Matteo Righetto, “Il richiamo della Montagna” (Feltrinelli)

«Andare in montagna è tornare a casa». L’avrete probabilmente già letta da qualche parte questa celebre affermazione di John Muir (anche perché dà il titolo a una raccolta di testi del grande naturalista americano pubblicata in Italia): è un assunto dalle interpretazioni molteplici e profonde. Tuttavia, mi sembra che il più delle volte la parte di essa alla quale viene conferita più considerazione è la prima, l’andare in montagna ovvero l’esortazione a frequentare, certo consapevolmente, un ambito di rara bellezza e i cui benefici sono risaputi per come ci si senta bene a starci – proprio come «a casa», appunto.

Io invece trovo molto significativa la seconda parte e in particolar modo l’idea di “casa” che viene veicolata dall’affermazione di Muir: casa come luogo dell’abitare, che non significa semplicemente risiedere come invece spesso crediamo, e casa come ambito non solo simbolico nel quale si ritrova se stessi perché rispecchia ciò che siamo. Ed è molto interessante notare due cose, al riguardo: la prima, che il celebre psicologo americano Abraham Maslow, nell’elaborazione della sua piramide dei bisogni umani che oggi prende il suo nome, ha posizionato l’abitare nei bisogni di sicurezza, immediatamente dopo quelli fisiologici e perciò tra quelli basici come il respirare, il bere e il mangiare. La seconda, che l’altrettanto celebre John Ruskin, in merito all’abitare, scrisse: «Se gli uomini vivessero veramente da uomini, le loro case sarebbero dei templi, templi che non oseremmo tanto facilmente violare e nei quali diventerebbe per noi salutare poter vivere». Per inciso, era quel Ruskin che scrisse spesso anche di montagne le quali definì, in un’altra famosissima affermazione «le grandi cattedrali della Terra».

Capirete ora che le parole citate all’inizio di Muir assumono un ulteriore, profondo e potente significato proprio riguardo la relazione montagna-casa in esse contenuta, in fondo la stessa che con altre parole anche Ruskin descrive. Una casa che “ci contiene” come nessun altra nella quale possiamo trovare tanto protezione e rifugio quanto vitalità e iniziativa: ma, ovviamente, solo se vogliamo e sappiamo comprendere questa prerogativa montana.

Prende le mosse dalla formulazione di questa basilare necessità – tornare a comprendere la naturale e insostituibile relazione tra uomo e ambiente, base fondamentale della nostra presenza al mondo – Matteo Righetto nel suo ultimo libro Il richiamo della montagna (Feltrinelli, collana “Scintille”, 2025), una densa, potente, eloquente disamina del rapporto attuale tra gli uomini e la natura, in particolar modo quella montana, delle circostanze che in certi casi lo rendono distorto e pernicioso e di ciò che invece potrebbe (e dovrebbe) riallinearlo allo spazio e al tempo nel quale sussiste ogni cosa di questo pianeta, compresa la razza umana nonostante troppe volte, e sempre in modi variamente immotivati, essa se ne sia tirata fuori pensandosi superiore e per ciò titolata del diritto assoluto di dominazione su ogni cosa terrestre. Con puntuali, inesorabili disastri.

Proprio sulla storia di due recenti disastri alpini, considerati naturali nella loro manifestazione conclusiva ma in origine alquanto dipendenti dalle attività antropiche e dai loro effetti, cioè la Tempesta Vaia e il crollo del Ghiacciaio della Marmolada, Righetto costruisce la propria riflessione intorno alla nostra evidente incapacità (dacché smarrita, dimenticata, trascurata, ignorata) di relazionarci in maniera equilibrata con l’ambiente naturale come un tempo i vecchi montanari sapevano ancora fare e non solo perché non possedessero ancora le capacità tecnologiche per intervenirci più pesantemente, come poi noi uomini contemporanei abbiamo fatto. La loro era una lotta sussistenziale con la montagna, sovente dura, nella quale tuttavia era sempre presente la consapevolezza del dover mantenere con essa e i suoi elementi un equilibrio il più possibile ragionevole: era a suo modo una visione ecologica, più o meno inconsapevole e forzata ma comunque efficace, che tuttavia dal secolo scorso è stata rapidamente sostituita, e calpestata, da uno sguardo prettamente economico – ribadisco: sguardo, non visione, che è altra cosa) – sempre più spinto, consumistico, egoistico, che tutto rende “valore” e solo in tal senso conferisce “attenzione” alle montagne. Ma solo, appunto, se in qualche modo vendibili e dalle quali ricavare un tornaconto, senza considerare per nulla gli effetti conseguenti.

