Davide Sapienza, “I Diari di Rubha Hunish (Redux)” (Lubrina Editore)

Il “viaggio”. Quante definizioni, più o meno personali, si possono rendere interpretative del concetto e della pratica del viaggiare, di cosa possa essere, significare, rappresentare, elargire a chi la esercita? Il viaggio può svolgersi dall’altra parte del mondo o appena fuori la porta di casa; si può affrontare con mille attitudini, spiriti, predisposizioni di mente e d’animo, filosofie diverse; può essere turistico, culturale, avventuroso, esplorativo… può essere un motivo di relax, uno svago, un’esperienza, una fuga.

Oppure, il viaggio può essere la goccia che fa traboccare il tempo – come si legge sulla quarta di copertina de I Diari di Rubha Hunish, il masterpiece di Davide Sapienza che in questo marzo 2017 torna nelle librerie in versione Redux (Lubrina Editore, Bergamo; postfazione di Tiziano Fratus) ovvero integrata con sette nuovi capitoli e una parte inedita intitolata Il Tempo della Terra, che in qualche modo rappresenta il principale aggiornamento “spirituale” dell’essenza del libro, ma di contro recuperando l’originale (e celeberrima) copertina dell’edizione 2004 – la prima, quella edita da Baldini Castoldi Dalai.

Rubha Hunish è la terra più settentrionale della celebre isola scozzese di Skye: una scogliera brulla, di quelle tipiche delle Highlands, un promontorio erboso che si allunga nel Mare del Nord apparentemente senza molte attrattive se non quelle date dalla selvatichezza del paesaggio. Ma, come diceva Servio, “nullus locus sine Genio”: Rubha Hunish è un “luogo” nel senso più pieno del termine, e come ogni luogo possiede il proprio Genius Loci: sta al viaggiatore riuscire a incontrarlo e a intraprendere un dialogo con esso, attraverso cui generare il legame con quel luogo e conferire un valore non solo geografico ma pure antropologico e spirituale alla sua presenza lì. Ecco, Davide Sapienza ha saputo intrecciare un dialogo fremente e assai ricco con il Genius Loci di Rubha Hunish, facendolo diventare il proprio “Capo Nord”: un apice, una personale Thule, un fulcro attorno a cui far orbitare la dimensione spazio-temporale nella quale muoversi, indipendente da coordinate geografiche dacché legato a coordinate geopoetiche – quelle che, insieme ad altre peculiarità, hanno reso Sapienza un personaggio così particolare e per certi aspetti unico del panorama letterario contemporaneo.

Ma I Diari di Rubha Hunish non raccontano solo del viaggio nell’omonimo luogo – anzi, mi viene da dire che non raccontano di viaggi tout court: piuttosto raccontano, in maniera alquanto approfondita e intensa, del percorso circolare d’un viaggiatore dello spazio, degli uomini e del “tempo della Terra” (non a caso così si intitola la nuova importante parte de I Diari) lungo il quale non vi sono mete ordinarie, e che nemmeno rappresenta esso una meta (concetto, quello del “viaggio come meta”, sovente sostenuto da tanti e forse fin troppo banalizzato, alla fine) perché la meta è, se così posso dire, proprio l’uomo che viaggia. Non l’oggetto del moto – il viaggio, appunto – ma il soggetto che ne è protagonista e che in ogni singolo istante del suo moto nello spazio, nei luoghi e nel tempo, introietta il viaggio stesso e la sostanza del legame in costante strutturazione tra egli e il territorio attraversato – qualsiasi esso sia: urbano, naturale, selvaggio, esotico, estremo. Lo scrive, Sapienza, a pagina 15: “Io viaggiatore mi lasciavo visitare dalla terra, già padrona di me.” Il vero viaggiatore è proprio colui che non tanto visita una terra, ma si fa visitare da quella terra. È la tessitura a doppio filo di un legame profondo tra l’uomo e lo spazio, la materializzazione della duale accezione etimo-antropologica del verbo “essere”; come essenza – io sono – e come presenza – io sto. Qui, in effetti, risiede una delle peculiari valenze umane: la capacità di rapportarsi col territorio e di identificarsi in esso, di dialogare con la sua anima naturale, di rigenerare ogni volta attraverso l’unicità dei momenti vissuti lungo il viaggio il nostro legame con la Terra. Di armonizzarci nuovamente con il suo tempo, insomma, il ritmo vitale al quale tutte le creature viventi del pianeta devono correlarsi: ciò anche per comprendere una volta per tutte quanto, nel fondamentale rapporto (materiale e immateriale) tra spazio e tempo, il nostro vivere contemporaneo drammaticamente alteratosi al punto da rendere il mondo un luogo spesso invivibile ci stia distaccando dal tempo, ce lo renda sfuggente ovvero estraneo, alieno. Ecco: ci stiamo alienando dal tempo esattamente come sempre più spesso subiamo condizioni d’alienazione negli spazi quotidianamente vissuti e antropologicamente (dunque pure sociologicamente) stravolti. Il nostro viaggio, pratica umana imprescindibilmente vitale, sta diventando un frenetico testacoda attorno a un punto morto: annullandosi in tal modo, da esercizio di sopravvivenza – viaggio deriva da viaticum, termine latino che indicava la provvista vitale per chi si metteva in cammino – rischia sempre più di trasformarsi in una pratica di drammatica decadenza.

