Il CAI valtellinese denuncia sui propri social (vedi sopra) che per la quarta volta nel corso del 2025, dunque in soli tre mesi e mezzo, è stata lasciata aperta la porta del locale invernale del Rifugio Marco e Rosa, a oltre 3600 metri di quota sulla spalla del Bernina, lungo la via di salita italiana alla vetta. Locale che di conseguenza è stato invaso dalla neve che ha inzuppato e a volte rovinato quanto all’interno, in primis le brande e i materassi.
Proprio di recente ho scritto dei vandalismi registrati all’Oberaarjochhütte, in Svizzera, con il fornello a gas del bivacco danneggiato, dei libri bruciati e delle sedie nel forno: gesti deliberatamente infami, senza alcun dubbio. Al bivacco del Rifugio Marco e Rosa, invece, quanto accaduto potrebbe riportare “soltanto” a una (inopinatamente) reiterata superficialità: la porta chiusa non al meglio per imperizia, il vento forte che la spalanca, la neve che vi entra e fa danno. Un atto non deliberatamente cattivo, insomma, ma certamente potrei sbagliarmi; di certo non voglio prendere le difese di chicchessia.
Tuttavia, fosse pure stata solo mera superficialità, ciò non ridurrebbe la gravità dell’accaduto. Anzi: lo troverei piuttosto coerente con quella deresponsabilizzazione che spesso si può constatare in chi oggi frequenta le montagne a tutte le quote, e che in generale è facile riscontrare un po’ ovunque, nella società contemporanea. Deresponsabilizzazione che io interpreto con il non capire bene il “qui&ora” ovvero il portato della propria presenza in un certo luogo e delle azioni conseguenti: sia nel turista-merendero che sale in montagna, magari attratto soltanto da un video su Instagram o da una panchina gigante, e non sa nemmeno – e neppure gli interessa – cosa ha intorno e che peculiarità specifiche possiede il luogo in cui si trova, e sia nell’alpinista che, se sale fino alla Spalla del Bernina e magari poi prosegue fino alla vetta si potrebbe supporre che un poco di sale in zucca ce l’abbia (ma forse anche questo è un pensiero ormai troppo ingenuo, per i tempi attuali), e invece si comporta superficialmente al punto da lasciare aperta la porta di un bivacco a 3600 metri di quota facendovi entrare la neve e rovinando le cose all’interno, senza capire che così facendo invalida l’uso di un posto di ricovero fondamentale agli alpinisti che verranno dopo di lui e, peggio ancora, che magari potrebbero trovarsi in difficoltà – per colpa di una bufera improvvisa, ad esempio – e dunque trovando nel bivacco la possibilità di riparo e di sopravvivenza.
Poste le cose in questo modo, dal mio punto di vista, la maleducazione più o meno vandalica di alcuni e la superficialità deresponsabilizzante sono sullo stesso piano: due aspetti di forma diversa ma di uguale sostanza di come non ci si deve comportare in montagna, luogo speciale per mille motivi diversi e tra di essi anche per l’attenzione richiesta a tutti noi quando ci stiamo e riguardo a ciò che ci facciamo. La superficialità nel considerare e nel vivere le montagne è ciò che le mette a rischio di banalizzazione; la maleducazione è quanto invece le degrada: entrambe sono segno della mancanza di buon senso, a dir poco, di ignoranza a dir tanto, di meschinità a dirla tutta.
Alla fine il danno maggiore non è tanto quello arrecato alle cose, al corpo delle montagne, ma quello perpetrato alla loro anima e al valore culturale che scaturisce. E, lo ribadisco di nuovo, chi non è in grado di capire ciò è bene che dalle montagne se ne stia alla larga.