Tutto ciò, con buona pace dell’origine comune dei due termini e dei rispettivi concetti, “ecologia” e “economia”, ora diventati antitetici: tuttavia entrambi si poggiano sullo stesso elemento, oikos, da cui deriva la comune radice «eco-» e che in greco significa casa, guarda caso. La casa che abitiamo, la casa che rappresenta noi stessi, la casa che vorremmo fosse la più bella di tutte proprio perché nostra (ritornate alle parole di Ruskin che ho citato poc’anzi) e che non accetteremmo mai venisse in alcun modo rovinata, danneggiata, devastata. E invece perché lasciamo che ciò accada? Forse, perché a questa nostra casa non teniamo veramente, come invece vorremmo far credere.

La nostra società, scrive Righetto a pagina 47, soffre della «sindrome della fanciullezza permanente. Ciò che conta è: Fun! Fun! Fun! E poi ovviamente l’idolatria del Money! Money! Money!» Infatti è accaduto troppe volte che quella nostra casa sia stata svenduta per soldi e spesso al peggior offerente, che di rimando l’ha svilita trasformandola in uno spazio ludico-ricreativo, un divertimentificio per il quale il contesto è solo un contenitore suggestivo, funzionale soltanto alla messa a valore, al tornaconto da ricavarci, al quale dedicare soltanto uno sguardo vuoto, magari quello che serve per scattare l’ennesimo selfie da abbandonare poi alla non memoria dei social media. La società permanentemente fanciullesca deve pensare il meno possibile, vive per attimi in base al “paradigma della simultaneità” consacratosi proprio grazie ai social, ogni accadimento diventa un post da scrollare via velocemente senza nemmeno capirne il contenuto, che in pochi secondi viene bruciato. Non più di dieci, cioè il tempo che è durato il crollo del ghiacciaio della Marmolada e lo schianto di milioni di alberi durante la tempesta Vaia. Righetto insiste molto su questa “provocazione”, quando invece, scrive più avanti, dovremmo tutti quanto fare un respiro profondo e contare almeno fino a cento, così da avere più tempo per riflettere a ciò che sta accadendo alla nostra casa-montagna e «finalmente renderci conto che quelle montagne siamo noi» (pagina 81), che «il Tempo è un unico lento fluire delle cose che può essere definito come la distanza tra un’azione e le conseguenze che ne derivano» (pagina 51). Altro che dieci secondi, altro che pochi attimi e che simultaneità che detta il nostro frenetico vivere quotidiano! Il ghiacciaio della Marmolada è crollato in pochi secondi ma ci sono voluto decenni affinché si generassero le condizioni che hanno portato al crollo, alla cui base c’è in gran parte l’azione antropica sull’ambiente naturale e sul clima. La fisica insegna che il Tempo non esiste se non come manifestazione del moto: quel moto di collasso lentissimo ma per decenni costante del ghiacciaio della Marmolada che all’improvviso è diventato rapidissimo e devastante il quale tuttavia, evidentemente, non è stato affiancato dal moto dei nostri pensieri e dei nostri animi al riguardo, come sarebbe dovuto accadere se avessimo tenuto veramente, e ci tenessimo sul serio, alla casa nella quale abitiamo, tanto più se bellissima e delicata come quella della montagna.

