Leo Tuor, “Giacumbert Nau. Libro e appunti della sua vita vissuta” (Edizioni Casagrande)

Se può esistere un genere letterario che sia compiutamente definibile come “di montagna”, i suoi testi devono (dovrebbero) saper far parlare la montagna. E se la montagna può “parlare”, non parla certo come parlano le colline, con toni dolci e pacati, o lineari e razionali come le pianure ma di contro neanche con l’asprezza e la severità del mare, totalmente diversa. Usa un proprio linguaggio, un lessico particolare la cui forma è la stessa delle rocce, degli alberi, delle pareti, dei venti e delle bufere; ciò non toglie che possa disquisire più amabilmente come pare ci parlino certe sublimi praterie alpestri ma, nel caso, avendo sempre pinnacoli e precipizi pronti a conferire nuova durezza al linguaggio.
E se tutto ciò piò accadere, che la montagna possa parlare e che un libro possa fissare nero su bianco le sue parole, credo che tale testo, ad esempio, assomiglierebbe a Giacumbert Nau, di Leo Tuor (Edizioni Casagrande, Bellinzona, 2008, traduzione di Riccarda Caflisch e Francesco Maiello, 1a ed.orig. 1988), scrittore svizzero in lingua romancia (variante sursilvana, per la precisione) ed esponente di quella sorta di clan letterario grigionese che oggi a me appare come il vero custode (con rare eccezioni al di fuori di esso) dell’autentica parola delle montagne, ovvero della più compiuta “letteratura di montagna” in circolazione.

Giacumbert Nau è (se non sbaglio) l’esordio di Tuor, che di mestiere fa lo scrittore ma pure il pastore e il casaro in un minuscolo villaggio del Surselva (al riguardo date un occhio al meraviglioso sito web familiare dei Tuors – anche la moglie è autrice letteraria oltre che teologa), dunque non potrebbe essere più adatto a scrivere di montagne, tanto più delle sue, quelle dove da sempre vive e lavora. Forse proprio perché è il testo d’esordio, dunque non mediato da condizionamenti editoriali di sorta o da altre necessità autoriali, Giacumbert Nau appare come una formidabile manifestazione d’un linguaggio profondamente alpino, rurale, radicato e quasi ancestrale, espresso in una forma che include prosa sperimentale, poesia, appunti biografici e autobiografici, scrittura da flusso di coscienza, pensieri a volte apparentemente random ma perfettamente consoni al pulsante fluire narrativo. Il tutto, con parole che non ricercano nessuna estetica ma sempre una sostanza rude, scarna e sincera, obiettiva, totalmente priva di fronzoli e, anzi, che non evita ineleganze o crudezze ove non vi siano termini migliori ovvero più raffinati per raccontare. Parole che ci si aspetterebbe di sentire da una montagna vera, appunto, che non risparmia nulla a chiunque vi si debba relazionare e, anzi, che ne condiziona materialmente la quotidianità, il carattere, l’animo, la visione del mondo e delle sue realtà, a partire da quella turistica, presente anche sui monti di Giacumbert e vista dal protagonista del libro come la peste della montagna contemporanea, al pari dei politici che tutto decidono e stabiliscono ma nulla sanno della vita lassù, non essendoci mai stati se non per passatempi ricreativi o elettorali.

Che un testo del genere, così particolare e che senza dubbio può risultare ostico alla lettura per chi non sia abituato a cose originali – o per chi di contro sia abituato a racconti di montagna che tuttavia con essa non c’entrano nulla, a partire dagli immaginari e dai modelli narrativi dei quali si fanno manifesto scritto – abbia rappresentato l’esordio di Leo Tuor è cosa di sicuro sorprendente. Non di meno il libro si è guadagnato numerosi apprezzamenti e premi nonché l’inserimento della lista dei «Cento libri essenziali della letteratura svizzera»: altra cosa notevole, considerando l’alto livello di qualità letteraria espressa dagli autori della Confederazione. Credo sia facile indovinare che nelle vicende alpestri di Giacumbert narrate nel libro vi sia anche una bella parte dell’esperienza in tal senso di Tuor, così come vi sia, alla base di tutto il testo, un pensiero principale che si trova espresso proprio alla fine del libro, scritto sull’ultima pagina come una sorta di dedica d’epilogo, a sua volta espressa in una specie di forma poetica : «Questo libro è dedicato | a coloro che hanno venduto le nostre valli | e a coloro che oggi le vendono. | Che siano maledetti.» È una dedica che, per chi conosca le zone nelle quali è ambientato il libro cioè quelle del Surselva, dove Tuor vive, appare parecchio inquietante, anche al di là del tono con il quale è espressa: certamente anche in Svizzera, seppur paese più sensibile di altri agli aspetti ecologici del proprio paesaggio, le Alpi risultano diffusamente svendute alla patrimonializzazione più spinta a fini turistici ed economici, a volte con danni evidenti che il luccicore del marketing non riesce a nascondere a chi sappia osservare il paesaggio con attenzione; di contro, uno dei territori meno “venduti” e a prima vista ancora dotato d’una propria genuina autenticità è proprio il Surselva, le cui vallate laterali, soprattutto quelle che adducono a meridione, conservano spesso angoli di paesaggio alpino tra i più belli e apparentemente intatti di tutta la Svizzera. Ma Tuor lì ci vive da una vita e le parole che fa dire al suo pastore Giacumbert, così efficacemente condensate nella dedica suddetta, sembrano ancora di più suggerite dalla montagna locale, come se Giacumbert della montagna si facesse portavoce e ne manifestasse le emozioni, non esattamente accondiscendenti verso la maggior parte degli umani che vi salgono e che decidono su di essa e per essa.

La particolare bellezza di Giacumbert Nau deriva proprio anche da questo, dal non essere meramente un romanzo di montagna pur originale e intrigante, ma anche dal rappresentare una sorta di atto d’accusa della montagna verso chi non ne sa cogliere l’importanza, il valore, non sa capirne la realtà, non vi si relaziona col dovuto rispetto e l’adeguata consapevolezza culturale. Anche se poi la montagna, rude, possente, ostica, pericolosa, può diventare come pochi altri un ambito nel quale rendere compiuta una vita ovvero nel quale sentirsi realmente vivi. Proprio come accade a Giacumbert, pastore solitario e un po’ misantropo che vive in una bicocca sull’alpeggio coi suoi animali e tra i mille disagi d’una vita del genere ma che è vivo, lassù, come ben pochi possono esserlo parimenti laggiù, oltre il piede dei monti, nel mondo in basso che dalle cime dei monti si può ammirare nel modo più ampio e profondo e, dunque, si può conoscere meglio decidendo magari poi di evitarlo, come fa Giacumbert, che sceglie di “parlare” solo con le montagne, come le montagne.

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