Ora, tuttavia, non dovete fraintendermi: Davide Sapienza, ne I Diari di Rubha Hunish va oltre qualsiasi concetto di “viaggio” – in fondo lo stesso vocabolo “viaggiatore” non è utilizzato che una decina di volte, in tutte le 260 e più pagine del libro. Allo stesso modo, I Diari supera il concetto di “libro di viaggio”, come già accennavo: semmai, è un libro che viaggia – nel tempo, con le numerose (ri)edizioni via via aggiornate, e nello spazio, attraverso le camminate geopoetiche che l’autore ormai da anni svolge in Italia e all’estero, le quali diventano causa/effetto della sua scrittura letteraria e della riflessione intorno ai relativi temi peculiari. In qualche modo, Sapienza torna all’origine più intima, se non filosofica, del senso del viaggiare, che si manifesta nello spazio esterno riflettendo un’identica manifestazione nell’interiorità dell’uomo in moto. Ha ragione Tiziano Fratus, quando nella postfazione denota che un po’ tutte le opere di Sapienza (dacché ce ne sono altre paragonabili a I Diari in quanto a forza espressiva geopoetica e lucidità narrativa, pur con forme, sostanze e approfondimenti diversi) sono “Una costellazione di intrusioni nella vita e nella visione, messo dal tentativo, a tratti gioioso, a tratti disperato, di riconoscere la realtà e riconoscersi nella realtà.” È in fondo quanto affermavo poco fa circa l’accezione duale del termine “essere”, attraverso cui si mette in lampante evidenza il legame tra noi tutti, essere umani, e il territorio che abbiamo intorno, che viviamo, nel quale viaggiamo, che dobbiamo comprendere al fine di comprendere noi stessi.

Mi fermo qui: il libro-viaggio che è I Diari di Rubha Hunish consentirebbe moti infiniti attraverso altrettanto infiniti spazi, luoghi, tempi, vite, storie, esperienze, visioni, sogni: ma è giusto che ogni lettore possa affrontare tutto ciò attraversando il piccolo/grande mondo rappresentato dal libro, con i suoi territori che sono le pagine dello stesso e le vie da seguire indicate dai segni grafici delle parole del testo che si dipana pagina dopo pagina realmente come un allettante sentiero da seguire. Parole intrise di poesia, sempre elegantissime, mai causali, costantemente intriganti.

Da leggere, insomma: perché se la lettura di un libro è a suo modo una forma di viaggio, quella de I Diari di Rubha Hunish è il viaggio che può fare d’ogni lettore un autentico e consapevole viaggiatore dello spazio, del tempo e della propria dimensione vitale.

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