Righetto a pagina 66 cita Scott Momaday, scrittore nativo americano vincitore del Premio Pulitzer per la narrativa nel 1969, che così scrisse: «Coloro che negano lo spirito della terra, che non vedono che la terra è viva e sacra, che l’avvelenano, le infliggono ferite e non provano vergogna, sono privi di valori umani fondamentali. E si coprono di ridicolo». È proprio ciò a cui viene da pensare di fronte a certi interventi antropici sulle nostre montagne e ai disastri che hanno comportato, e ancora di più constatando che alcuni vorrebbero continuare con quegli interventi così disastrosi – basti pensare a certe assurde opere previste per le prossime Olimpiadi di Milano-Cortina 2026 o ai progetti sciistici a quote dove ormai non nevica più e non ci sono più le condizioni ambientali affinché la neve permanga al suolo. «L’idolatria del Money! Money! Money!» appare inesorabilmente ridicola quando retta dal solo obiettivo del «Fun! Fun! Fun!» e si dimostra cieca alle conseguenze che genera ai luoghi, ai territori e alle comunità che assoggetta alle proprie iniziative.

L’antitesi a questa realtà palesemente ridicola e vergognosa è la svolta verso «una rivoluzione integralmente ecologica. Mettersi in ascolto del sacro richiamo della Terra» (pagina 87). Ascoltare la Terra negli ambiti in cui la propria voce appare pienamente sacra, le montagne, che di nuovo non casualmente Ruskin definì «cattedrali». Ma non c’è nulla di religioso o ultraterreno in tutto ciò, anzi: l’animismo basata sulla relazione tra uomo e natura «che ha riguardato il 99% della storia dell’uomo», scrive Righetto a pagina 93, «è stato calpestato coi mezzi della religione clericalizzata e dell’economia nel corso del recente 1% della nostra esistenza sulla Terra». Ovvero il periodo nel quale ci siamo autodefiniti Sapiens e che oggi molti studiosi definiscono Antropocene, quello in cui l’impatto della presenza umana sul pianeta si è fatto più ingente e devastante.

Ascoltare il richiamo della montagna, ovvero tornare a farlo, significa riconnetterci allo spazio e al tempo che viviamo accordandosi ai limiti del primo e al moto del secondo, diventandone elementi armonici e non più antitetici e dannosi. Significa tornare «nel flusso vitale primigenio che ci lega alla montagna e in essa ci permetti di riconoscerci», e per questo comprendere pienamente l’ineludibile necessità di salvaguardare la nostra relazione con la Terra e con il suo spirito, che proprio nelle montagne si fa potente e tangibile, nonché come sia altrettanto necessario riattivare la consapevolezza che «qualcosa debba essere fatto da ognuno di noi, a prescindere da quale sarà il nostro destino» (pagina 82). Perché quella casa che siamo noi, che ci rappresenta e che riflette ciò che siamo e che facciamo, è una casa comune, la abitiamo singolarmente e la gestiamo collettivamente, è un tempio che, parafrasando Ruskin, non oseremmo tanto facilmente violare – se avessimo piena contezza del suo valore – e nel quale diventa per noi salutare poter vivere. E lo è sempre di più, vista la realtà così avversata da mille criticità che stiamo affrontando.

Per tutto ciò, ovvero una piccola parte di quel tanto che ho tratto dalla lettura del libro, Il richiamo della montagna è un testo di grande importanza e necessaria lettura. Righetto nel testo ha saputo costruire una dissertazione potente, chiara, eloquente che è tanto un atto d’accusa contro chi ancora opera contro i territori montani, il loro ambiente naturale, le loro comunità, l’identità culturale, la bellezza – patrimonio comune inestimabile e insostituibile – quanto un appello all’azione individuale e collettiva alla salvaguardia e allo sviluppo sostenibile delle montagne, atti politici, civici e culturali che portano vantaggio a chiunque e a ogni cosa, anche alle nostre città che ci sembrano così lontane in ogni loro cosa rispetto ai territori montani – un dualismo antitetico che deve essere al più presto superato, come Righetto stesso afferma.

Ascoltare il richiamo della montagna per tornare a casa, insomma, citando nuovamente John Muir. Non solo la casa più bella che abbiamo a disposizione ma anche la più necessaria, che non possiamo permetterci di vedere deteriorata o peggio distrutta: perderemmo buona parte della facoltà di abitare questo nostro mondo.