Mirella Tenderini, “Le nevi dell’Equatore” (Alpine Studio)

cop_nevi_equatoreCredo che se tutt’oggi si raccontasse a molta gente comune (definizione qui con accezione del tutto letterale e neutra, sia chiaro) che nel bel mezzo dell’Africa, lungo la linea dell’Equatore e dunque in una zona del mondo che immediatamente richiama alla mente caldo infernale, zone desertiche e savane, leoni, giraffe, elefanti e quant’altro di affine, vi siano montagne con cime innevate e ampi ghiacciai, in tanti storcerebbero il naso e non ci crederebbero granché.
In fondo, da questo punto di vista, la situazione non è cambiata molto da quasi 170 fa, quando i primi esploratori europei presero a raccontare di altissime montagne scintillanti di ghiacci eterni al centro del “continente nero”, venendo presi per visionari in preda ad allucinazioni da febbre malarica o cose del genere. D’altro canto, un po’ per lo stesso motivo, l’aura leggendaria che allora circondava le tre grandi montagne africane, Kilimanjaro, Kenya e Ruwenzori, resiste ancora adesso, continuando ad affascinare gli alpinisti contemporanei che decidono di calcarne le vette massime e nonostante anche lì sia in atto un regresso delle superfici glaciali che la collocazione geografica non rende meno drammatico di quello in corso sulle Alpi o ai Poli.
E’ un’aura leggendaria che affascina anche a distanza, anche chi legga della sua essenza seduto su una comoda poltrona a migliaia di chilometri di distanza dacché scaturente da una storia altrettanto leggendaria, nel bene e nel male, che Mirella Tenderini – una delle migliori scrittrici di alpinismo ed esplorazione in circolazione – narra ne Le nevi dell’Equatore (Alpine Studio, 2012; 1a ediz. CDA&Vivalda Editori, 2000).
In effetti la storia della conquista delle più alte montagne africane è assolutamente emblematica della parallela conquista – dovrei usare il termine “colonizzazione”, ma il primo credo renda meglio l’idea – della parte interna dell’Africa da parte degli europei, ovvero è assai significativa di quello storico travaglio che ha caratterizzato il continente tra Settecento e Novecento (e che continua tutt’ora), cioè nel passaggio tra l’ultima fase pre-coloniale, il dominio colonialista europeo e le indipendenze della seconda metà del secolo scorso. Tenderini identifica un soggetto fondamentale che in qualche modo avvia la presenza esplorativa e poi insediativa europea nell’Africa centro-orientale intorno all’Equatore: il Nilo, il grande fiume (o “il” fiume per eccellenza del pianeta), la scoperta delle cui sorgenti è stata per secoli un chiodo fisso nella testa di innumerevoli esploratori e geografi. Proprio durante tali missioni esplorative, o in circostanze ad esse correlate, vi furono i primi avvistamenti delle grandi montagne innevate inopinatamente sorgenti dalla piatta e infuocata savana, i quali come detto vennero all’inizio negati, considerati frutto di miraggi o clamorosi abbagli. Tuttavia non ci volle molto affinché alcuni esploratori, divenuti poi in tanti casi personaggi leggendari, presero ad addentrarsi verso l’interno del continente, spinti da curiosità scientifiche e geografiche ma ancor più da ambizione e sogni di gloria, fino a sancire la realtà oggettiva di quelle misteriose montagne: fu l’epoca di Livingstone, di Stanley, di Speke, Emin Pascià, Romolo Gessi… Epoca di esplorazioni incredibili, veri e propri viaggi nell’ignoto di una terra che a pochi chilometri dalle coste rappresentava un mistero quasi assoluto e nel quale le varie spedizioni vagavano affrontando ogni sorta di pericoli e ostacoli – malaria, fame, belve feroci, tribù indigene sovente ben poco accoglienti – nel mentre che tutt’intorno la storia dell’Africa ribolliva di eventi spesso drammatici, dei quali protagonisti in negativo erano quasi sempre gli europei: tratta degli schiavi, invasioni colonialiste, deportazioni, guerre, massacri.
Nel mezzo di questa sorta di “sisma storico”, che stava trasformando l’essenza e il carattere antropologico e sociologico del continente africano, le grandi montagne dovevano sembrare già allora oasi di alpestre pacatezza, così elevate sui territori circostanti non solo altimetricamente ma pure spiritualmente, e capaci di donare una analoga elevazione oltre le nubi verso la purezza del cielo a chi decideva di salirle – e a chi decida tutt’ora: tale prerogativa è propria delle montagne di tutto il pianeta, e in fondo è forse il motivo principale per il quale vengono salite, l’anelito all’elevazione in senso assoluto che Longfellow riuscì a condensare nel suo celeberrimo motto Excelsior!
Così, nel 1889 venne raggiunta la massima vetta del Kilimanjaro, 10 anni dopo quella del Monte Kenya e nel 1906 il Ruwenzori – quest’ultima ad opera di un altro leggendario personaggio italiano, il Duca degli Abruzzi; ma è bene rimarcare che anche nella conquista del Monte Kenya c’è lo zampino italiano: Cèsar Ollier e Joseph Brocherel, le guide che accompagnarono il britannico Halford John Mackinder sulla punta Batian, vetta massima del monte, erano di Courmayeur.
Insomma, quella de Le nevi dell’Equatore resta tutt’oggi una storia bellissima e affascinante, lo ribadisco. E se già lo sarebbe di suo, lo diventa in modo irresistibile grazie alla sublime narrazione che ne fa Mirella Tenderini, veramente perfetta nel suo racconto tanto preciso nozionisticamente quanto articolato, coinvolgente, appassionante proprio come certi romanzi d’avventura eppure mai enfatico o ampolloso. È una sorta di sentito omaggio alle grandi montagne d’Africa, quello di Tenderini, che va al di là del mero racconto senza però debordare in “romanzature” eccessive, e riuscendo a (ri)costruire nel lettore l’aura leggendaria delle suddette montagne oltre che la percezione di un doveroso rispetto verso di esse, verso la loro immaginifica essenza, la alquanto delicata sostanza e verso i popoli autoctoni che di esse sono “figli”. Dei figli che troppo spesso sono stati strappati con la forza alle loro madri montane, entità così preziose e fondamentali per essi, per l’intero continente africano – nonché per tutto il nostro pianeta.