Franco Michieli, “Le vie invisibili. Senza traccia nell’immensità del Nord” (Ponte alle Grazie)

È ancora possibile esplorare qualcosa sul nostro pianeta, oggi che sul web esistono innumerevoli strumenti i quali ne rivelano qualsiasi minimo angolo, anche il più lontano, in certi casi dando quasi l’impressione di esserci stati per la gran quantità di informazioni che mettono a disposizione?

Verrebbe da rispondere di no a questa domanda, sia perché, se esplorare significa scoprire cose nuove, di spazi sconosciuti sulla superficie della Terra ormai non ce ne sono più, sia perché obiettivamente non serve più farlo, appunto, avendo altri mezzi che lo consentono con raffinatezza suprema – i satelliti e le loro mappature super dettagliate, ad esempio – senza dover rischiare la pelle.

D’altro canto, forse la situazione appena descritta e in generale l’evoluzione scientifica alla quale siamo giunti rendono la domanda suddetta fuorviante e non più corretta. Ovvero: chiusa l’era dell’esplorazione geografica propriamente detta del mondo, oggi c’è probabilmente bisogno di altre “esplorazioni” atte a (ri)conoscere il pianeta sul quale viviamo, che come ogni spazio possiede certamente una finitezza e dei limiti materiali ma, ancora per chissà quanto tempo, non ne avrà di immateriali – in effetti credo che nessuno possa dire di sapere tutto ciò che c’è da conoscere del nostro mondo, anzi, di cose da scoprire ce ne sono un’infinità, non è così difficile immaginarlo. E una delle nozioni fondamentali che ancora conosciamo molto poco o, per meglio dire, della quale ignoriamo la gran parte del valore culturale (e non solo) che possiede, riguarda noi – esseri umani, Sapiens – rispetto al mondo che viviamo, la nostra relazione con esso, con i suoi ambienti, con i suoi paesaggi. In parole povere: abbiamo esplorato praticamente tutto il mondo, ma quanto abbiamo esplorato ed esploriamo noi stessi in relazione a questo nostro mondo?

Franco Michieli, che “esploratore” propriamente detto lo è e tra gli italiani più rinomati – oltre che geografico, alpinista, scrittore – ha intrapreso la propria attività esplorativa ai quattro angoli del mondo sviluppandone col tempo un’elaborazione interiore che si è fatta prima complementare a quella meramente geografica e poi preponderante: una nuova modalità di esplorazione lungo le vie (spesso invisibili, appunto) che corrono tra i paesaggi esteriori e quelli interiori le quali dei primi si fanno rappresentazione sempre più intensa e profonda fino a che, per così dire, la dinamica si ribalta e sono i secondi a “rielaborare” i paesaggi fisici. Questo lungo percorso di duplice affinamento della pratica esplorativa Michieli lo ha soprattutto sviluppato nelle terre del Grande Nord, percorse fin dall’età di vent’anni e poi innumerevoli volte, così diventate territori dell’anima più di ogni altro, con i quali ha sviluppato un legame particolare e profondo. Alcuni dei suoi più significativi viaggi iperborei Michieli li ripercorre in Le vie invisibili. Senza traccia nell’immensità del Nord (Ponte alle Grazie, 2024): dalla Norvegia alla Groenlandia, dalle Lofoten alle Shetland all’Islanda, prima attraverso una modalità esplorativa tradizionale con carte e bussola e poi, come accennato, elaborando la propria peculiare “nuova” esplorazione, senza più alcun strumento di navigazione e con il solo uso dei segni naturali, dei sensi, dell’istinto e di eventuali mappe mentali, esattamente come facevano gli esploratori fino a qualche secolo fa, nell’epoca precedente all’invenzione degli strumenti suddetti.

Perché questa scelta, per certi versi radicale e estrema? Proprio per ri-scoprire i territori esplorati e l’essenza stessa dell’idea di esplorazione, senza alcun elemento di artificiosità nella relazione intessuta con quei territori, altrimenti destinato inevitabilmente ad alterarne il valore profondo in forza della propria mediazione tecnologica – manifestazione mirabile del progresso umano, certamente, ma di contro avulsa dalla più naturale (e primordiale) relazione tra uomo e ambiente naturale. Una forma di esplorazione elaborata per farsi di nuovo parte integrante in senso assoluto della Natura attraversata, per rimettersi in equilibrio e in armonia con i suoi elementi, per risvegliare e ritrovare istinti fondamentali che la citata tecnologia ci ha permesso di trascurare ma che sono e restano parte del nostro essere creature intelligenti e senzienti, e che resterebbero assolutamente utili alla nostra vita quotidiana nel mondo anche in presenza delle tecnologie più avanzate e raffinate. In fondo, un’esplorazione utile a ridare un senso autentico all’essere Sapiens, animali progrediti e avanzati come nessun altro ma sempre sul punto di fare passi indietro nell’evoluzione intellettuale, culturale e spirituale, proprio perché troppo assuefatti e viziati dal nostro stesso progresso: come scrive lo stesso autore a pagina 208, «Avremmo testimoniato un processo opposto a quello dell’esplorazione predatoria: non mappare e denominare le ultime «macchie bianche» per metterle sotto il proprio controllo, ma ricrearle per conservare il confronto della persona con l’ignoto, dimensione indispensabile alla crescita umana. È saggio esercitarci nel sapere di non sapere.»

