
Ciò fin dai convenevoli, allora come adesso quando torno a trovarli – purtroppo meno di quanto vorrei. Da essi ho imparato che i convenevoli più sono apparentemente cordiali, più facilmente sono falsi. Lassù non ci si vede da mesi, poi ci si incontra e: “Ciao. Allora?” Fine, un sorriso, uno sguardo e nulla di più – al massimo una stretta di mano, ma solo in occasioni particolari. Ma, in così poche e brevi parole, c’era e c’è quella cordialità e quello spirito amichevole che non abbisognano, appunto, di troppe parole, di tante frasi fatte per essere manifestati.
E poi, alla richiesta di farsi raccontare quanto accaduto durante la reciproca lontananza – il suddetto “Allora?” basta e avanza per ciò – nessun ampolloso resoconto da talk show televisivo, semmai poche formule convenzionali. “Ma sì, dai!” significa che va tutto bene, “Insomma…” lascia intendere che vi sia qualche problema, e “Uff!” o “Bah!” che è accaduto qualcosa di preoccupante. Ma in tal caso, nuovamente, non c’è da aspettarsi alcuna articolata cronaca: solo qualche cenno, più o meno vago. E questo non perché non vogliano raccontare o si tengano per sé certi fatti dacché privati e non te li vogliano raccontare; semmai perché lassù la ricerca di consenso e di considerazione altrui – possibilmente condita da una buona dose di (pseudo)condivisione dello stato d’animo, che essendo forzata è immancabilmente falsa – non è cosa ambita, anzi. Forse anche perché quegli amici conservano ancora un tradizionale ovvero innato istinto all’autonomia quotidiana, al cercare di cavarsela da soli, prima di dover chiedere ad altri. E, sia chiaro, non sto parlando di montanari retrogradi e asociali da poco usciti dalle capanne e dalle stalle di legno e paglia – in tal senso c’è molta più primitività civica e sociale in città, sotto parecchi punti di vista.
Insomma, giusto le parole che servono, non di più, mai fuori luogo, mai senza un senso necessario – almeno nei discorsi importanti. Un’abitudine derivante dall’essere di frequente soli, in quell’ambiente montano? No, non credo. Forse un tempo poteva essere così, quando la vita in montagna era certamente ben più ostica di quella attuale. Penso invece più alla preservata facoltà di comprendere l’essenza delle cose, di stare nel nocciolo di esse senza troppe divagazioni nell’inutilità d’intorno – una facoltà che senza dubbio la montagna aiuta a perseguire. Oppure – mi viene da pensare in modo forse esageratamente poetico – la capacità di saper ancora apprezzare il silenzio. Il silenzio della Natura, quel silenzio che a noi cittadini ci è stato vietato dalla nostra rumorosa, cacofonica società, che viene costantemente cancellato dall’incontrollato e insensato profluvio di parole proveniente da ovunque, che ci è stato imposto dalla TV – strumento fondamentale di controllo di massa, ça va sans dire – la quale ci ha abituato a sentire di continuo qualcuno che parla fino ad averci disabituato (strategicamente) ad ascoltare veramente. Quel silenzio che invece tra i monti probabilmente c’è ancora, e che rappresenta la condizione ideale per ascoltare, appunto, quanto si ha intorno e, ancor più, sé stessi.
Tornerò presto a trovare quei miei amici, su in Valtellina. Una volta ancora ci si saluterà come se ci si fosse visti ieri – e invece sono mesi che non passo da loro – si scambieranno tre parole, e poi magari si starà sul terrazzo ad osservare verso il possente orizzonte alpino fatto di boschi, cime, pareti e nevi eterne che chiude su tre lati l’orizzonte della valle, senza dire nulla. Ma ascoltandoci reciprocamente come difficilmente mi può accadere altrove.
Essendo piemontese, condivido pienamente ciò che dici, perché lo ritrovo anche sulle mie montagne. Purtroppo questo aspetto culturale è oggetto di sarcasmo e critica feroce da parte di chi viene dal sud o dai paesi caldi in generale.
Non voglio scomodare il vecchio detto dello sputare nel piatto in cui si mangia, per non generalizzare, ma solo dire che mi ferisce il fatto che non si capisca quanto valore, quanta affidabilità e serietà ci siano in quei silenzi, in quegli sguardi e i quelle strette di mano. Eppure i risultati dell’affermarsi nel paese di una cultura diversa sono sotto gli occhi di tutti…
Esatto. Il silenzio è una di quegli elementi vitali – ovvero della vita, indistricabili da essa, che piaccia o meno – che, con la solitudine, la meditazione, la lentezza, l’ascoltare e non il sentire ovvero l’osservare e non il vedere e tanti altri, la nostra società e il modus vivendi che ci hanno imposto hanno deciso di cancellare, ovvero di considerare un qualcosa di nocivo, di pericoloso. Forse proprio perché condizioni che, se vissute in modo virtuoso e non estremistico (non è che si debba stare in silenzio o da soli sempre, ma ogni tanto non può che far bene) riattivano quelle sensibilità che aiuterebbero gli individui a capire in quante trappole veniamo attratti e catturati quotidianamente. Invece il rumore è ovunque, tutti gridano, tutti corrono come pazzi chissà dove, tutti vogliono essere e avere tutto senza sapere perché (ma ciò non conta)… Perdiamo buona parte del senso della vita, così, e non ce ne rendiamo conto.
Grazie di cuore del tuo commento! 🙂