Marcello Marchesi, “Sette zie” (Bompiani)

Una delle cose più belle e preziose che l’Italia abbia saputo “creare”, dal Novecento in poi, è stata quella mirabile schiera di autori letterari che in qualche modo è riuscita a salvare il paese e la sua cultura dalle cose invece più deplorevoli che hanno caratterizzato quel periodo. Tra di essi, se ne sono contraddistinti alcuni che, a fronte dell’evidente natura assai colta della loro produzione letteraria (declinate la definizione nei modi più vari), l’hanno immersa nell’ironia più potente e pungente, facendone un’indispensabile e acutissima “voce morale” del progresso socioculturale italiano del tempo e in generale l’espressione scritta di una visione trasversale acuta e illuminante della società nostrana. Ennio Flaiano, Achille Campanile, Giorgio Manganelli, Giovanni Guareschi, Leo Longanesi, Aldo Buzzi, Enrico Vaime… – inutile dire che l’elenco è lungo e assai pregiato: in esso entra con pieno diritto e grandi onori Marcello Marchesi, il quale seppe declinare la propria letteratura umoristica nei modi più diversi: come autore radiotelevisivo, pubblicitario, giornalista, sceneggiatore, paroliere musicale nonché, ovviamente, come scrittore.

Sette zie (Bompiani, 2001-2017, prefazione di Gianni Turchetta; 1a ediz. 1977) è uno dei suoi libri più famosi e dei pochi testi in forma di “romanzo” che abbia pubblicato. D’altro canto, definirlo così, come un “romanzo”, quantunque formalmente lo sia, è qualcosa che abbisogna di non pochi distinguo. Il libro racconta la storia di Amedeo, ragazzo milanese costretto a trasferirsi a Roma in casa di sette bizzarre zie una delle quali manca sempre all’appello e non si capisce perché, nel mentre cerca col tempo di scrivere un libro che tuttavia non gli riesce proprio di scrivere. Nel frattempo una seconda voce narrante racconta quanto accade a Amedeo offrendo una sorta di visione laterale delle sue vicissitudini, e verso la fine del romanzo una terza voce, assolutamente “non convenzionale”, entra a dire la sua, offrendo per qualche pagina una ulteriore narrazione della storia.

Come accennavo poc’anzi, mi viene da affermare che, posto quanto scritto sopra, Sette zie è dunque da considerarsi un’opera di metaletteratura, anzi, meta-metaletteratura: il romanzo narra di un tale che vuole scrivere un romanzo che a sua volta racconta una storia che è (sarebbe) il “romanzo” vero e proprio che fa il libro, ma che a ben vedere non lo fa più di tanto. D’altro canto parlare di romanzo, cioè utilizzare per Sette zie questo termine nella sua accezione ordinaria, è piuttosto difficile in quanto il libro non possiede un vero e proprio plot narrativo ovvero una trama classica, se non quella che si dipana attorno alla domanda su che fine abbia fatto la settima zia di Amedeo. Su questa sorta di “giallo”, sul quale il protagonista invero indaga nella maniera più svogliata, si innestano o divergono innumerevoli rivoli narrativi, di poche righe o di qualche pagina, con i quali Marchesi costruisce quella personale lettura della società italiana del tempo della quale i personaggi del libro rappresentano delle figure certamente significative.

Tutto questo, devo dire, non rende facile la lettura di Sette zie per chiunque si aspetti da essa ciò che dovrebbe scaturire da un testo ordinario, appunto: spesso sembra più una sceneggiatura, un plot teatrale, oppure un monologo di satira da stand up comedy o un “manuale di scrittura di dialoghi perfetti” o ancora un elenco di battute, sovente fulminanti (una delle migliori: «Padre, l’esclamazione DIO T’ASSISTA è una bestemmia?», «Dipende. Se c’è l’apostrofo no!», pag.12), attorno alle quali è stata costruita una storia per le quali cioè per la cui valenza è funzionale, non viceversa.

Insomma, leggere Sette zie, a mio modo di vedere, non è una cosa tanto semplice e ordinaria, soprattutto per le aspettative classiche al riguardo, eppure è una lettura assolutamente divertente, mai noiosa e costantemente piacevole. Anche se fino all’ultimo non si capisca bene dove voglia andare a parare ma ciò, sia chiaro, per preciso intento di Marchesi (lo mette in evidenza anche Gianni Turchetta nella sua prefazione), che si porta a zonzo lungo il libro il proprio lettore come farebbe con il turista una guida geniale tanto quanto eccentrica, che si diverta a dirigersi verso un certo monumento, poi cambi strada per andare verso un altro e poi devii ancora verso un ennesimo e intanto non smetta di parlare ma nel modo più affabulante e intrigante. Ecco, alla fine di un tour del genere magari si avrà l’impressione di non aver visto e capito nulla, invece, a pensarci un poco di più, si finirà per convincersi di aver visto molto e con gran diletto.

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