«I viaggi sono i viaggiatori» scrisse Fernando Pessoa. È una frase che trovo bellissima e assai profonda, nel suo minimalismo fatto di tre sole parole fondamentali che però raccontano moltissimo del senso del viaggiare. Mi piace anche nella versione “ribaltata”: «I viaggiatori sono il viaggio», per lo stesso principio in base al quale il paesaggio esteriore, quello dove ci si muove e con il quale si interagisce viaggiandoci, si riflette sempre – nel viaggiatore autentico e consapevole – in un conseguente paesaggio interiore, che compendia e congiunge le forme dei luoghi visitati e la sostanza dei pensieri e dei sentimenti di chi li visita. Anzi, quello interiore nel viaggiatore suddetto diventa quasi sempre il paesaggio “primario”, quello dei due che dà senso all’altro e non viceversa, come verrebbe da pensare. Tutto ciò vale ancor più quando il viaggio viene intrapreso non solo come forma di conoscenza compartecipata e interattiva del mondo ma pure come pratica di rinnovamento, di trasformazione personale, di evoluzione mentale e spirituale, magari a seguito di un periodo difficile.
D’altro canto «Quando sei nel dubbio mettiti in moto» scrisse David H. Lawrence: un’altra affermazione che trovo fondamentale e lampeggia sempre nei miei pensieri, come un’insegna al neon. Il dubbio è spesso la conseguenza di una crisi, di una messa in discussione di alcune delle proprie certezze sulle quali si è deciso di fondare la propria quotidianità che invece si rivelano fragili. E la crisi, termine che viene dal latino crisis, in greco κρίσις, impone una scelta, una decisione (ciò significa letteralmente il termine), dunque un cambiamento, tanto più radicale quanto più l’origine è importante ovvero grave. Per Robert Weis, scrittore lussemburghese, paleontologo di formazione, il cambiamento conseguente a un periodo difficile è proprio il moto, il viaggio dall’altra parte del mondo, in Giappone, che rispetto al nostro di mondo rappresenta per molti versi un “altro” pianeta – soprattutto culturalmente, socialmente e sociologicamente: Ritorno a Kyoto (Gagio Edizioni, 2025, traduzione a cura dello stesso autore; orig. Retour à Kyôto, 2023) è il “diario” (uso questo termine per temporanea comodità, ma non è così adatto: spiego meglio più avanti) che racconta la sua esperienza al riguardo, il racconto di un viaggio fuori dal proprio mondo, dalla vita ordinaria prima vissuta, «dedicata più al mantenimento dello status quo che all’accettazione di un cambiamento» e al contempo dentro se stesso, lì dove è indispensabile ritrovare il mondo esteriore al fine di sentirsene pienamente parte e non un elemento variamente estraneo se non alieno.
Una vita, la nostra, a volte troppo ordinaria, per certi versi inesorabilmente, eppure nella quale – scrive Weis a pagina 17 – «ci sono sacche di bellezza: è la speranza che mi ha portato qui, la speranza di ritrovare quella dolcezza dell’attimo presente che trasforma le ferite della vita, il dolore di una separazione e un senso di fallimento che mi ha spinto in un vicolo cieco. Cercavo un’esistenza piena di senso e navigavo invece alla cieca in un mare ignoto, alla ricerca di un’isola, di un porto sicuro dove poter approdare e ricostruirmi». E più avanti l’autore rivela che «È stato durante una serata con una cara amica che la domanda chiave veniva fuori: “Cosa faresti se fossi libero da ogni vincolo?” “Prenderei un periodo sabbatico per viaggiare in Giappone, esplorandolo al mio ritmo, e magari tornare a meravigliarmi”».