Ne Le vie invisibili Franco Michieli racconta questo percorso di elaborazione della propria pratica esplorativa, durato decenni, attraverso la narrazione dei suoi viaggi nelle terre del Grande Nord che sono risultati fondamentali per il suo percorso e ancor più per la filosofia (termine niente affatto esagerato, come dimostra lo stesso accenno socratico nella citazione lì sopra) che si è formata passo dopo passo, pensiero dopo pensiero, per la quale l’abbandono di ogni ausilio tecnologico all’orientamento ha rappresentato quasi più una decisione spirituale e filosofica, appunto, che puramente razionale, nonostante poi sia stata elaborata con grande raziocinio e lucidità mentale. Ma il processo di (ri)connessione tra paesaggio esteriore e paesaggio interiore del quale ho scritto poco fa si è sviluppato anche grazie alla correlazione sempre più compiuta tra razionalità intellettuale e impulsi istintivi, a partire dal «perdersi per ritrovarsi» (ulteriore principio cardine dell’attività esplorativa di Michieli nonché tema fondante di un altro suo libro) cioè, semplicemente, dal seguire l’istinto di abbandonare i sentieri già tracciati per trovare una propria personale, nuova via con la quale attraversare il mondo, da inventare e poi elaborare attraverso la razionalità – ma una razionalità selvatica, ben più adatta ad armonizzarsi all’ambiente naturale di quella basata (e assoggettata) alla tecnologia. Scrive ancora Michieli a pagina 20 del libro: «Chi segue un itinerario già tracciato non ha bisogno di conoscere l’enorme gamma di forme della Terra, prodotte dall’orogenesi, dall’erosione e dal clima. Basta seguire la linea esistente. Al contrario, inventare percorsi che non ci sono, mettendo subito dopo alla prova le proprie ipotesi, insegna a intravedere la Terra prima di averla incontrata e a comprendere i più svariati scenari naturali. Le morfologie e i terreni si proiettano nell’interiorità». Ecco qui, di nuovo, le morfologie esteriori che si proiettano e danno forma all’animo, allo spirito, all’interiorità di chi le esplora relazionandosi con esse in maniera profonda e compiuta.

Per tutto ciò, diversamente da altri suoi libri Le vie invisibili appare al lettore come una sorta di “ordinario” diario di viaggio nel quale la narrazione delle giornate trascorse, dei luoghi esplorati e delle circostanze vissute in cammino appare preponderante rispetto a quella delle relative considerazioni e meditazioni personali. Invece, a mio parere, il libro offre in realtà un’affascinante narrazione indiretta, magari “nascosta” ma facilmente rilevabile se si comprende il senso e lo scopo dell’attività esplorativa di Franco Michieli: proprio attraverso la descrizione geografica dei territori e dei paesaggi si coglie quella della geografia interiore, del paesaggio dell’animo che passo dopo passo si forma armonicamente alla costante scoperta visiva del territorio durante il cammino. Michieli racconta i propri viaggi per raccontare se stesso come individuo in evoluzione, in cammino nel proprio percorso esistenziale che cambia costantemente proprio come cambiano i paesaggi nell’attraversarli. È d’altro canto ciò che sostenne Fernando Pessoa in quel suo celebre passo de Il Libro dell’Inquietudine: «I viaggi sono i viaggiatori. Ciò che vediamo non è ciò che vediamo ma ciò che siamo». E i paesaggi, come disse Lucius Burckhardt, non vanno ricercati nei fenomeni ambientali ma nelle teste degli osservatori: in effetti le esplorazioni lungo le “vie invisibili” di Franco Michieli tracciano una rete di cammini geofilosofici che riescono a unire tanti principi pragmatici fondamentali che dovremmo saper considerare nell’elaborare la nostra presenza di Sapiens nel mondo, anche senza avere alcuna velleità esplorativa. Ma a ben vedere non è a suo modo un’esplorazione quella che noi compiamo giorno dopo giorno, come passo dopo passo, attraverso lo spazio che forma il nostro mondo quotidiano e il tempo della nostra esistenza? E quante volte, senza renderci conto, finiamo per seguire “sentieri” tracciati da altri, magari poco o nulla consoni alla nostra personalità, per pura comodità o per mera apatia, senza sapere di non saperlo e così evitando di trovare, inventare e seguire una nostra strada, ben più in grado di (ri)connetterci con il mondo che viviamo e con tutto ciò che contiene?

Ecco, credo che a tali domande – e a molti altri interrogativi, pensieri, dubbi, ispirazioni – possiate trovare ottime risposte, in varie forme, ne Le vie invisibili. Un libro affascinante, intenso, denso, assolutamente da leggere, scritto da un autore – una figura illuminante e ispirante come poche altre.