diretta proprio dell’assenza di relazione culturale con i territori e i luoghi sedi delle gare olimpiche. Un’assenza che diventa peraltro palese proprio nel considerare le azioni e i progetti previsti dal piano olimpico: geograficamente irrazionali, fuori contesto rispetto ai luoghi e ai territori, impattanti ambientalmente e ecologicamente, totalmente svincolati dalle realtà socio-economiche locali che non siano direttamente legate all’industria dello sci – ma anche in questo caso con numerosi distinguo, visto che i maggiori vantaggi andranno sempre e comunque ai pochi privati che controlleranno direttamente le azioni, più che al cosiddetto indotto locale. Salvo rare eccezioni, che tuttavia in Valtellina non ritrovo da nessuna parte, sono tutte opere funzionali alla frequentazione turistica massificata e mordi-e-fuggi dei territori montani, olimpici o meno, dalle quali i locali possono forse trarre qualche vantaggio per effetto collaterale, non per riferimento funzionale specifico ovvero per considerazioni delle loro esigenze residenziali concrete. Dove sono gli abitanti dei territori olimpici, nelle azioni previste? Dove sono le comunità residenti e le loro realtà, dove sono state considerate, come sono state integrate nel piano di sviluppo che le opere olimpiche si ritiene debbano sostenere? Dov’è la montagna, nelle Olimpiadi invernali? Sotto gli sci degli atleti e sotto gli asfalti delle strade o il cemento degli impianti olimpici: li sì, non altrove. Un mero supporto funzionale (e scenografico solo incidentalmente) all’infrastrutturazione imposta dai gestori dell’evento in funzione dei loro scopi e dei tornaconti particolari, non certo di quelli delle montagne coinvolte e delle loro genti.

D’altra parte, tutto quanto sto rimarcando qui è ben riassumibile in un’idea tanto semplice quanto fondamentale: più si ha conoscenza del territorio con il quale ci si relaziona, più si svilupperà sensibilità e cura di esso e delle sue peculiarità – cioè quanto ha ben affermato anche Eugenio Turri nella citazione all’inizio di questo mio testo; meno se ne avrà conoscenza, ovvero meno si sarà sviluppata la relazione con esso e dunque non si avrà la capacità di coglierne le peculiarità e parimenti i limiti, meno se ne avrà cura e più facilmente, se non inevitabilmente, lo si danneggerà, considerandolo un mero spazio vuoto da riempire con il frutto della propria incompetenza e mancanza di responsabilità verso di esso. Ciò che rende il “fare” tanto osannato da alcuni una voce verbale sinonimo di “distruggere”, in buona sostanza.

Ecco: competenza e responsabilità. Conoscenza e cura. Comprensione e sensibilità. Ovvero incompetenza e irresponsabilità. La lettura di Ombre sulla neve fa ben capire che tutte queste doti, invero necessarie ad ogni buona politica del territorio, nel piano per le Olimpiadi di Milano-Cortina 2026 così come in molte opere più piccole ma di pari sostanza sparse sulle nostre montagne, mancano pressoché totalmente. E questo, temo, rappresenta fin da ora una zavorra pesante sul futuro dei territori olimpici, un peso grave che danneggerà tanto l’ambiente naturale quanto l’ambiente culturale sociale e umano di queste montagne, esattamente come la storia recente di questi eventi insegna con chiarezza. Ma la Natura, col tempo, sa risanarsi e rigenerarsi autonomamente; gli uomini – che della storia maestra restano pessimi alunni – molto meno.