Un racconto inedito, tratto da una raccolta che ugualmente tale – cioè inedita – forse lo rimarrà ancora per molto tempo, se non per sempre. Perché si scrive una cosa, poi se ne scrive un’altra e un’altra ancora, quindi una di quelle diventa “preponderante” – il che non vuol dire automaticamente che sia la migliore, semmai è quella, per così dire, più nelle proprie corde di quel dato momento, e che finisce sul tavolo dell’editore. Per ciò, tutto il resto di compiutamente scritto al contempo finisce per rimanere nel classico cassetto, in attesa che un altro momento giunga, più consono, più propizio, o soltanto così creduto per chissà quale intuito, e chissà se giusto, quell’intuito, ovvero vacuo e ingenuo…
Buona lettura!

Aveva le gambe fasciate in jeans attillati, lunghi fino in terra, dal cui orlo sfilacciato sbucava la punta di scarpe dal tacco verosimilmente vertiginoso, che le stagliavano la figura in un paradiso estetico per il quale ogni settimo cielo non era che un basso, lontano e gretto secondo regno – e il sedere piccolo e sodo che reggeva un busto esemplare, quale metro di paragone anatomico d’una nuova razza esteticamente superiore, nel quale la vita minuta pareva esaltare oltre ogni pensabile limite di voluttà la forma del seno rendendolo persino esuberante, con quella maglietta leggera che riprendeva il colore della capigliatura, stretta, aderente, aperta senza indecenza alcuna sul decolleté ma ancor più sulla schiena, a scoprire una pelle di velluto roseo mossa appena dalle scapole, fin dove il contegno e la galanteria speravano fortemente vi fosse l’elastico del reggiseno, appena sotto il punto dal quale la stoffa della maglietta riprendeva a coprire quell’epidermide, e a mantenere vive e attive quelle virtù di cavalleria altrimenti in pericolo di svanire e mutare in pura concupiscenza… Ma il suo viso, peraltro, così dolce, tranquillo, delicato nei tratti, così illuminato da quel sorriso rifulgente e sereno incorniciato da labbra sensuali perché lussuriosamente pudiche, da quegli occhi ad ogni istante più azzurri, profondi ed espressivi, faceva di ogni possibile concupiscenza un desiderio di sublimità, plasmato dalle sue mani, dalle affusolate dita, dalle unghie curate e colorate d’avorio, dalle movenze sinuose, delicate, euritmiche alla sensualità più elevata, come leggiadri movimenti d’una danza ammaliante che il suo corpo eseguiva con la naturalezza d’un angelo che avesse rubato l’arte dell’incanto al diavolo più tentatore elevandola, al sommo apice di fascino e seduzione. Un’opera d’arte totale, definitiva, insuperabile, assoluta, per quel luogo, per quel momento, per quel contesto: la bellezza nella sua forma più pura e inauditamente perfetta.
Ed improvvisamente egli sentì il bisogno indispensabile di essere illuminato dalla sua luce, come se d’un tratto il suo corpo fosse mutato in penombra bisognosa di quel bagliore per non lasciare che la tenebra vincesse sulla luminosità vitale; e sentì che la luce da lei emanata era purissima energia, ne sentì la vibrazione provenire dalla sua meravigliosa figura come se ne sfolgorassero scintille infinite che lo avvolgessero e lo penetrassero nel loro fascio voluttuoso inebriandone i sensi, e scuotendone il corpo come se colpito da una scarica di immensa potenza sessuale…
Il colpo del fulmine d’amore? E cos’è, il cosiddetto e così bramato da tanti colpo di fulmine, se non un singolo istante di totale irrazionalità che storce improvvisamente l’intera vita fino ad avvilupparla attorno ad esso, ovvero causando l’opposto di ciò che dovrebbe essere? Ed esiste veramente, in fondo, o è soltanto l’abbacinamento d’un solo, unico attimo dell’intelletto che perde la propria ordinaria razionalità il tempo sufficiente a credere in ciò che mai avrebbe creduto senza quel lapsus? Un varco rabbrividente si spalanca all’improvviso, come se dal proprio punto vitale, da un istante all’altro, comparisse attorno a sé l’Universo intero in una forma che non potrebbe che apparire incredibile, impossibile, e parimenti ammaliante, irretente; e ogni varco invita al transito immediato, o all’arretramento altrettanto immediato, dacché aperto nell’istante presente e forse già svanito in quello appena successivo: è nel punto di giunzione e separazione tra quella irrazionalità che gode dell’abbacinamento e la razionalità che lo rifugge per mantenere la migliore visuale in fronte a sé, che si decide il transito o l’arretramento, e in cui si genera la voluttà o il dolore, la delizia o il rimpianto, la follia o il senno, un nuovo orizzonte vitale o un velo scuro che ne limiterà una parte e inviterà a voltarsi altrove…
La salutò, privo d’ogni altra parola e altro pensiero; lei gli rispose, illuminò nuovamente il suo viso con quello splendido sorriso, coi suoi denti bianchi e perfetti, coi suoi occhi iridescenti, piegando leggermente in avanti il corpo e incrociando le mani davanti all’inguine, così stringendo inconsapevolmente con le braccia convergenti il seno, che gli parve per un attimo aumentarsi in modo inconcepibile, tremando per un attimo la frangetta di quel colore indefinibilmente unico davanti agli occhi e poi, come in un ultimo fremito di voluttà, tutta la sublime figura, come per avviare l’ultimo, definitivo incantesimo. E gli sguardi, fissi l’uno all’altro, si scambiarono un’estrema, languida lusinga.
Uscì quasi affrettando il passo, dicendosi che era meglio così, e rispondendosi subito di quanto fosse stupido a pensarlo, e di come la razionalità, a volte, sia la cosa più irrazionale possibile…
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