C’è un motteggio, in dialetto tipico milanese (ma esiste certamente un po’ ovunque), che suppergiù suona così: ogni ofelè al fa el so mestè. Significa “Ogni pasticcere deve fare la sua specializzazione”, nel senso che ognuno dovrebbe compiere ciò che gli compete, fare ciò che gli riesce bene e non altro, insomma, dacché quando avviene il contrario sovente ne scaturiscono dei gran pastrocchi.
Ora, disquisendo di Andrzej Żuławski, regista polacco non troppo noto da noi (se non per una certa fama di “maledetto” accompagnata da censure varie e assortite le quali, tuttavia, alla fine fan forse più bene che danno) ma apprezzato alquanto dalla critica internazionale, tanto da vantare in curriculum un’opera – Possession, del 1981 – premiata a Cannes, si potrebbe supporre la validità di quel motteggio citato, dato che Żuławski, dall’inizio degli anni ’90 in poi, ha diradato parecchio la propria produzione cinematografica per “trasformarsi” in scrittore, pubblicando nel complesso più di venti romanzi ma, appunto, non nascendo come autore letterario, quantunque si potrebbe discutere a lungo sulla contiguità delle due arti. Anche in veste di scrittore, Żuławski non è affatto noto in Italia, e di edito si ricorda solo il romanzo Barbablù, del 2003. Ora la casa editrice Alpine Studio – in verità specializzata in letteratura di montagna, come il nome fa intendere – cerca di mettere una pezza a tale “ignoranza” italiana sul regista polacco, pubblicando C’era un frutteto (1° ediz. Settembre 2013, traduzione di Marina Fabbri; orig. Byl sad, 1992), con una utilissima prefazione/contestualizzazione “storica” della stessa traduttrice e una bella introduzione al personaggio Żuławski di Mirella Tenderini…
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