Così Weis parte per il Giappone nel primo di una serie di altri viaggi e, per cogliere appieno le virtù di tale prescelta «terra di redenzione», sceglie come base Kyoto, l’antica capitale del paese e ancora oggi sua anima peculiare, dimora principale del suo Genius Loci. Conoscere Kyoto è conoscere il Giappone stesso, rimarca Weis citando lo scrittore americano Donald Richie, e conoscere il Giappone sarebbe stato conoscere una parte di sé. Come ho già accennato, il libro racconta questo viaggio multiforme di esplorazione, scoperta, cambiamento, rinascita: il processo di messa in relazione e poi di congiunzione sempre più stretta tra il paesaggio esteriore giapponese e il paesaggio interiore dell’autore, dunque pure con tutto ciò che egli si porta appresso nel suo peregrinare tra città, montagne, templi, angoli naturali e spazi antropizzati così diversi dagli ambiti domestici eppure così necessari a riscoprire pure questi, presso i quali inevitabilmente a fine viaggio tornerà. E per cambiare certi paradigmi apparentemente solidi se non incrollabili sui quali si è costruita una vita intera, il cambiamento necessario deve essere veramente rivoluzionario, e non solo dal punto di vista geografico: lo deve essere innanzi tutto mentalmente, deve mettere in discussione il pensiero ordinario al fine di costringerlo a elaborare decisioni che altrimenti non saprebbe prendere proprio per la mancanza degli elementi e delle motivazioni funzionali a ciò.
Per tali motivi ridurre Ritorno a Kyoto alla definizione di mero “diario di viaggio”, pur letterario, emozionale o altro del genere, mi sembra sbagliato – ho fatto cenno poco fa a questa evidenza. Certamente la lettura del libro fa conoscere tante cose che ad un viaggiatore verrebbero assolutamente utili nel caso di un tour in terra nipponica, ma c’è molto di più nel testo: c’è lo sguardo filosofico, la chiave di lettura antropologica, quella emozionale, quella ambientale per come l’osservazione di Weis del paesaggio è sempre attenta a ogni cosa, nella consapevolezza da egli elaborata – lo ipotizzo, ma credo senza troppi rischi di sbagliare – di dover accogliere in se e introiettare anche il più piccolo dettaglio di quel mondo, proprio perché anch’esso fondamentale per definire la più compiuta consapevolezza del duplice viaggio in corso – esteriore e interiore. Parimenti c’è la costante lettura geopoetica del paesaggio giapponese – Weis è anche curatore di alcuni testi di Davide Sapienza, il geopoeta – mediata attraverso numerose citazioni letterarie e alcuni propri componimenti brevi che condensano le più vivide visioni e le emozioni vissute nel corso del viaggio, ma soprattutto elaborata attraverso la modalità di osservazione profonda del paesaggio, non solo meramente sensoriale ma sempre mirata ad alimentare il cambiamento personale ricercato, la rivoluzione necessaria a poter tornare nel proprio mondo ordinario rinnovato e ripulito dalle scorie della vita passata.
A questo proposito scrive Weis nella parte finale del libro, a pagina 149, «I miei passi mi hanno condotto lungo un percorso all’interno di me stesso, verso quest’isola che si basta da sola. In Occidente si dice che nessun uomo è un’isola; in Oriente si dice: “Sii un’isola per te stesso”. È con questo pensiero in mente che affronto con serenità il ritorno in Europa. È solo un arrivederci: Kyoto, la Città-Giardino, non si è ancora esaurita». Infatti, come accennato, Weis a Kyoto e in Giappone ci tornerà altre volte ma, per molti versi, ormai da persona nuova, risanata, tornata capace di relazionarsi con il mondo – qualsiasi esso sia, domestico, lontano, conosciuto o meno – in maniera piena e compiuta. «Sii un’isola per se stesso» è un concetto che in fondo riporta nel suo significato a quel mio pensiero riguardo i viaggiatori che sono il viaggio, con il quale rileggo dal punto di vista opposto la nota affermazione di Pessoa citata all’inizio di questo mio testo. È vero, nessun uomo è un’isola perché viviamo inevitabilmente connessi con tutto il mondo che abbiamo intorno e con ciò che contiene, ma ogni uomo può e deve cercare di essere un’isola per se stesso al fine di rendere ben delineata e compiuta la propria esistenza, pregna di senso e di sostanza fruttuosa per sé e per ciò che ha intorno.
Ritorno a Kyoto è un libro molto bello e consigliabile, non solo per chi già coltivi qualche passione per il Giappone e la sua cultura. In fondo ognuno di noi ha e può avere un suo “Giappone”, un luogo nel quale (e grazie al quale) ricercare un cambiamento di visioni e di emozioni, un rinnovamento vitale, magari una fuga dalle incertezze quotidiane, elaborando la decisione più giusta per dirimere i propri dubbi.